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« gennaio 2014 | Principale | marzo 2014 »
Scritto il 28 febbraio 2014 alle 23:56 | Permalink | Commenti (5)
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Scritto il 28 febbraio 2014 alle 00:36 | Permalink | Commenti (7)
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L'ammmore acceca. Ma quando acceca un cretino, il risultato finale è devastante... Prendete questo tizio, Maurizio f.; posta in un commento UN LINK ad un sito, che in un post indica tutte le malefatte (leggi "espulsioni") di cui si è reso colpevole il PD, per dimostrare che il PD è peggio, e più antidemocratico, del MòViMento 5 Svastiche.
Al mitico maurizio f. non interessa la verifica dei fatti, né la verifica dell'autorevolezza di chi scrive queste minchiate. A noi, invece, interessa. Siamo fatti così...
Partiamo dal post, che riproduco fedelmente:
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Ho controllato: questo fantastico post, ripreso maniacalmente da decine di siti, sui quali i grillini doc alla maurizio f. fanno "diffusione virale", sapere da dove viene???? Ma si, indovinato: dal blog di Beppe Grillo. E l'autorevole blog che maurizio ci linka a supporto delle sue tesi (peraltro inespresse?). Ho dato uno sguardo. Un blog frequentatissimo. Dal primo febbraio ha pubblicato bel 26 post (tutti copiati dal Fatto, da Travaglio o da Grillo), ed ha ricevuto ben 4 (QUATTRO) commenti. su questo post? NO. In tutto il mese. UN commento il 1° Febbraio, e ben TRE commenti il 2 febbraio. Poi, nonostante ogni post termini con l'implorazione "lasciate un commento" (...vucumprà'?...), il vuoto assoluto. ZERO commenti in 26 giorni.
Maurizio, cosa ne diresti di linkare questo post del misero Tafanus sull'autorevole controcorrenteblogdotcom?
Dunque, Maurizio ci posta un elenco grillino di 42 nomi di "espulsi" dal PD. Quarantadue parlamentari? No. Siamo a livello consiglieri comunali (di piccoli comuni, e persino di di consigli di zona). Di quelli da 18 euro lordi a seduta, con un paio di sedute al mese. Vere autorità. Di alcune "espulsioni) mancano i nomi. Di altre si danno sollo numeri ("numerosi consiglieri"). Di altri abbiamo verificato che erano "sospesi" e non espulsi; di altri che non potevano essere espulsi in quanto neanche iscritti; altri ancora erano espulsi per gravi motidi disciplinari previsti dallo statuto, e non per aver criticato, poniamo, lo stile di discussione di Bersani o di Renzi. Insomma, una minchiata gigantesca, di cui l'ignorante e poco intelligente maurizio f. si fida ad ochi chiusi da spesse fette di salame. Come tutti i grillini doc.
Dunque, nel suo partito di riferimento, su 160 parlamentari, in un annetto, 5 sono stati espulsi; tre se ne sono andati con le proprie gambette; 5 se ne andranno per solidarietà cogli ultimi espulsi; quindici stanno per andarsene e per costituire un gruppo autonomo. Fatti i conticini, Geniale Maurizio? Siamo a livello di 28 fuoriusciti su 163 parlamentari. In UN anno. Siamo, per spiegarlo agli ignoranti, ad oltre il 17% di parlamentari che si è sfarinato, a qualsiasi titolo.
Ed ora, analizziamo ciò che è successo nel PD (secondo Grillo, accolto come il Vangelo, senza alcun spirito critico, da imbecilli della portata di Maurizio f.): in Italia esistono 120.490 consiglieri e 35.254 assessori. Totale: 155.744 fra consiglieri comunali ed assessori. Se i numeri di Grillo (ripresi alla cieca dall'imbecille) fossero TUTTI fondati, avremmo che in due anni il PD avrebbe "espulso" ben 42 politici su circa 52.000 di nsua pertinenza. Fatto il conticino, imbecille? siamo allo 0,081% di espulsioni in due anni, di figurette da strapaese, contro il 17% abbondante in un anno nel 5 Svastiche di figure di primo piano (parlamentari nazionali). Siamo ad un rapporto di 1 a 420 fra gli "espulsi" del PD, e quelli de 5 Svastiche, in ragione d'anno. E ti faccio grazia della differenza di peso fra un "assessore Cangemi di Roncofritto" e un Senatore della Repubblica.
Ma la cosa tragica è che l'elenco fornito da Grillo, e ripreso dall'imbecille di turno, è fatto coi piedi, e con una grande dose di malafede. Ma si sa... i cretini non analizzano, non verificano, non pensano. Ripetono. Come i pappagallini verdi dei Caraibi...
Noi invece, nei limiti del possibile, abbiamo "analizzato e verificato". Con ridsultati a volte esilaranti... Ecco i risultati:
Il Gruppo del Partito Democratico del IV Municipio di Roma ha deciso di espellere il consigliere Giorgio Limardi, a seguito di un ripetuto comportamento difforme alle linee del partito.
Dal PDL "Si fanno male da soli" - scesi a quattro i membri del Pd. Pdl: "E' il quarto consigliere municipale a lasciare il gruppo Pd"
Afferri, imbecille? hanno "lasciato"!
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Mario Russo, Valerio Addentato e Roberto Merlini sono stati espulsi dal segretario del PD provinciale di Roma Carlo Lucherini.
FREGENE OnLine 22 aprile. Mario Russo, Valerio Addentato e Roberto Merlini, i tre consiglieri comunali eletti nelle fine della coalizione che appoggia Giancarlo Bozzetto, sono stati espulsi dal segretario del PD provinciale di Roma Carlo Lucherini. Dopo aver ritirato il loro appoggio a Bozzetto, il loro comportamento è diventato “inaccettabile” e per questo i consiglieri saranno espulsi dal Pd.
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Agropoli. Carmine Parisi: “Cacciato dal Pd perché ho denunciato la speculazione edilizia”.
Carmine Parisi non è stato espulso dal PD, ma sospeso per tre mesi, per "i reiterati rifiuti ad entrare nel gruppo consiliare del PD, partito al quale deve l'entrata in consiglio comunale
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Castiglione del Lago. Rosanna Ghettini, Caterina Bizzarri, Giancarlo Parbuono e Ivano Lisi espulsi dal PD.
Già... i suddetti, eletti grazie al PD, volevano continuare a stare con un piede i due scarpe, o in due partiti... LEGGI
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Terremoto PD Alessano: espulsi Cosimo Del Casale e Donato Melcarne.
Già... in fondo, cosa avevano fatto di male? hanno solo "...appoggiato la lista Stendardo a discapito di quella "ufficiale" del pd salentino che era Città Democratica con a capo la giovane Francesca Torsello, contribuendo alla sconfitta del partito del quale erano candidati". Robetta.
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Rapallo, sono stati espulsi dal PD: Maria Cristina GERBI, Giorgio BRACALI, Alessio CUNEO, Emanuele GESINO, Maurizio Ivan MASPERO, Maria MORRESI, Giulio RIVARA.
Dal Corriere Mercantile del 08-04-2012, pagina 9 - Sette iscritti "voltagabbana" esclusi dal PD - La Commissione di Garanzia della Federazione del Tigullio, riunitasi il giorno 5 aprile 2012, esaminate le liste dei candidati a consigliere comunale presentate per le elezioni amministrative di Rapallo del 6-7 maggio prossimi, ha verificato che i Signori:
• Maria Cristina GERBI
• Giorgio BRACALI
• Alessio CUNEO
• Emanuele GESINO
• Maurizio Ivan MASPERO
• Maria MORRESI
• Giulio RIVARA
iscritti al Circolo PD Rapallo al 31-12-2011, risultano candidati alla carica di consigliere comunale nella lista “Liguria Viva”, lista contrapposta ed alternativa a quella del Partito Democratico.
La Commissione di Garanzia PD Tigullio
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La segreteria cittadina di Orta Nova ha attivato le procedure per il deferimento del consigliere comunale Antonio Bellino alla Commissione di garanzia, alla quale sarà proposta l’espulsione dal PD per violazione dello statuto e del codice etico.
Maurizio coso, metti fra gli espulsi anche quelli la cui espulsione è stata proposta?
