L'intervento congiunto sui tassi di giovedì non è bastato a ridare fiducia alle Borse. L'euforia per il summit Ue è scomparsa in 48 ore. Ora occhi puntati sulla Fed. E sul motore bloccato da cui tutto parte: l'economia reale
(di Federico Rampini - Repubblica)
Crescita "anemica" in America col tasso di disoccupazione inchiodato all'8,2%. La Triplice delle banche centrali umiliata dai mercati. Il nodo delle banche spagnole torna a dominare le paure: ormai all'ordine del giorno c'è un salvataggio della Spagna come stato sovrano, non dei singoli istituti. Il Fondo monetario estende l'allarme per un rallentamento a tutte le ex-locomotive emergenti, dalla Cina all'India. Quattro colpi duri, quattro sviluppi nefasti in sole 48 ore.
La settimana si è chiusa in un clima completamente rovesciato rispetto all'euforia del 29: ogni illusione suscitata da quel summit Ue si è già dissipata da tempo. L'ultimo venerdì di giugno sembra una data lontanissima nella storia, per il ritmo convulso degli eventi. La realtà si è presa la sua rivincita, e dice che nulla è cambiato nell'eurozona otto giorni fa.
La Spagna per collocare tra gli investitori i suoi titoli del Tesoro è costretta di nuovo a offrire rendimenti vicini al 7%: cioè insostenibili nel medio-lungo periodo. Avevano ragione dunque quei "maligni" del fronte euroscettico angloamericano, dai grandi media Usa agli uffici studi delle banche di Wall Street e di Londra, che non credettero alla versione del trionfo di Mario Monti su Angela Merkel.
Lo scudo anti-spread si è già arenato di fronte alla minaccia di un veto della Finlandia e a quella - ben più sostanziale - della Csu bavarese che è parte della coalizione di governo a Berlino. Dunque non ci saranno i massicci e risolutivi acquisti di bond italiani e spagnoli per arginare l'escalation dei rendimenti. Peggio: neppure l'operazione-salvataggio delle banche spagnole va in porto come si era sperato e creduto al summit del 29.
La novità risolutiva in quel caso doveva essere la ricapitalizzazione diretta: fondi travasati dall'Europa alle banche stesse, senza passare attraverso il Tesoro di Madrid. Era indispensabile quel passaggio diretto, per spezzare "il circolo vizioso tra debiti bancari e debiti sovrani", così era stato spiegato a Bruxelles otto giorni fa. Chiaro: bisognava evitare cioè l'effetto perverso di un'esplosione del debito pubblico spagnolo, che è automatica se gli aiuti transitano prima sul bilancio dello Stato. E invece il "circolo vizioso" è vivo e vegeto, più funzionante che mai. Con una giustificazione iper-tecnicistica: l'attuale fondo salva-Stati Efsf non può ricapitalizzare direttamente le banche, potrà farlo solo il suo successore Esm quando sarà nato, in futuro.
Arrivarci, al futuro. La ragione vera è politica. Angela Merkel ha detto sì alla ricapitalizzazione diretta delle banche spagnole solo "dopo" che sarà creata una vera vigilanza europea su tutti gli istituti di credito. Richiesta logica e ragionevole. Ma i mercati hanno capito subito che ciò equivale a rinviare tutto verso orizzonti lontani: della vigilanza europea si parla da tempo, le resistenze nazionali sono enormi, quella European Banking Authority che doveva esserne l'embrione è una patetica e impotente caricatura.
La Bce di Mario Draghi ha le sue reticenze e riserve sull'argomento, per non essere in conflitto d'interessi chiede una separazione rigida, una "muraglia cinese" fra i due mestieri di prestatore di ultima istanza e di guardiano dei suoi "clienti" (i banchieri). Insomma ci vorranno ancora mesi, se non anni, perché qualcosa di concreto appaia. Nel frattempo gli investitori stanno suonando le campane a morto per la Spagna, i rendimenti che esigono per sottoscrivere i suoi bond la spingono inesorabilmente verso il default. Ora si torna a parlare di un vertice "risolutivo", stavolta è l'Ecofin di questo lunedì: ma ormai l'eurozona ha speso le ultime riserve di credibilità, a furia di evocare la sua "ultima spiaggia" forse ci sta arrivando davvero.
Il disastro dell'eurozona ha già contagiato ampiamente il resto del mondo. Non lo dice solo la direttrice del Fmi Christine Lagarde che ammonisce sul rallentamento generalizzato dagli Stati Uniti ai Brics. Lo dicono soprattutto le reazioni dei mercati al "giovedì della Triplice", la giornata in cui Bce, banca centrale inglese e cinese sono intervenute simultaneamente con tagli dei tassi d'interesse e pompaggio di liquidità d'emergenza. Un flop micidiale, un buco nell'acqua, che non ha ricostituito la fiducia neanche per pochi minuti.
