Ieri avevamo pubblicato l'articolo di Francesco Merlo che stigmatizzava la prassi fascistoide di Beppe Grillo di muovere attacchi personali (a volte persino con caratteristiche razziste) agli avversari.
In tempo reale, il grillaceo DOC Marco Travaglio era sceso in campo sul suo giornale (Lo Sfatto Quotidiano), in difesa dell'insultatore Grillo. Vi risparmio le sue tesi, che sono peraltro ampiamente riprese oggi nella replica a Travaglio di Giuliano Santoro, autore del pamphlet "Un Grillo Qualunque".
Fatti contro fatti, opinioni contro opinioni. Pubblichiamo in calce un estratto della replica di Giuliano Santoro a Marco Travaglio (dalla quale si deduce anche il contenuto dell'articolo di Travaglio, che vi risparmio), e di un articolo/intervista ripreso da Rifondazione.it su Giuliano Santoro e sul suo libro. Tafanus
L'articolo di Giuliano Santoro in replica a Marco Travaglio
Marco Travaglio quest’oggi utilizza il suo corsivo quotidiano sulla prima pagina del Fatto per attaccare duramente Francesco Merlo. La firma di Repubblica aveva scritto a proposito dell’abitudine di Beppe Grillo a storpiare i nomi dei politici, cosa che lo accomuna a Emilio Fede del Tg4, Guglielmo Giannini de L’Uomo Qualunque, Ezio Greggio di “Striscia la Notizia”. Tutte persone, per loro stessa ammissione o per unanime giudizio degli storici e dei cronisti, legate a una qualche fazione della cultura di destra italiana (rispettivamente: il berlusconismo, il qualunquismo, per non parlare di “Striscia la Notizia” vero format ideologico del ventennio berlusconiano).
Merlo non ha certo bisogno della difesa di chi scrive. Il quale però si sente indirettamente chiamato in causa dal pezzo di Travaglio: Merlo ha utilizzato e citato il mio libro “Un Grillo Qualunque” per argomentare la sua tesi. Attenzione però: anche Travaglio a sua volta si era sentito chiamato in causa da Merlo, perché anche lui (che come legittimamente rivendica, viene dalla “scuola montanelliana”: un’altra delle famiglie della destra italiana) ha abituato i suoi lettori a storpiare i nomi delle persone che intende criticare.
Il vicedirettore del Fatto risponde sostenendo che altri autori (non “di destra”) storpiassero i nomi e cita il caso di Fortebraccio e Sergio Saviane, il grande corsivista satirico de L’Unita e l’inventore delle cronache televisive da L’Espresso. Tira cioè in causa due personaggi autorevoli, passati alla storia del giornalismo. Hanno fatto storia e scuola, questi due, forse proprio per il fatto che il loro sguardo sulle cose del mondo era dichiaratamente sbilenco e insolito. Non si proponeva di spiegare e commentare giorno dopo giorno, con la stessa virulenza di un tormentone di “Striscia” i fatti della politica italiana, magari mescolando i nomi storpiati ad un fascicolo giudiziario.
Per comprendere l’utilizzo dei nomignoli, intenderlo nella sua pratica quotidiana e ripetuta, atta a costruire un mondo e un’ideologia, bisogna capire che essi servono a comporre una sceneggiatura. Non sto a ripetere l’armamentario teorico del mio discorso, che attraversa l’analisi dei programmi di Antonio Ricci e dei suoi tormentoni, le riflessioni del linguista cognitivo George Lakoff sulla capacità della parole di costruire “frame” che indirizzano il discorso e i ragionamenti di Furio Jesi circa l’utilizzo della “parole d’ordine” che ordinano la realtà e rassicurano l’audience.
Qualche tempo fa, ho visto in televisione Paolo Rossi (il comico, non il filosofo e neanche il calciatore). Cantava una canzoncina che alludeva al fatto che i politici in Parlamento fossero cocainomani e iper-eccitati. Seduto sul divano di casa coi piedi sul tavolino, sono scoppiato a ridere. La cosa era divertente. E la forza di quell’iperbole era proprio il suo essere esilarante: si alludeva a un fatto reale, lo si estremizzava anche, ma senza avere la pretesa di fondarvi la costruzione di consenso elettorale o l’edificazione di un qualche potere. La differenza per qualcuno sarà sottile, ma è davvero sostanziale.
Giuliano Santoro
È in libreria soltanto da due settimane, ma ha già attirato l’attenzione di quotidiani, blog, radio, tivù. Complice il successo dei 5 Stelle in Sicilia, certo, ma soprattutto grazie all’analisi profonda e multiforme che Giuliano Santoro ha dedicato a Grillo e al suo movimento. Un’analisi che riesce ad essere, nello stesso tempo, mirata e di ampio respiro, capace di prendere il largo a partire dal suo oggetto di indagine, per illuminare temi e questioni che spesso hanno fatto capolino anche qui su Giap: dalla “cultura di destra” al feticismo digitale, dal razzismo alle narrazioni tossiche.
