COME PIETRA PAZIENTE - (Recensione di Angela Laugier)
Titolo originale: Syngué Sabour
Regia: Atiq Rahimi
Principali interpreti: - Golshifteh Farahani, Hamid Djavadan, Massi Mrowat, Hassina Burgan. – 103 min. – Francia, Germania, Afghanistan 2012.
Secondo la leggenda afghana, la pietra paziente (Syngué Sabour), cui allude il titolo del film, è quella che viene individuata come adatta a ricevere le confidenze di chi vuole parlare rivelando i propri segreti: il carico delle sofferenze di cui ci si vuole liberare si fa, col tempo, così pesante per quella pietra da determinarne infine lo scoppio e la disintegrazione in mille pezzettini. La protagonista senza nome di questo film (la stessa straordinaria e bellissima attrice iraniana di About Elly e Pollo alle prugne, Golshifteh Farahani) ha trovato nel marito, a sua volta senza nome, in coma da molti giorni per una pallottola nel collo, la sua pietra paziente: a lui, assente e silenzioso, infatti, la donna vuole affidare le proprie confessioni. E’ sua moglie da dieci anni, sono nate due bambine, ma non ha mai potuto parlargli di sé, come avviene in tutti quei paesi in cui i matrimoni mirano unicamente alla riproduzione.
Ci troviamo in Afghanistan, in un quartiere di Kabul, sconquassato dai lanci incrociati di missili, che distruggono cose e ricordi, case e uomini. Le donne, ultima ruota del carro in quella sciagurata realtà, sono, a dire il vero, le persone sulle cui spalle ricade totalmente il peso del conflitto: non possono lavorare e sono costrette, tuttavia, a portare avanti la casa e la famiglia: i bambini hanno fame e sete; i malati hanno bisogno di cure, ma pochi sono coloro disposti ad aiutarli, per solidarietà o per compassione. La donna trova solo nella zia, tenutaria di un bordello, quel necessario soccorso che tutti le negano: presso di lei le sue bambine potranno finalmente mangiare e dormire in un luogo sicuro; mentre il suo posto continua a essere accanto all’uomo che l’ha sposata, la sua pietra paziente.
In un crescendo di confessioni, sempre più drammatiche, la donna metterà a nudo gli angoli più nascosti del suo cuore, rivelando i segreti sempre taciuti: le paure infantili, come quella di essere venduta, come sua sorella, da un padre bisognoso di soldi per continuare a scommettere sulle quaglie; il fidanzamento senza di lui, lo sconosciuto che non si fa neppure vedere; il matrimonio celebrato, in una cerimonia senza gioia, ancora una volta in assenza di lui, trattenuto dai ben più importanti impegni di guerra; la paura di essere ripudiata perché ritenuta sterile. L’irruzione imprevista di un gruppo di soldati, armati fino al collo, nella sua abitazione potrebbe essere per lei il preludio di una svolta drammatica, di un’estrema umiliazione, ma diventa l’occasione attesa della sua vita: si farà strada in lei, a poco a poco, un nuovo sentire, un cambiamento del cuore, un bisogno di sincerità profonda da cui si originerà il bellissimo finale del film, molto ben costruito, inatteso e terribile.
Nel film è presente la denuncia di una condizione femminile intollerabile, insieme alla rivendicazione di diritti umani che non possono essere ancora a lungo così atrocemente calpestati. Tuttavia i due personaggi, quello di lei, accuratamente e finemente disegnato attraverso un’attenta analisi introspettiva, così come quello di lui, eterno assente, eroe guerriero senza qualità e senza meriti, rappresentano sul piano metaforico la condizione stessa dell’intera società afghana, nella quale l’immobilismo comatoso e violento dei maschi è ben rappresentato dalla condizione del malato incapace di risvegliarsi per ascoltare con umana comprensione, finalmente, la donna che, nonostante tutto, continua a farsi carico delle pesanti responsabilità della vita familiare e sociale, cosicché si perpetua la situazione di separatezza dei sessi, rigidamente incatenati nei ruoli tradizionali, che potrebbe durare ancora per molto tempo e di cui la donna del film massimamente esprime le contraddizioni.
Il regista di questo magnifico film è lo scrittore afgano Atiq Rahimi, che vive e lavora a Parigi dove fu accolto anni fa come rifugiato politico e dove scrisse numerosi romanzi, oltre a Pierre de patience*, che nel 2008 gli fece conquistare il Prix Goncourt, cioè il premio letterario più prestigioso di Francia. A indurlo a trasformare in opera cinematografica il romanzo fu Jean Claude Carrière, il grande sceneggiatore di moltissimi famosi film (fra i quali alcuni celeberrimi di Luis Buñuel: Quell’oscuro oggetto del desiderio, Bella di giorno , Il fantasma della libertà, La via lattea e altri) la cui scrittura ha certamente contribuito alla riuscita di questo lavoro, che presenta molti caratteri della lenta narrazione del cinema iraniano e afghano, insieme a un uso molto francese dell’indagine psicologica, e della rappresentazione stilizzata, quasi teatrale, del conflitto fra due visioni del mondo.
* Il romanzo, che è stato tradotto col titolo Pietra di pazienza per Einaudi, è, pertanto, disponibile anche nella nostra lingua. Invito i miei lettori a leggere qui le dichiarazioni di Atiq Rahimi, fondamentali per comprendere lo scenario terribile in cui romanzo e film sono maturati.
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