Uno spettacolo d'impotenza disarmante, che si riverbera adesso anche sulla più potente e rispettata delle banche centrali, la Federal Reserve americana. Saprà essere efficace lei, dove le altre hanno fallito? Le attese di un intervento salvifico della Fed si sono rafforzate ieri, dopo un altro dato deludente sul mercato del lavoro americano. Appena 80.000 posti di lavoro in più, il saldo netto del mese di giugno fra nuove assunzioni e licenziamenti: pochi, troppo pochi per un'America che è uscita dalla recessione con 15 milioni di disoccupati (reali). E infatti con una crescita così debole il tasso di disoccupazione resta inchiodato all'8,2%, un record storico per un periodo così prolungato dal dopoguerra.La Fed ha il dovere istituzionale di agire contro la disoccupazione, questo ne ha sempre fatto una banca centrale più interventista e risoluta di altre. Ha anche interesse a non lasciare che s'indebolisca troppo l'euro, perché già ieri a quota 1,22 era avviato su un piano inclinato che non piace all'industria esportatrice americana. Ma la Fed è entrata da tempo nel suo "semestre bianco": il banchiere centrale Ben Bernanke deve meditare se gli convenga agire troppo energicamente quando manca così poco all'elezione presidenziale. Il 6 novembre potrebbe vincere il repubblicano Mitt Romney, che al momento del rinnovo dei vertici della Fed forse si vendicherebbe contro chi ha aiutato troppo Barack Obama.
Più ancora dell'elezione, un'altra angoscia esistenziale attanaglia Bernanke: e se la Fed dovesse fallire, come hanno fallito le sue consorelle dall'Europa alla Cina? Il tasso d'interesse negli Usa è già a quota zero: da tre anni e mezzo. Le precedenti operazioni di massiccia iniezione di liquidità hanno fornito una "droga leggera" a Wall Street e alle banche Usa, ma non hanno sostanzialmente rinvigorito l'economia reale.
La politica monetaria ha dei limiti, conosciuti fin da quando li studiò John Maynard Keynes durante la Grande Depressione. Esiste una "trappola della liquidità", nella quale la moneta viene inghiottita e scompare: se manca fiducia tra i consumatori e le imprese, il denaro può anche costare zero ma nessuno lo prende e lo spende. Draghi lo ha ricordato usando un'altra immagine: "Non si può spingere con una corda". Un suo predecessore alla Banca d'Italia, Guido Carli, aveva coniato l'espressione "il cavallo non beve".
Negli Stati Uniti uno studioso della Depressione come Bernanke ha immaginato ogni possibile "offensiva anti-convenzionale" fino a ipotizzare una Fed che manda elicotteri a lanciare banconote su tutti gli Stati Uniti: resta da verificare che i consumatori beneficiati dalla manna celeste la vadano a spendere, non a tesaurizzare per accumulare un risparmio precauzionale (o per ripagare i propri debiti). Il Fondo monetario evoca un altro Armageddon entro la fine dell'anno: nella stasi tra Obama e la Camera a maggioranza repubblicana, scatterebbero degli aumenti automatici d'imposte riducendo ulteriormente il reddito disponibile e il potere d'acquisto delle famiglie. È quello il motore bloccato su cui il Fmi attira l'attenzione: l'economia reale, a cui nessuno sta rifornendo il carburante.
(Federico Rampini)
Cos'altro aggiungere? Solo che purtroppo il mondo ha scarsa memoria. Davvero si pensava che la corsa dello spread si sarebbe fermata, quando già 24 ore dopo il trionfalismo del vertice economico la Merkel era già in giro a spiegare che - lei vivente - mai si sarebbe arrivati agli eurobond? E che il meccanismo anti-spread ci sarebbe stato, ma dopo aver fatto alcune piccole cosine che non si faranno mai? Davvero si pensava che la Merkel avrebbe rinunciato a farsi finanziare il debito pubblico dagli altri paesi?
Ma l'ultima follia è stata quella di aspettare come un toccasana la riduzione di un quarto di punto nei tassi s'interesse da parte della BCE. Bene ha fatto Rampini a ricordare ai distratti la celebre frase di Guiro Carli, "il cavallo non beve". Questa frase si riferiva sia agli investimenti che alle quotazioni di borsa, essendo le due cose collegate. Il "cavallo non beve" stava a significare che in presenza di una profonda, strutturale crisi della domanda, si può ancxhe regalare il danaro a tasso zero alle imprese: queste ugualmente non investiranno in nuovi impianti produttivi, destinati a produrre merci che i consumatori non comprano.