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San Mauro Torinese, Rudy Lazzarini espulso dal PD insieme a un nutrito gruppo di colleghi.
Rudy Lazzarini e "il folto gruppo di colleghi" sono stati "espulsi" da un partito al quale non erano iscritti, rifiutando da anni l'iscrizione al PD, richiesta a chi vuole candidatsi col PD. Insomma, sono stati "espulsi" da un luogo in cui non erano.
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CASERTA. Rino Zullo è stato espulso dal PD.
Non è stato espulso, ma si è dimesso, per dichiararsi "indipendente"
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Carmelo Mazzola e Domenico Prisinzano sono stati espulsi dal PD di Castelbuono.
Carmelo Mazzola non è stato espulso da alcunchè, ma gli sono state cambiate le deleghe (come da diritto/dovere del sindaco), e non si è mai lamentato di alcunchè
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Afragola: Valentino espulso dal PD.
Questo tizio andava via dall'aula, boicottando l'azione di opposizione del PD al PdL:
"... Così, Gennaro Espero ha prima avvisato il gruppo consiliare e poi è passato all’azione. “Ho comunicato l’espulsione dal Pd del consigliere Valentino al presidente Biagio Castaldo – spiega Espero - perché prima che si votasse il rendiconto proprio Valentino se n’è andato dall’aula. E non è concesso a nessuno. L’opposizione deve restare unita, compatta, in Consiglio affinché si combatta il sistema Nespoli, un sistema che rappresenta il degrado assoluto istituzionale, amministrativo e politico. Afragola ha toccato il fondo ed è impossibile andare oltre. Dopo questa esperienza possiamo solo risalire. Prima del consiglio comunale sul rendiconto ho riunito i miei consiglieri ed ho ribadito a tutti che chi non avrebbe votato contro o si sarebbe assentato, si metteva, nei fatti, fuori dal Pd. Valentino, all’atto del voto, liberamente, ha deciso di andare via dall’Assise, sapendo quali erano le conseguenze di quel gesto. Insomma, si è messo da solo fuori dal partito. Ne abbiamo solo preso atto ed abbiamo applicato una regola interna che vale per tutti”
Andava non espulso, ma cacciato a calci in culo. NdR
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Sei iscritti al PD allontanati dal partito per non aver appoggiato Marini candidato sindaco a Frosinone.
(Idem come sopra)
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Solidarietà a Paolo Dean ex sindaco di Fiumicello e a Rosanna Fasolo, ex assessore della giunta Dean, espulsi dal PD.
Provate ad andare sul sito di Paolo Dean, e guardate cosa appare... Già... chissà perchè? Forse perchè ha avuto qualche denuncia, accolta dalla Polizia Postale? E' solo una domanda...
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Caro maurizio f., vuoi un consiglio? Su questo sito, prima di linkare minchiate prese da altri che hanno attinto da altri che hanno attinto da Grillo, è cosa saggia controllare ciò che linki. PRIMA, non a posteriori. Sai quante figure di cacca si evitano, usando dosi pediatriche di cervello?
Tafanus
Scritto il 27 febbraio 2014 alle 15:56 | Permalink | Commenti (71)
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Da due mattine, una "arrapatissima" Mirta Merlino, su "La7", ci somministra ogni cagata di "tweet" postato da Matteo Renzi. I tweet che più la affascinano e la esaltano sono quelli che Renzi (o chi per lui) posta da diverse mattine alle 07:00 in punto, attraverso i quali Renzi informa urbi et orbi che "si comincia", iniziata la giornata di lavoro". Immagino da casa, dal poco confortevole appartamentino di Palazzo Chigi, senza il fastidio di guidare la macchina nel traffico, o prendere il trenino dei pendolari. Uno sforzo sovrumano.
Cara Mirta, soffro di insonnia. Mi capita spesso, verso le 5/6 di mattina, di accendere la TV in camera da letto, per vedere la rassegna stampa, e a volte mi becco "Onda Verde". Ed ogni volta resto affascinato nel vedere che già a quell'ora le tangenziali sono intasate da gente in macchina che si è alzata chissà a che ora, per andare a lavorare da chissà dove a chissà dove... I mitici "Ford Taunus" carichi di muratori bergamaschi che vanno nei cantieri di Milano; addetti al metrò che alle 06:00 fanno partire i treni, supplenti che partono da Voghera per fare due ore di supplenza a Milano, addetti alla pulizia delle strade, baristi, edicolanti...
Cara Mirta, il mondo reale è PIENO di gente che alle 07:00 non è davanti all'iPod a scrivere la prima banalità del giorno, ma è in piedi da ore a fare lavori scomodi, senza scorta e auto di servizio, e non la lussuosi appartamenti di servizio, ma da furgoni, edicole, panetterie, tram, camion della spazzatura. I veri eroi del nostro tempo.
Cara Mirta, la storia di questo disgraziato paese è piena di gente che anzichè dormire di notte, veglia e lavora per noi. Mussolini lasciava accesa la luce a Piazza Venezia, per far vedere che anche di notte "lavorava per noi". La luce accesa aveva la funzione dei tweet, che allora non c'erano. Berlusconi non perdeva occasione di informarci che "ho scritto il discorso alle tre di notte, perchè a me bastano due/tre ore di sonno a notte. Lui alle 06:30 riceveva già la mazzetta dei quotiani. Non a letto, ma nel suo studio, già incipriato, incatramato, e ingessato nel suo Caraceni doppio-petto sempre uguale.
Cara Mirta, se questi personaggi avessero dormito un po' di più, ed operato qualche ora in meno, oggi forse vivremmo in un paese migliore, o meno disastrato. Lorsignori si riposino, di tanto in tanto. Purtroppo non lo fanno. Dopo i superattivi Benito & Silvio, oggi il destino ci infligge il superattivo Matteo. Ne sentivamo il bisogno.
Cara Mirta, non le sembra abbastanza cretino che per caso uno inizi a "lavorare per noi" sempre alle 07:00? Che non gli capiti mai di iniziare alle 06:56, o alle 07:04? Ha mai sentito parlare dei programmi che postano ciò che vogliamo noi, all'ora decisa da noi? E se anche fosse tutto vero, e non favolistico, chi se ne frega se Renzi inizia a "curare i nostri destini" alle 07:00?
Cara Mirta, dobbiamo commuoverci per un Renzino che conduce una vita così disperata per poter essere a Treviso in una scuola media a darsi il cinque con dei ragazzetti per finire in tutti i telegiornali? E magari per recitare Rio Bo come Silvio? Dopo aver mobilitato scorte, un aereo di stato, centinaia di poliziotti, piloti, e quant'altro? Quanto è costata questa "TV Opportunity"? Qual'è il vantaggio per noi di questa storica giornata veneta? Domani qualche insegnante e qualche alunno di Treviso avranno una scuola più sicura? Insegnati migliori, pagati più dignitosamente? Gente che alla vigilia della pensione abbandonerà finalmente la condizione di precariato?
Cara Mirta... stamattina lei era arrapata anche per la "prodigiosa memoria" di SuperMatteo... Se così fosse, perchè Super Matteo ci ha detto il 12 di gennaio che il Giobatta sarebbe apparso in tutto il suo splendore il 16 di Gennaio? Per poi dirci il 18 "vedrete, in un paio di settimane"... Per dirci ieri che sarà pronto - puntuale come la cometa - il 17 Marzo?
Cara Mirta, non è che magari Matteo è dotato di una "memoria prodigiosa" (anche se nessuno se n'è accorto?) Per esempio, quando Renzi è approdato senza la "legittimazione del passaggio alle urne" a Palazzo Chigi, non avrà mica dimenticato ciò che aveva affermato per mesi con la consueta prosopopea? e cioè che MAI E POI MAI lui avrebbe fatto come D'Alema, o come Monti, o come Letta?
Cara Mirta, non è che lei, come molti che hanno frequentato la sua scuola di giornalismo, sia per caso dotata di memoria non "prodigiosa", ma "selettiva"? Ci faccia capire...
