Se vinco io, non ci sarà alcuna imposta sulla casa. Mai più. Lo promette Berlusconi, rispolverando lo slogan kantiano-pop del dovere assoluto.
Che la ridiscesa in campo di Silvio sarebbe stato un lungo deja vu si sapeva. Meno tasse per tutti, i giudici comunisti, la Corte Costituzionale comunista, il Quirinale pure un po’ comunista. E poi Erasmo da Rotterdam, e i successi con le costruzioni e le televisioni, e il Milan, e mamma Rosa…
Così nel noiosissimo monologo la cosa più notevole (oltre al patetico annuncio di fidanzamento con la Pascale) diventa il grottesco servilismo di una Barbara D’Urso che, tra una lode a l’altra al presidente e ai suoi familiari, si autoproclama portavoce della gente comune.
Una persona con la schiena tanto dritta da interrompere il futuro presidente del Consiglio con la sublime frase: io lavoro in una tv commerciale, e sono orgogliosa di lavorarci, tanto orgogliosa, e in questa tv commerciale abbiamo tanta pubblicità, quindi ora la fermo perché devo mandarla in onda.
E poi uno dice che Silvio non è unico. Trovatene in giro un altro che quando lo intervisti (si fa per dire) gli fai propaganda, e quando lo interrompi gli fai entrare in cassa qualche centinaia di migliaia di euro.
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