Rampini, uno dei pochi commentatori "forniti di memoria", certamente ricorda delle periodiche, continue discese a "tasso zero" del costo del danaro in Giappone. Ci sono state a metà degli anni ottanta, e poi nel '91, nel 2001, nel 2005, nel 2010... Niente da fare. Il cavallo non beve. Le monomaniacali politiche SOLO di bilancio della Merkel producono e chiedono agli altri paesi di produrre solo ulteriori cali di sicurezza, di reddito, di tassi di occupazione, di consumi, di domanda, e poi muovamente di calo di domanda di beni strumentali, in un circolo vizioso di cui non si vede la fine.
La festa dello spread dopo i clamori del 29 Giugno è durata meno di 48 ore. Il festino delle borse ancora meno. Il calo di un quarto di punto nei tassi della BCE ha fatto crollare di nuovo le borse. Davvero si pensava che abbassando di 0,25 punti i tassi d'interesse, l'economia avrebbe fatto come nello spot di Gatorade? "Gatorade, e riparti di slancio". Sembra che non sia "as simple as that"
A chi fosse interessato a capire la inutilità di certe iniezioni di viagra praticate a pazienti in coma vegetativo, consiglierei la lettura di questo articolo:
La continua crisi dell'economia giapponese - di Makoto Itoh
"...i mitici anni in cui il Giappone cresceva ad un tasso doppio rispetto alla media occidentale e si conquistava un primato in tutti i settori industriali di punta sono finiti da tempo. L’ultimo decennio ha visto l’economia giapponese immersa in una stagnazione quasi assoluta, prodotto dell’esplosione della immane bolla speculativa degli anni 80. Le contradditorie politiche neoliberiste applicate dagli ultimi governi a tutto servono tranne che a rimettere in moto il regolare meccanismo della crescita..."
Più avanti l'articolo parla delle ripetitive (e sempre inutili) politiche del "tasso zero" praticate nei decenni dal Giappone per uscire da una crisi che da tempo è sistemica:
"...per stimolare la domanda interna e alleviare le difficoltà del sistema bancario, la Banca del Giappone ha via via ridotto il tasso di interesse ufficiale dal 6% nel 1990 all’1,75 nel 1993, continuando ad abbassarlo ulteriormente fino al minimo storico dello 0,5% nel settembre del 1995, superato poi dallo 0,1% del settembre 2001. Ma le banche non sono riuscite ad usare le facilitazioni di credito offerte della Banca del Giappone per espandere le capacità di prestito dato che il valore del loro capitale continuava a diminuire..."
Makoto Itoh é docente di economia presso l’Universitá Kokugakuin di Tokyo nonché Professor Emeritus dell’Universitá di Tokyo. È nato a Tokyo nel 1936 e ha insegnato in svariate università estere. Fra le altre opere é autore di The Japanese Economy Reconsidered (2000), Political Economy of Money and Finance (1999), Political Economy for Socialism (1995), e The Basic Theory of Capitalism (1988).
Peccato che - essendo l'articolo del novembre 2002, non abbia fatto in tempo ad occuparsi degli altri due fallimenti di queste politiche: quello del 2005, e quello del 2010.
Adesso è proprio giunto il momento che l'Italia smetta di dire solo dei si, e cominci a far valere il potenziale ricattatorio (se vi piace chiamarlo così) di un paese al quale è stato consentito di accumulare da solo un quarto dell'indebitamento dell'intera area euro. E' la nostra debolezza, ma anche la nostra forza.
Come è noto, in un microsistema come può essere quello costituito dai rapporti fra una banca e un creditore, la banca è molto dura con chi ritarda il pagamento di una rata del frigorifero, ma è impotente di fronte ai grandi - e spesso inesigibili - crediti concessi ai grandi gruppi industriali. Portare alla bancarotta un grandissimo gruppo, significherebbe dover iscrivere di colpo a bilancio, fra le perdite, una cifra che fino al giorno prima era iscritta fra le attività. Se già il mondo è spaventato dal défault di un paesetto che produce solo yoghurt acido e formaggio pecorino, cosa succederebbe se un paese come l'Italia dovesse anche solo ipotizzare un suo dèfault controllato? L'Italia starebbe malissimo, ma la Germania della Merkel non scoppierebbe di salute. Tafanus
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