Tafanus
Scritto il 27 febbraio 2014 alle 13:08 nella Berlusconi, Media , Politica, Renzi | Permalink | Commenti (8)
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Scritto il 27 febbraio 2014 alle 08:01 | Permalink | Commenti (4)
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E’ singolare leggere i commenti dei tafani che discutono con frasi davvero scoraggianti tipo “da qualche parte bisogna ben prendere i soldi” sulla tassazione di rendite finanziarie e/o di utili derivanti da posizioni consolidate. Come se i 2000 e passa miliardi di passivo accumulati dai geniali politicanti italiani avessero origine dall’evasione fiscale oppure dalle famose “rendite di posizione” di cui si favoleggia da anni: ebbene, per chiarire una volta per tutte quali siano le vere origini della drammatica situazione italiana sarebbero da considerare pochi elementi finanziari, quelle nozioni che se la celeberrima casalinga di Voghera mette in pratica da anni pare che i geni provenienti dalla Bocconi non abbiano ancora capito.
Il concetto, agilmente sviluppato dal mio professore di analisi al Politecnico ormai 30 anni fa, era che se si vuole riempire una vasca da bagno la soluzione non è quella di triplicare i rubinetti, ma quella di tappare i buchi.
Un esempio: cosa costa la politica in Italia ? sappiamo che la camera ha un bilancio di circa 1 miliardo e 150 milioni di euro, mentre il senato (bontà loro…) spende poco di meno, circa 1 miliardo e 80 milioni di euro. Aggiungiamo il Quirinale, che spende da solo approssimativamente 450 milioni di euro (come, sinceramente, è difficile capire, atteso che i bilanci non sono disponibili se non per sommi capi) mentre i costi diretti ed indiretti delle provincie sono pari a circa 14 miliardi di euro, concentrati per il 78% in affitti, stipendi e buonuscite dei politici, nonché nei “rimborsi spese” dei gruppi consiliari.
La stima di risparmio in caso di abolizione è di circa 11 miliardi di euro, mentre per quanto concerne le regioni il costo per assicurare lo stipendio all’esercito di consiglieri, presidenti e assessori di Regioni e province autonome pesa ogni anno sulle casse pubbliche circa 800 milioni di euro e rappresenta una delle voci più onerose per i bilanci delle Autonomie, terza dopo il costo del personale (2,9 miliardi) e le generali «spese per servizi» (1,3 miliardi), ed esclusi i trasferimenti.
Sommando i consigli regionali, provinciali e comunali, poi, la politica costa 1,4 miliardi (quasi metà dei fondi necessari per togliere l'Imu sulla prima casa), ovvero 35 euro l'anno per ogni contribuente, di cui 19 solo per le Regioni. Per fare un paragone, per le opere di sistemazione del suolo si spendono solo 25 euro per ognuno dei 41,3 milioni di contribuenti.
I dati delle uscite 2012 ribadiscono il triste primato dei costi della politica, che almeno fino all'anno scorso, sopravviveva a qualsiasi spending review: un primato in cui le Regioni surclassano gli enti locali.
Prendiamo per esempio le Province, da anni nel mirino proprio perché ritenute inutili e costose: l'affermazione è solo parzialmente smentita dai dati (almeno per quel che riguarda il costo pro capite di consiglieri e assessori provinciali) il loro costo pro capite è «solo» di 2,5 euro contro i 19 dei politici regionali e i 13 di quelli comunali.
Ovviamente se si approfondisce l’analisi il discorso cambia: analizzando il rapporto percentuale tra la spesa corrente e quella per organi istituzionali si evince che il peso economico dei rappresentanti delle Province è pari a 1,32 euro rispetto al totale della spesa corrente dello stesso ente, contro lo 0,55 dei politici regionali e l'1,07 di quelli comunali, mentre rimangono fissi i costi legati ad affitti e gestione degli immobili.
Lo Stato Italiano (dati 2010) spende per l’Amministrazione Centrale 182 miliardi di euro, per la Previdenza 298, per gli Interessi sul debito 72, per le Regioni 170 (di cui 114 Sanità, ove ci sarebbero possibilità enormi di razionalizzazione della spesa…), per i Comuni 73 ed infine per le Province 12 miliardi di euro (lievitati a 14,5 nel 2013) che corrispondono all’1,5% della spesa pubblica del nostro Paese.
Prima degli interventi operati dalle diverse manovre economiche, il costo dei 1774 amministratori provinciali (costo della politica) era di 113 milioni di euro (Fonte, Siope 2010). Rispetto alla spesa complessiva delle Province (12 miliardi di euro) i costi della politica ammontavano allo 0,9%. Dopo la manovra 2011, a regime, sulla base di quanto previsto dal decreto 78 del 2010 in materia di riduzione delle indennità degli amministratori provinciali, il costo complessivo dei 1.774 amministratori provinciali si ridurrà a circa 35 milioni di euro (Stima Upi su Fonte Siope, 2010).
I 12 miliardi di euro erano così ripartiti: 8.562.810.574 € per le spese correnti, 2.936.728.318 per quelle in conto capitale, 659.245.656 € per rimborso dei prestiti.
Il dato macroscopicamente abnorme però è quello del rapporto tra la spesa corrente e quella produttiva di sviluppo e crescita, ovvero la spesa in conto capitale: nelle regioni i costi sono pari a 145 miliardi in un anno per funzionare la macchina, contro i 17 miliardi spesi per investimenti su strade, ospedali ed espropri: in pratica, soltanto un euro ogni dieci usciti dalle casse regionali l'anno scorso è servito a finanziare un'infrastruttura mentre nove sono serviti per far funzionare la macchina. In altri termini, è come se, per realizzare un intervento nel nostro condominio, pagassimo mille euro all’impresa e 9.000 all’amministratore che la gestisce: chi di voi sarebbe d’accordo se in assemblea condominiale arrivasse una proposta simile ? Eppure, incredibilmente, la politica continua ad infischiarsene di quello che chiedono i cittadini e concede “rimborsi” ipertrofici ai propri componenti ed ai gruppi consiliari.
Certo, in molti casi le spese correnti nascondono voci difficilmente comprimibili (pensioni, ma anche contributi previdenziali per il personale, spesso però non pagati ad INPS…) ed i finanziamenti alla sanità (sono andati alle Asl circa 87 miliardi, la metà di tutta la spesa complessiva regionale), ma anche 800 milioni per organi istituzionali, oltre a 117 milioni spesi dai governatori per «studi, consulenze, indagini e gettoni di presenza».
Meno sbilanciato il rapporto per Comuni e Province, che destinano alla spesa produttiva circa il 21% degli investimenti: va detto però che per le Province il dubbio è quello della loro stessa funzione: senza la gestione degli appalti stradali (affidati per il 78,5% ad ANAS…), che da sola assorbe il 52% degli investimenti provinciali (1.526.720.000 euro), effettivamente la ragion d'essere delle 110 Province verrebbe sostanzialmente svuotata. In altri termini, se la manutenzione stradale passasse in maniera esclusiva ad ANAS e la gestione fallimentare degli stabili scolastici venisse attribuita a comuni o regioni le provincie non avrebbero in realtà sostanzialmente nulla da fare, quindi il risparmio certificato si aggirerebbe attorno agli otto miliardi e mezzo di euro.
Fate due conti semplici semplici: 8 miliardi e mezzo l’anno per le provincie, diciamo facilmente un miliardo e 250 milioni per senato, parlamento e presidenza della repubblica, e diciamo facilmente 17 miliardi di minori spese per le regioni sui 58 legati ai costi di funzionamento dell’apparato: a questo aggiungiamo circa 400 milioni di euro ai partiti ed un miliardo 350 milioni dall’otto per mille alle chiese varie.
Totale: 28 miliardi 500 milioni di minori spese, strutturali e quindi di effettivo risparmio, che garantirebbero circa il 50% dei costi sugli interessi passivi e che permetterebbero di abbattere il rapporto deficit-PIL all’1,5% anziché al limite del 3.
A qualcuno risulta che il genio del Giobatta abbia valutato questi risparmi ?
