UN GIORNO DEVI ANDARE (Recensione di Angela Laugier)
Regia: Giorgio Diritti.
Principali interpreti: Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Sonia Gessner, Pia Engleberth, Amanda Fonseca Galvao, Paulo De Souza, Eder Frota Dos Santos, Manuela Mendonça Marinho – 110 min. – Italia, Francia 2013.
Un uomo abbandona la moglie poiché ha perso il primo figlio, insieme alla speranza di averne altri in futuro: si direbbe una brutta storia molto italiana, una storia di ordinaria prepotenza maschile, di chi non vuole capire il dolore delle donne.
E’ invece la premessa da cui nasce il terzo film di Giorgio Diritti: dopo essere stata lasciata dal marito, infatti, la giovane Augusta decide di andarsene dal nostro paese, per uscire dalla sua comprensibile angoscia e per ritrovare il senso della propria vita, spingendosi fino alla lontana Amazzonia, a fianco di un’ amica di sua madre, suor Franca, che meritoriamente si occupa da tempo dei nativi di quei luoghi, della salvezza delle loro anime, nonché di quella dei loro corpi. L’infelice Augusta, però, non ci mette molto a comprendere che la religiosità di Franca, pur animata dalle migliori intenzioni, è assai discutibile poiché, tutta tesa com’è all’evangelizzazione di quegli uomini, sottovaluta del tutto la loro cultura, legata alla terra, madre di tutti i viventi, tanto rispettata e amata da loro, quanto tenuta in poco conto dalla missione cattolica cui suor Franca fa riferimento.
Attraverso i missionari, infatti, e forse oltre la loro volontà, sta penetrando anche laggiù la logica del tutto eurocentrica dello sfruttamento della terra e della cosiddetta valorizzazione turistica, con tanto di disboscamento e crescita dei supermercati e degli hotel: si sta ripetendo in Amazzonia ciò che era avvenuto in Africa e in tutte le terre cosiddette selvagge in cui l’arrivo dei missionari, nonostante i migliori propositi, aveva aperto, nel corso dei secoli, la strada allo sfruttamento coloniale.
Questo è detto nel film attraverso immagini che illustrano con chiarezza documentaristica le trasformazioni antropologiche e naturalistiche peggiorative a cui l’Amazzonia sta per essere soggetta. Se Augusta volesse mettersi a lavorare con un movimento di opposizione e di resistenza, potrebbe ritrovare il senso perduto della vita, in una realtà sociale che ha bisogno di gente come lei, solidale e lucidamente in grado di contribuire ad arginare, con strategie mirate, la devastazione di quei territori. Preferisce, invece, lo splendido isolamento della vita solitaria, vivendo di ciò che la natura le offre e continuando a piangere lacrime amare sul proprio destino. Ogni tanto, ricordandosi di lei, qualcuno arriva con un po’ di cibo o le porta i propri bambini, perché possano giocare con lei, dandole un po’ di gioia.
Il film utilizza, però, almeno due registri narrativi, che non riesce a fondere compiutamente: quello del documentario e quello della storia privata di Augusta che è l’elemento debole di tutta la pellicola. Vengono inoltre spesso introdotte, del tutto inutilmente ai fini della narrazione, altre immagini, belle e suggestive, per altro, del convento di suor Franca in Trentino, dove spesso va, per parlare della figlia, la madre di Augusta, oppure altre immagini della nonna di lei morente in ospedale, occasione forse per mostrare la giovane donna amazzonica strappata ai propri cari da suor Franca e portata in Italia per assistere i malati.
Gli aspetti positivi del film vanno colti nella serie delle bellissime e straordinarie sequenze che ci presentano un paesaggio fascinoso, o quelle dei coloratissimi riti collettivi delle danze locali; nonchè, come ho detto, nell’analisi documentaristica del degrado incipiente; tutto il resto è inutile e spurio e poco aggiunge alla storia. Un vero peccato per chi si illudeva, come me, di vedere uno splendido film non inferiore ai due bellissimi di Giorgio Diritti che l’avevano preceduto: Il vento fa il suo giro e L’uomo che verrà.
(di Angela Laugier)
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