Nei ringraziamenti finali, l’autore cita per nickname alcuni giapster molto assidui e in generale tutta la comunità che si ritrova in questo blog, per avergli fornito un terreno di confronto. L’intervista che segue vuole essere anche un’opportunità per riprendere e rilanciare la discussione.
Una delle caratteristiche più
interessanti del libro è la sua capacità di smontare alcune presunte
“novità” del Movimento 5 Stelle, per tracciarne la genealogia e svelarne
il contenuto ideologico. Al netto di questo prezioso lavoro, resta però
uno scarto davvero inedito per il panorama politico italiano: quello di
un movimento che partecipa alle elezioni senza candidare la sua
personalità più in vista. Questo aspetto mi pare una novità anche
rispetto al populismo, che tu definisci come “la capacità da parte di un
leader di costruirsi attorno un «popolo» che gli corrisponda in pieno,
mortificando le differenze e appiattendo le ricchezze”. Il leader
populista, al momento delle elezioni, diventa così l’insostituibile
candidato della sua gente. Grillo invece si sottrae, fa il “garante” del
movimento: che ne pensi di questa sua rottura del rapporto classico tra
capo e popolo?
Lo scarto di cui parli è uno dei tanti paradossi
del grillismo. Provo a descriverlo: nell’era della crisi della
rappresentanza politica, e della sua incapacità – diciamo così – di far
da contrappeso al mercato, ecco che spunta un movimento carismatico che
in nome della “democrazia diretta” (concetto che, come spiego nel libro,
viene utilizzato come feticcio ideologico) punta tutto sulle elezioni
per costruire il rinnovamento. È una contraddizione non da poco: Grillo
all’inizio degli Anni Zero affrontava i grandi temi della
globalizzazione, del global warming e della guerra spiegandoci che
contava di più il modo in cui si faceva la spesa che la scheda che si
metteva nell’urna. Era un modo per ribadire che il vero potere si
trovava altrove, nel mercato e nelle multinazionali, e che i partiti
erano solo sovrastruttura. E invece, negli ultimi due anni, siamo
arrivati al punto che il Movimento 5 Stelle non fa altro che organizzare
campagne elettorali permanenti, compilare liste di candidati,
polemizzare con gli altri partiti. Paradosso nel paradosso: Grillo –
capo carismatico, trascinatore di masse e fondatore del Movimento –
almeno per il momento non si candida e anzi trae forza da questo non
mescolarsi con “la politica”. Ciò forse avviene perché in questo modo è
come se tutti i candidati fossero Grillo. A meno che qualcuno non sia
così ingenuo da pensare che i voti li prendono i cittadini che spauriti
compaiono a fare da scenografia ai comizi-spettacolo del comico-leader.
Marco
Vagnozzi, consigliere 5 Stelle a Parma, ha dichiarato che “Beppe è il
padre del Movimento”. Un padre che a volte si comporta da padrone (il
simbolo del movimento è di sua proprietà) e altre da nonno (non
partecipa alla contesa elettorale – tipico atteggiamento del vecchio che
“ha già dato” – e manda i figli allo sbaraglio). Su Giap abbiamo a
lungo discusso intorno alla “evaporazione del padre” nella politica
italiana. Una politica nella quale non è possibile rintracciare in
maniera chiara le due metafore familiari con cui Lakoff spiega il
bipolarismo americano: da una parte il Padre Severo – cioè il partito
repubblicano – dall’altra i Genitori Comprensivi – ovvero i Democratici.
Abbiamo
visto come Berlusconi ha colmato questo vuoto con il vuoto del
godimento obbligatorio. E Grillo? Che tipo di (non-)padre è? Un padre
adottivo? Un tutore di orfani?
Tentando di illustrare cosa ci
fosse davvero all’origine di quella «comunità immaginata» che chiamiamo
nazione moderna, Benedict Anderson ha spiegato che essa è un «artefatto
culturale di un particolare tipo» che rimette in moto anche i meccanismi
di appartenenza ancestrali (ed escludenti) che tengono in piedi la
famiglia. Dunque, la nazione di Anderson viene descritta come «organismo
sociologico che si muove ordinatamente in un tempo vuoto e omogeneo» e
funziona come la famiglia allargata ma in fondo tradizionalista di
Papi-Berlusconi: attraversa le differenze e inventa storie e tradizioni a
uso e consumo del consenso.
Giustamente tu ricordi come il linguista
George Lakoff abbia sostenuto che questo richiamarsi ai rapporti
familiari appartiene a una sfera inconscia molto profonda, tanto che la
politica conservatrice e quella progressista sarebbero legate a due
modelli diversi di vita coniugale.
da www.wumingfoundation.com
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