Come sempre a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si indovina…
Axel
Spesso si fa peccato non già a "pensar male", ma a non farlo. Renzi ha bisogno urgente che qualcuno gli regali non già l'ultimo modello di ipod, ma una calcolatrice a pile da due euro. All'epoca della prima leopolda aveva messo su wikipedia un curriculum talmente folle e pieno di baggianate che glielo ho demolito con un post UN POST, a ruota del quale, in pochi giorni, il suo curriculum/due è cambiato drasticamente... Divertente, il renzino... Padoan ha dovuto spiegargli, con cautela, che non poteva parlare di taglio di 10 punti di IRAP, ma caso mai di 10 miliardi. Renzi "suona ad orecchio". Sul resto, che dire? Vorrei solo ricordare che oltre ai 130 miliardi di costo stimato per il libro dei sogni renziano, dall'anno prossimo dobbiamo aggiungere (ogni anno per vent'anni) 50 miliardi di euro all'anno per il fiscal compact.
Intanto il Giobatta, presentato subito dopo l'elezione a segretario (1,5 pagine word) e demolito da molti, ad iniziare da noi... Promesso il "parto cesareo" del contenuto (lui pensava di averlo dato, il contenuto, in una pagina e mezza senza una sola cifra...) per il 16 Gennaio. Alla data fatidica, con nonchalance ha detto: vedrete, in un paio di settimane. Oggi ha detto: Il Giobatta sarà presentato il 17 marzo. Segnatevi questa "fatal data", perchè il Giobatta cambierà la nostra vita.
Internatelo, prima che faccia troppi danni
Tafanus
Scritto il 27 febbraio 2014 alle 07:59 nella Axel, Economia, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (73)
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News dal MòViMento a 5 Svastiche
...e nove... qui chi non è d'accordo col kapo, viene avviato wia web al Binario 21, e deportato. Vizio dei kapi?. No, malattia endemica dei militanti. Guardate in quanti super-democratici hanno votato per l'espulsione di chi non si adegua al pensiero unico:
Avete fatto i conticini? A spanne, il 68,9056% dei "militanti" condivide l'assetto proprietario del Kapo non solo sull'asseto societario del MòViMento, ma anche sullo stile di democrazia interna. Mi piacerebbe molto conoscere sull'argomento l'opinione dei tanti simpatizzanti grillini e dei tanti "estimatori" del guru che con diversa frequenza si affacciano - sempre meno numerosi - su questo sito, in difesa del comico bollito.
Tafanus
Scritto il 26 febbraio 2014 alle 20:36 | Permalink | Commenti (12)
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...e mentre renzino - nel primo giorno di governo - è impegnato a cantare (e a recitare Rio Bo?) coi bambini di Treviso, succede che... anzichè il bagno di folla, trova il bagno di insulti, e il lancio di arance (spero marce... sprecare tanta buona frutta per uno così...)
...Già... cosa si aspettava, Presidente? di andare a Treviso e di trovare gli operai della Electrolux, che stanno per perdere il posto di lavoro, che "facevano ali e lanciavano baci", come narrava di se stesso il suo maestro, vent'anni fa? E come avrebbe mai potuto incontrare i vertici di Electrolux e chiedere di non "delocalizzare", lei che ha chiamato al governo la signora Guidi, figlia di Guidalberto, entrambi falchi di Confindustria, e maestri di delocalizzazioni?... Già, non si può. Perchè i vertici di Electrolux avrebbero anche potuto mandarla a cagare, le pare?
...il fiòrenzino accolto con grida di "massone", "vai a casa", e cori di "buffone, buffone!"
...e mentre il renzino è impegnato a dire sciocchezze ai bambini, in favore di telecamere, scopre già dal primo giorno che a Palazzo Chigi il premier non ha "il volante"...Mentre isso è impegnato nel "bagno di folla", a Sagunto Roma il suo governo branbd-new, tuttp ggiovani ed efficienza, è costretto a ritirare il "decreto Salvaroma"...
Scritto il 26 febbraio 2014 alle 16:12 nella Berlusconi, Economia, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (9)
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Scritto il 26 febbraio 2014 alle 08:00 | Permalink | Commenti (13)
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Il "talent scout" Walter Veltroni e la ggiovane ggeniessa Marianna Madia
Alle elezioni del 2008, Walter Veltroni usa le prerogative del porcellum per candidare capolista alla Camera per il Pd nella XV circoscrizione del Lazio la sconosciuta ventisettenne Marianna Madia. Alla conferenza stampa di presentazione, agli attoniti giornalisti la signorina dichiara gigionescamente di “portare in dote la propria inesperienza”.
In realtà è una raccomandata di ferro, con un pedigree lungo come il catalogo del Don Giovanni. E’ pronipote di Titta Madia, deputato del Regno con Mussolini, e della Repubblica con Almirante. E’ figlia di un amico di Veltroni, giornalista Rai e attore. Era fidanzata del figlio di Giorgio Napolitano. E’ stagista al centro studi Arel di Enrico Letta. La sua candidatura è dunque espressione del più antico e squallido nepotismo, mascherato da novità giovanilista e femminista. E fa scandalo per il favoristismo, come dovrebbe.
In parlamento la Madia brilla come una delle 22 stelle del Pd che non partecipano, con assenze ingiustificate, al voto sullo scudo fiscale proposto da Berlusconi, che passa per 20 voti: dunque, è direttamente responsabile per la mancata caduta del governo, che aveva posto la fiducia sul decreto legge. Di nuovo fa scandalo, questa volta per l’assenteismo. La sua scusa: stava andando in Brasile per una visita medica, come una qualunque figlia di papà.
Invece di essere cacciata a pedate, viene ripresentata col porcellum anche alle elezioni del 2013. Ma poi arriva il grande Rottamatore, e la sua sorte dovrebbe essere segnata. Invece, entra nella segreteria del partito dopo l’elezione a segretario di Renzi, e ora viene addirittura catapultata da lui nel suo governo: ministra della Semplificazione, ovviamente, visto che più semplice la vita per lei non avrebbe potuto essere. Altro che rottamazione: l’era Renzi inizia all’insegna del riciclo dei rottami, nella miglior tradizione democristiana.
La riciclata ora rispolvererà l’argomento che aveva già usato fin dalla sua prima discesa paracadutata in campo: “Non preoccupatevi di come sono arrivata qui, giudicatemi per cosa farò”. Ottimo argomento, lo stesso usato dal riciclatore che dice: “Non preoccupatevi di come ho ottenuto i miei capitali, giudicatemi per come li investo”. Se qualcuno ancora sperava di liberarsi dai rottami e dai riciclatori, è servito. L’Italia, nel frattempo, continui ad arrangiarsi.
(di Piegiorgio Odifreddi)
Credits: ringrazio Jo per la segnalazione
La Marianna, che ha conquistato gloria imperitura dandosi da fare dal giorno dopo la cooptazione nella segreteria di Renzi, limitandosi a sbagliare ministero... Adesso il renzino, recidivo, le assegna un ministero (per fortuna un ministero dove può fare un numero limitato di danni). Insomma, ad una che non distingue un ministero dall'altro, Renzi affida la riforma della PA (qualche anima pietosa spieghi alla Madia che PA sta per "Pubblica Amministrazione", e non solo per Provincia di Palermo). E menomale che il Fiò Renzino è uno che ha scelto la missione di circondarsi solo di ggeniali ggiovani... Qualcuno mi tenga informato delle prossime performances della Madia e della Boschi, personaggi la cui nomina a ministresse mi crea ancor più interrogativi che non le nomine della Gelmini e della Carfagna... Tafanus
Scritto il 25 febbraio 2014 alle 17:41 | Permalink | Commenti (9)
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Venditori di pentole antiaderenti
Poche parole, perchè poi devo purtroppo occuparmi del PC, sullo spot dello sbracato Vanno Marchi al Senato. Non credo che meriti di più. Dello "stile" non parlerò più. Un carrettiere alfabetizzato avrebbe saputo far di meglio. Quindi parliamo del nulla, cioè del non-detto". O, se preferite, del non-programma del Nuovo Venditore di Pentole Antiaderenti:
-a) Pagamento immediato dei debiti della PA alle imprese: dai dati del bilancio dello Stato, questa voce vale 45 miliardi.
-b) Estensione del sussidio di disoccupazione da 8 mesi a 2 anni: da calcoli sindacali, costa 30 miliardi.
-c) Taglio di 10 punti del cuneo fiscale: costa 30 miliardi (lavoce.info, CGIA di Mestre e altre fonti).
-d) Riduzione dell'IRAP del 10% - Il gettito dell'IRAP è di circa 35 miliardi. Il 10% dell'IRAP vale quindi 3,5 miliardi.
-e) Cento euro in più ai redditi sotto 15.000 euro all'anno. Suona bene, 100 euro rispetto ai miserabili 14 di Letta. Sotto 15.000 euro di reddito troviamo una platea di circa 12 milioni di lavoratori. Facciamo i conticini? Stiamo parlando di 18 miliardi di euro all'anno.
-f) Non mi addentro nelle promesse di Vanna Marchi su un maggior sostegno alla scuola. Non ho i dati. Non li ha neanche Vanna Marchi. Mi limito ad osservare che solo se si volesse recedere dal progetto pazzesco del 2008 di togliere somme crescenti alla scuola, e non dare un euro in più, ma limitarsi NON TOGLIERE quanto programmato da Gelmini & C., staremmo parlando di 3,2 miliardi all'anno.
-g) Vanna Marchi non ha speso una sola battuta sulla messa in sicurezza del territorio (manutenzione di fiumi, rimboschimento, demolizioni di costruzioni abusive); né sulla messa a norme antisismiche almeno delle scuole, ed altre bazzecole del genere.
QUINDI? solo limitandoci alle pentole vendute, siamo ad un totale di circa 130 miliardi all'anno. Se preferite ragionare in termini di vecchio conio, siamo a 260.000 miliardi di vecchie lire. Per confronto, siamo a 4/5 "finanziarie monstre" in stile Amato/Ciampi, di cui si parla ancora adesso.
RISORSE? Vanna Marchi non dice. Il buon Delrio aveva avanzato una ipotesi cretina (aumento dal 20% al 23% della tassazione dei BOT), ma è subito stato sconfessato da Vanna Marchi, pur trattandosi di una entrata infima (circa un miliardo: avete capito bene UN miliardo, su 130 che servirebbero a Vanna Marchi). E non è un'entrata, ma una partita di giro, perchè i risparmiatori scelgono cosa comprare in base al rendimento netto, non lordo. Quindi se vuoi aumentare la tassazione sui bot, devi aumentare anche il rendimento lordo, affinchè il netto resti invariato. E' il gioco delle pentole in teflon. Ne aumenti il prezzo facciale da 20 euro a 40 euro, poi metti il cartellino "Sconto del 50%", e continui a venderle a 20 euro. Inoltre, l'aumento della tassazione riguarderebbe solo i privati risparmiatori, che hanno in pancia solo una minima parte di quanto hanno in pancia banche, fondi e società finanziarie e non, e che continuerebbero a pagare quanto prima. Magnifico, vero?
Poi c'è l'altra idea geniale: la rottamazione della burocrazia (che nessuno è riuscito mai a fare, e che men che meno sarà facile fare OGGI, creando nuova disoccupazione, e nuovo calo dei consumi).
E che dire delle "privatizzazioni"? Certo... abbiamo visto con Alitalia. Vedi, Vanna, nessuno compra merda. E se vendi roba buona (Enel, Eni), incassi una volta, e rinunci a vita ai dividenti che frutta ciò che vendi. Mi ricorda un'operazione da poveracci che facevano le aziende sull'orlo del fallimento. Si chiama "lease-back". Si vendeva la sede ai caimani dell'immobiliare (banche incluse), e si prendeva in affitto, contestualmente, la sede stessa, a canoni da strozzinaggio. Domo due/tre anni eri messo peggio di prima, e preda del primo sciacallo di passaggio. Magnifico. Sarà così anche con l'ENI, l'ENEL e Telecom: incassi una tantum, paghi canoni e/o fatture ad altri per l'eternità.
Regalate a Vanna Marchi un bignamino di Economia Domestica.
Tafanus
Scritto il 25 febbraio 2014 alle 13:00 nella Economia, Lavoro, Leggi e diritto, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (9)
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Non ho ancora chiesto asilo politico alla Libia... ho solo avuto problemi di "recupero" del PC. Comunque non voglio farvi mancare il mio colto pensiero politico...
Secondo molti commentatori politici, il bischero avrebbe parlato "a braccio". Secondo me, ha parlato a cazzo. Giacca sbottonata, mani in tasca alla "buttero maremmano"... tutto si tiene. Non mi ha deluso. Ha fatto esattamente ciò che mi aspettavo che facesse. Tafanus
Scritto il 24 febbraio 2014 alle 19:18 | Permalink | Commenti (19)
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Scritto il 24 febbraio 2014 alle 01:35 | Permalink | Commenti (6)
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Una delle poche cose belle della vecchiaia che mi vengono in mente, leggendo l'articolessa domenicale odierna di Eugenio Scalfari, è che "a una certà età" uno può fottersene degli equilibri proprietari e degli interessi di chi possiede il giornale per il quale ancora scrive, dopo esserne stato il fondatore. Oggi il Grande Vecchio può permettersi il lusso di picconare il Bischero di Frignano sullo stesso giornale sul quale vassalli e valvassori sembra siano stati comandati al perpetuo elogio di qualsiasi bischerata, purchè di provenienza renziana.
E' quindi con vero piacere (e con sottile malvagità) che contribuisco alla infinitesimale crescita della diffusione della "rottamazione" di Renzi ad opera di Scalfari. Tafanus
Recondita armonia di bellezze diverse (di Eugenio Scalfari - Repubblica)
La scorsa settimana ero abbastanza triste per il modo inconsueto e molto crudele col quale la direzione del Pd aveva sfiduciato Enrico Letta. Mi venne in mente la canzone jazz americana "Stormy Weather", tempi bui, e la citai nel mio articolo domenicale e nel titolo. Ma oggi è diverso.
Oggi, sia pure con qualche cautela, dobbiamo festeggiare l'ascesa al potere di Matteo Renzi, il rilancio in programma della crescita economica, dell'occupazione, dei giovani, il compimento della riforma elettorale, la diminuzione delle tasse, la riforma della pubblica amministrazione, la semplificazione cioè la modernizzazione dello Stato e il prolungamento della vita del governo fino al termine naturale della legislatura nell'aprile del 2018.
È lungo quest'elenco, anche solo a snocciolarne i titoli. Ricordo che Letta fu contento perché per esporre il suo programma, che la direzione del Pd neppure esaminò, aveva scritto 54 pagine. Ma qui, per illustrare quello di Renzi, ce ne vorrebbero almeno 500. Per ora non ci sono, anzi non ce n'è neppure mezza. C'è soltanto l'elenco dei titoli che abbiamo sopra elencato (...già... siamo lieti di essere stati fra i primi a leggere il "Giobatta", e a denunciare che era un "programma" di una pagina e mezza word, con dieci titoli - mai nove o undici, sempre 10 o 100 - e che avremmo scritto, per giudicarlo, quando fosse apparso il contenuto. Doveva uscire il 16 gennaui. Lo stiamo ancora aspettando. NdR)
C'è un doppio criterio che Renzi ha ribadito più volte venerdì nelle sue dichiarazioni successive alla nomina ricevuta dal Capo dello Stato e cioè: concretezza e trasparenza. E c'è anche la tempistica: sei mesi per la legge elettorale, che invece fino all'altro ieri sembrava doversi collocare entro questo mese ed è stata, giustamente, agganciata alla riforma del Senato che richiede una legge costituzionale e una maggioranza comprensiva di Berlusconi.
Gli altri obiettivi invece saranno "avviati" e in buona parte effettuati entro quattro mesi, uno al mese cominciando dal lavoro e dall'occupazione. No, non state sognando, la tempistica indicata da Renzi è proprio questa: un mese per risolvere quei problemi (quasi secolari). Quattro problemi, quattro mesi e il pranzo è servito. E noi dovremmo festeggiare? Un governo di otto donne e otto uomini, il premier più giovane della storia italiana a partire dal 1861. Un altro esempio di grande gioventù per la presa del potere (ancora molto più giovane di lui) fu quello di Lorenzo il Magnifico, anche lui di Firenze, ma erano altri tempi. Anche Napoleone arrivò al vertice più o meno sui trent'anni e non parliamo di Alessandro Magno. Ma erano appunto tempi diversi.
Tra i moderni in Italia, abbiamo un campione; perciò in alto i calici. Personalmente purtroppo ho il divieto medico di bere alcol perciò - il presidente del Consiglio mi scuserà - brinderò alla salute sua e del governo da lui formato con una Coca light. Spero ne sarà ugualmente contento.
Ci sono però in più due punti che vorrei precisare prima di analizzare la situazione attuale del nostro Paese. E sono questi. Il direttore della Stampa, Mario Calabresi, riscontra nel nuovo governo e in Renzi che lo presiede una leggerezza che gli ricorda il Calvino delle Lezioni americane e ne trae ottimi auspici. Non so quanti siano i membri del nuovo governo che abbiano letto le Lezioni americane. L'amico Calabresi, che formula quell'auspicio, certamente le conosce ma ha dimenticato di dire che il personaggio che Calvino indica come la personificazione della leggerezza che lui intende era - pensate un po' - Guido Cavalcanti. Francamente non pare che Renzi abbia qualche affinità con Cavalcanti. Ezio Mauro nel suo editoriale di ieri giudica Renzi un po' bullo. È chiaro che con Cavalcanti non ha nulla a che fare.
La seconda affermazione si rifà a una dichiarazione del neo-premier subito dopo l'investitura ricevuta al Quirinale. Ha detto testualmente: "Il mio governo è il più di sinistra degli ultimi 30 anni". Dice così ma non sembrerebbe. Personalmente, se dovessi dare un attributo, direi che è un governo pop. Forse la sinistra è diventata pop. Non so se sia un progresso. Speriamo di sì.
Una novità c'è sicuramente: questo non è più un governo del presidente della Repubblica, come accadde con Monti e con Letta. Questo nel bene e nel male è il governo di Renzi e del suo partito. Napolitano l'ha nominato e non poteva far altro visto che il partito di Renzi ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato dove la maggioranza assoluta viene raggiunta con i voti di Alfano e dei pochi senatori centristi.
Ma c'è un'altra maggioranza della medesima importanza sulla quale né la legge elettorale né le riforme costituzionali potrebbero esser fatte ed è quella stipulata, con "piena sintonia", con Forza Italia di Silvio Berlusconi, il quale ha manifestato ampia adesione all'incarico che Renzi ha ricevuto.
Al punto che ieri il Cavaliere avrebbe espresso apprezzamento per la nomina della Guidi allo Sviluppo economico e comunicazioni, vantandosi di avere un ministro pur stando all'opposizione. C'è un problema per il premier e non è da poco. Anche perché tutto è confermato da una cena avvenuta lunedì a casa di Berlusconi, con la Guidi e suo padre tra gli invitati.
Ci sono dunque due maggioranze che per ora sostengono il nuovo governo, le quali però - è bene averlo presente - non vanno d'accordo tra loro perché Berlusconi, se solo potesse, vorrebbe distruggere Alfano e reciprocamente. Renzi e il suo partito sono perciò il perno che usa a proprio beneficio questa dicotomia. Durerà fino al 2018 o si sfascerà prima? Molto dipenderà anche dall'esito delle elezioni europee ma soprattutto dai risultati che nel frattempo il nuovo governo otterrà in materia economica.
Napolitano non aveva altre soluzioni, ma alcuni elementi della situazione dipendono pur sempre da lui. Per esempio lo scioglimento delle Camere; per esempio l'approvazione preventiva dei decreti e la promulgazione delle leggi o il loro rinvio al Parlamento nei casi di dubbia costituzionalità. Insomma ha ripreso un ruolo non più determinato dall'emergenza, anche se l'emergenza c'è ancora ma con caratteristiche diverse.
Con intelligenza e coraggio del quale è giusto dargli atto, Renzi ha detto che i rischi d'un insuccesso ci sono ma bisognava correrli ed ha aggiunto che lui e il suo partito ci mettono la faccia; se sbaglieranno pagheranno. Si è però scordato di aggiungere che se sbaglieranno pagherà anche il Paese e sarà esattamente il Paese a pagare il prezzo più alto.
In quel deprecabile caso, che dobbiamo tutti cercar di scongiurare, ciascuno operando responsabilmente nel campo che gli è proprio, quali sono le alternative? Solo il populismo dilagante?
Quello è certamente il pericolo da scongiurare, ma ce n'è un altro che a mio avviso è più concreto: se Renzi dovesse fallire noi saremo commissariati dall'Europa con tutte le conseguenze del caso; ma avremo anche contribuito col nostro fallimento a danneggiare fortemente l'Europa nella sua evoluzione. Il nostro continente diventerebbe irrilevante nell'economia globale con tutte le conseguenze del caso. La faccia di Renzi è a rischio e questo è il suo coraggio, ma se solo fosse questo ce ne potremmo tranquillamente infischiare. Il rischio è in realtà terribilmente più elevato ed è opportuno esserne consapevoli.
C'è un punto che resta assolutamente oscuro: fino a cinque o sei giorni prima del pronunciamento della direzione del Pd che abbatté Letta e votò per il nuovo governo, Renzi aveva confermato che mai e poi mai avrebbe messo fuorigioco il governo esistente, almeno fino alla conclusione del semestre italiano di presidenza europea. Non sosteneva che quel semestre fosse di grande importanza (anche Berlusconi la pensa così, ma Renzi ora su questo punto ha completamente cambiato idea) ma lui comunque non sarebbe intervenuto e si sarebbe unicamente occupato del partito, cosa che era di grande importanza e ci aveva preso gusto a portarla avanti.
...quando Graziano Delrio era un "fedele lettiano...
Proprio in quei giorni, cioè un paio di settimane fa, a me capitò di partecipare nella trasmissione di Lilli Gruber ad un dibatto con Delrio che non conoscevo ma sapevo bene chi fosse.
Delrio, su domanda della Gruber e anche mia, ribadì che Renzi non pensava affatto a sostituire Letta e che lui era dello stesso parere e l'aveva consigliato a mantener ferma quella posizione. Ricordo che Delrio era ministro del governo Letta.
Accadde invece che a pochi giorni di distanza anche Delrio abbia cambiato radicalmente opinione e sia stato tra i più fidati dei luogotenenti del leader a spingerlo verso la presa del potere a Palazzo Chigi. In quei giorni Delrio era in predicato per assumere la guida dell'Economia, del quale non risulta abbia particolare esperienza.
Come si spiega questo improvviso cambiamento, talmente sorprendente che, quando avvenne e ancora fino a venerdì scorso, Renzi non aveva affatto formato la squadra di governo e si aggirava tra i nomi di Montezemolo, Baricco, Farinetti, Guerra, Boeri, Moretti ed altri che alla fine sono risultati indisponibili? Che cosa ha spinto Renzi e Delrio a "metter la faccia" loro e quella dell'intero Paese?
Io non so dare alcuna risposta e neanche Renzi la dà. Dice che la situazione era divenuta insostenibile. Perché? E perché non se n'era accorto nei quattro o cinque giorni prima della direzione del partito? Mi sorge un dubbio: forse aveva capito che la situazione congiunturale stava migliorando e che a metà agosto si sarebbe consolidata la fine della recessione con i primi effetti positivi e con il relativo successo di Letta. Questa prospettiva avrebbe messo lui in una posizione secondaria, perciò non c'era tempo da perdere.
Capisco che questa ipotesi è maliziosa, ma altre non ne vedo e voglio ricordare che Renzi aveva riferito anche a Napolitano le sue intenzioni di non insidiare il governo esistente. Questo rinnova la domanda: perché il neo-premier ha cambiato idea?
Il problema che adesso si pone (e dovrebbe esser risolto entro un mese stando alla tempistica renziana) è, per dirla in breve, un abbattimento sostanziale del cuneo fiscale o di qualche provvedimento che gli somigli, la ripresa dei pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione verso aziende creditrici, la ripresa degli investimenti; il tutto insieme ad una diminuzione del debito pubblico e della pressione fiscale sulle fasce povere della popolazione.
Sono gli stessi temi reclamati da Squinzi e dalla Confindustria i quali, però, alle domande rivoltegli, non hanno mai indicato le coperture che rispettino il limite del 3 per cento del deficit, ricordato da Visco a Renzi nel colloquio di tre giorni fa come asticella invalicabile.
Da calcoli fatti da attendibili osservatori le cifre necessarie oscillano tra i 50 e i 70 miliardi. Ma quand'anche ci si limitasse allo strettissimo necessario facendo passare degli straccetti di carne per bistecche alla fiorentina, ce ne vorrebbero come minimo 40. Da prendere attraverso la spending review. Tagliando gran parte delle inutili sovvenzioni ad imprese del tutto improduttive se ne tirano fuori una trentina e un'altra decina tassando le rendite finanziare. Ma per realizzarle se ne parla alla fine dell'anno perché la bacchetta magica Renzi e Delrio non ce l'hanno.
Avevano detto un mese. Ben che vada ce ne vorranno otto di mesi anche se si aggiungesse - come pure sarebbe necessario - un'imposta edilizia con andamento decisamente progressivo per far fronte agli esodati e ai lavorati delle imprese messe a secco dai tagli della spending review. Il compito spetta al ministro del Tesoro Padoan, il solo ministro che a bocca storta Renzi ha dovuto accettare dal fermo suggerimento di Napolitano.
Purtroppo lo stormy weather permane. Al più ci si può consolare con la "Recondita armonia di bellezze diverse" cantata da Mario, il protagonista della Tosca, come apertura dell'opera. Era molto ardito quel fantasioso pittore che amava la bruna, sognava la bionda e intanto cospirava con i repubblicani per buttare giù il Papa. Alla fine fu fucilato e gettato nel Tevere. Segno che troppe cose insieme non si possono fare.
Eugenio Scalfari
Scritto il 23 febbraio 2014 alle 18:11 | Permalink | Commenti (41)
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Scritto il 23 febbraio 2014 alle 17:24 | Permalink | Commenti (0)
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La Ducati Energia ha commesse con Poste, Fs, Enel. Il Cavaliere: ho anche io un ministro (Fonte: Roberto Mania - Repubblica)
Federica Guidi, figlia di Guidalberto (falchetti di Condindustria)
Lunedì scorso a cena ad Arcore da Berlusconi, forse per parlare anche di una sua possibile candidatura con Forza Italia alle prossime europee. Ieri il Cavaliere che pare abbia detto ai suoi: "Abbiamo un ministro pur stando all'opposizione". Su Federica Guidi, neo ministro dello Sviluppo Economico con delega anche alle Comunicazioni, tv comprese, è già bufera. Perché c'è pure un potenziale conflitto di interessi (...potenziale????... NdR) per via delle commesse dell'azienda di famiglia, la Ducati Energia - fatturato in crescita negli ultimi anni (oltre i 110 milioni) e una sempre più marcata spinta alla delocalizzazione nell'est Europa (Croazia e Romania), nell'estremo Oriente (India) e in America Latina (Argentina) - con Enel, Poste, Ferrovie. Un ginepraio. Dalle imprevedibili conseguenze politiche...
E non è affatto un caso che ieri il primo atto del neo ministro Guidi, dopo il giuramento al Quirinale, sia stato proprio quello di dimettersi da tutte le cariche operative (era vicepresidente con la delega sugli acquisti) della Ducati Energia e dal consiglio del Fondo italiano d'investimento (...già... esattamente come Berlusconi si era "dimesso" da tutte le cariche operative in Fininvest... Peccato che non ci si dimetta contestualmente dalla proprietà... Anche la Guidi avrà il suo fedele Confalonieri? NdR)
Un passo inevitabile, ma una conferma dei possibili conflitti. L'ultima parola spetterà comunque all'Antitrust, l'autorità di garanzia alla quale la legge Frattini ha attribuito il potere di giudicare la posizione dei membri del governo. Dice Stefano Fassina, ex vice ministro dell'Economia, esponente della minoranza del Pd: "Il potenziale conflitto di interessi è del tutto evidente. Ma oltre a questo mi preoccupa la visione del ministro sulla politica industriale, la sua idea di rilanciare il nucleare, la sua contrarietà al ruolo dello Stato nell'economia. Penso che ci sarebbe bisogno di un ministro dello Sviluppo con un orientamento molto diverso"...
C'è poi il "caso Guidi" sul versante politico. Tra Guidalberto Guidi, ex falco confindustriale, e Berlusconi c'è un'antica consuetudine. Anche lui era alla cena di Arcore di lunedì. La figlia Federica ha sempre espresso posizioni vicine alla destra berlusconiana. È stata euroscettica, iperliberista fino al punto di proporre l'abolizione del contratto nazionale di lavoro sostituendolo con i contratti individuali. Il Cavaliere ha provato più volte a candidarla nelle sue liste. Pensò addirittura a un futuro da vice di Forza Italia per la giovane industriale [...]
E i problemi nascono dalle competenze che ha il dicastero dello Sviluppo. L'azienda dei Guidi, infatti, opera in tutti i settori controllati dal ministero: energia elettrica, eolico, meccanica di precisione, elettronica. Fornisce i suoi prodotti, oltreché a diversi enti locali e alle rispettive municipalizzate, ai grandi gruppi pubblici di cui lo Stato è ancora azionista di maggioranza o di riferimento, attraverso il ministero del Tesoro: Enel, Poste, Ferrovie dello Stato.
Lo stabilimento bolognese della Ducati Energia si è trasformato nel tempo in un impianto di mero assemblaggio di parti di prodotto che vengono realizzate all'estero. Sono circa 60 gli operai su un totale di quasi 220 lavoratori (impiegati, tecnici, ingegneri). Il restante dei 700 dipendenti, a parte una ventina che opera nel laboratorio di ricerca a Trento, è all'estero dove Guidi si è spostato da tempo per ridurre i costi di produzione...
La Ducati ha sei stabilimenti nel mondo e produce, tra l’altro: condensatori, generatori eolici, segnalamento ferroviario, sistemi ed apparecchiature autostradali e per il trasporto pubblico, veicoli elettrici e colonnine di ricarica, generatori e motori elettrici, rifasamento industriale e elettronica di potenza.
Oggi dalla fabbrica italiana di Borgo Panigale escono i “Free Duck”, piccole automobiline alimentate a elettricità, che vengono utilizzate dalle Poste per la consegna delle lettere e dei pacchi, da diversi Comuni per la raccolta dei rifiuti, e anche dalla Polizia municipale, per esempio a Genova. Alle municipalizzate (l’Atac di Roma, per esempio) le macchine per obliterare i biglietti dell’autobus. All’Enel dalla Ducati Energia arrivano le cabine per lo smistamento dell’energia e anche le colonnine per le ricariche delle automobili elettriche. Alle Ferrovie dello Stato sistemi per verificare la funzionalità dei binari e le macchinette per l’emissione dei biglietti self service. A Finmeccanica, negli anni passati, Guidi aveva presentato un’offerta per rilevare la Breda Menarinibus. Proposta che però non venne accolta dai vertici di Piazza Monte Grappa.
"GGente 'de sinistra": Prestigiacomo, Guidi padre, Marcegaglia
Guidalberto Guidi, da presidente dell’Anie (l’associazione di Confindustria delle imprese elettrotecniche ed elettroniche) condusse una battaglia a favore degli incentivi per le energie rinnovabili. Fu scontro anche in Confindustria tra i produttori tradizionali e gli altri. Non sarà facile, insomma, per il ministro Guidi puntare all’obiettivo di tagliare, come chiede Renzi, del 30% la bolletta energetica gravata dai 12,5 miliardi proprio di incentivi, per il 70% destinati alle rinnovabili. Figlia-ministro contro padre-imprenditore. Un altro conflitto di interessi?
Scritto il 23 febbraio 2014 alle 13:17 nella Berlusconi, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (1)
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Scritto il 23 febbraio 2014 alle 08:01 | Permalink | Commenti (1)
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Recensione del film "A PROPOSITO DI DAVIS" (di Angela Laugier)
Titolo originale: "Inside Llewyn Davis"
Regia: Joel e Ethan Coen
Principali interpreti: Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, Ethan Phillips, Robin Bartlett, Max Casella, Jerry Grayson, Jeanine Serralles, Adam Driver, Stark Sands, John Goodman, Garrett Hedlund, Alex Karpovsky, F. Murray Abraham, Ricardo Cordero, Jake Ryan, James Colby, Mike Houston, Steve Routman, Ian Blackman, Genevieve Adams, Bonnie Rose Titolo originale Inside Llewyn Davis – 105 min. – USA, Francia – 2013.
Llewyn Davis è un personaggio dei fratelli Coen che appartiene alla folta schiera dei loro non eroi, gli sconfitti, che, innocenti, senza colpe come Giobbe, sono perseguitati dal loro dio crudele, o, se si preferisce, dal destino, al punto da vedersi negare la realizzazione di qualsiasi sogno o progetto a lungo accarezzato. Rassomiglia al mite Larry di A serious man, o a Barton Fink, lo scrittore spaesato in un mondo che non lo capisce e che neppure lui capisce; o a tanti altri perdenti dei loro film, apparentemente molto diversi, come Donnie o Drugo di Il grande Lebowski.
Lewyn (Oscar Isaac), che era un eccellente musicista, nonché un sensibilissimo poeta, scriveva canzoni stupende e cantava con voce bellissima, in coppia con un partner nei bar del Greenwich Village dei primi anni ’60, quando l’intera zona (che ora, ristrutturata anche troppo a fondo, è tra le più chic e snob di Manhattan) era un agglomerato sporco e maleodorante di case operaie poverissime. L’amico, che nei fumosi locali di quel quartiere condivideva con lui la passione per la musica e l’effimera gloria del successo serale, si era, purtroppo, gettato dal Washington Bridge, lasciandolo solo e poverissimo. Da allora, le sue belle canzoni folk avevano acquistato una tristezza disperata e abbastanza insolita; piacevano molto ad alcuni intellettuali, ma non avevano grandi probabilità di affermarsi in un mercato soggetto alla disponibilità a rischiare i propri soldi da parte di editori e discografici molto guardinghi. Questi, in verità, lo ascoltavano assai volentieri, apprezzandone talento e qualità, ma tutti gli chiedevano qualche compromesso: testi meno cupi, nonché un altro partner, secondo la tradizione commercialmente ben consolidata, proprio quella che il nostro Llewyn intendeva combattere. Conduceva in tal modo la sua quotidiana esistenza fra debiti e vita da bohème, ospitato a turno, per dormire, dai facoltosi ammiratori della sua musica che la sera erano accorsi al Village dalle loro abitazioni e che gli offrivano, per la notte, un divano accogliente: ogni notte, dunque, uno spostamento con quelle poche povere cose nelle quali ormai tristemente si compendiavano il suo passato e le sue speranze. Anche nelle belle case dell’Upper East Side, però, qualche inaspettato accadimento gli scombinava i piani e gli impegni: il bel gattone rosso, di cui Davis ignorava il nome, era furtivamente fuggito dall’appartamento, al mattino, non appena egli aveva cercato di uscire, né aveva potuto ritrovarlo, quando, proprio come Holly Golyghtly*, lo aveva invano cercato nei vicoli di New York, proprio come lei chiamandolo a gran voce “Gatto”! Ecco, poi, che, credendo di averlo riacciuffato, lo aveva portato con sé in partenza per un’audizione a Chicago: altro inutile ingombrante fardello da trascinarsi appresso, insieme alla chitarra e ai pochi suoi dischi precedenti, durante l’altrettanto inutile e rocambolesco viaggio, nel freddo invernale, senza cappotto e con le scarpe sfondate. Il gatto dei suoi ospiti ha un ruolo molto importante nel film: intanto scopriremo subito che non è quello che egli aveva creduto di ritrovare: un urlo forsennato della padrona di casa alla ricerca di un introvabile… scroto ne smaschererà l’impostura; inoltre il vero gatto di famiglia se ne tornerà a casa con le sue zampe: non per nulla si chiama Ulisse! Il richiamo all’Odissea e all’Itaca ritrovata suona ironico e molto amaro per Llewyn Davis, condannato a peregrinare a vuoto e senza alcun approdo familiare. La vita da homeless non era davvero il meglio, anzi, per affrontare l’implacabile inverno di New York, la città, bella e spietata, capace di indurire ogni cuore: quello di sua sorella, che si era organizzata una vita piccolo borghese e non lo voleva fra i piedi; quello di Jean Berkey (una Carey Mulligan bravissima ma quasi irriconoscibile nella sua acida aggressività), la cantante, partner musicale e moglie incinta del suo miglior amico, che temendo di portare in grembo, in realtà, un figlio suo, lo aveva apostrofato con terribili ingiurie e contumelie, costringendolo a trovare i soldi per farla abortire. Tutti lo evitavano nel terrore che l’infezione della povertà si trasmettesse a loro, che contagiasse i loro figli, che attentasse alla rispettabilità mediocre che in qualche modo li accontentava e che non intendevano mettere in discussione. Gli restava un padre a cui ricorrere nei momenti di bisogno: un vecchio operaio della marina mercantile, ora ricoverato in un ospedale per vecchi, demente e quasi dimentico di lui, evocato in una scena fra le più suggestive e drammatiche del film.
La narrazione dei registi ci descrive l’odissea di Llewyn, nel corso di una settimana e si conclude con una scena che , circolarmente, ci riporta all’inizio della narrazione: un’ aggressione che lo lascia pesto e sanguinante su un lurido e gelido marciapiede del Village, mentre, all’interno di un altro locale, Bob Dylan si sta facendo le ossa: di lì a poco si imporrà sulla scena internazionale come l’unico e vero innovatore del folk americano, confinando il povero Llewyn nella irrilevanza, ciò che ne conferma il destino di artista non riconosciuto ai suoi tempi e perciò perennemente inattuale, così come molto spesso sono inattuali e incompresi tutti i veri artisti.
I Coen hanno dichiarato in un’intervista del 17 ottobre 2013 ai giornalisti Joachim Lepastier e Mathieu Macheret**, di essersi ispirati, molto liberamente, alle memorie del cantante Dave Van Ronk, da cui, in ogni caso, hanno tratto le canzoni e gli arrangiamenti musicali. Nel corso di questa loro lunga chiacchierata, essi hanno tuttavia voluto escludere di aver girato un film biografico su quello o su altri artisti dell’epoca ricostruita nel film. Difendendo orgogliosamente la loro libertà creativa hanno sostenuto che attenersi a una storia realmente accaduta avrebbe limitato troppo i loro movimenti e la loro legittima interpretazione della realtà, che è infatti, a mio giudizio, coerentemente e chiaramente riconoscibile. Il loro incontro con l’attore cantante Oskar Isaac ha poi di per sé creato quel valore aggiunto che ha permesso loro di tratteggiare in modo originale il profilo di un cantante originale, perché, casualmente (sono o no i fratelli Coen?), la voce di Oskar, profonda e vellutata, molto diversa da quella roca di Dave Van Ronk, ha determinato la personalità di Llewyn, che si è quasi imposta da sola.
La fotografia bella e malinconica, i colori luminosi e parzialmente desaturati ci danno l’impressione quasi fisica dell’inverno gelido di New York e dell’atmosfera fredda che circonda la sfortunata carriera di Llewyn. Film molto bello, premiato nel maggio 2013 a Cannes con la palma d’argento per la migliore regia, da non perdere assolutamente!
*secondo me è evidentissima, qui infatti, la citazione della famosa pagina finale di Colazione da Tiffany. Non è neppure l’unica citazione di quel film (sempre secondo me).
Riporto qui di seguito la canzone che viene integralmente presentata da Llewyn all’inizio del film: Hang Me, oh Hang Me
e quella che Llewyn canta al padre: Shoals of Herring
In entrambi i casi la voce è quella di Oskar Isaac.
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Chi avesse, invece, la curiosità di sentire la voce di Dave Van Ronk, può ascoltarla QUI, nella canzone Hang Me, oh Hang Me
Angela Laugier
Scritto il 23 febbraio 2014 alle 07:59 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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“Il mio braccio non è stato sottoposto né l’altro ieri né oggi ad alcuna prova di ferro”. Così, secondo il quirinalista Marzio Breda (Corriere della Sera) sostiene Napolitano. Dall’apparizione in TV del Presidente della Repubblica si nota che non è neanche stato “tirato per la giacchetta” che, infatti, non era per niente sgualcita. E, allora, qualcuno potrebbe chiedersi (comunque, lo faccio io) perché mai è stata estromessa Emma Bonino dal Ministro degli Affari Esteri? Non era il caso che Napolitano ingaggiasse un braccio di ferro sulla permanenza in una carica di tanto rilievo di una delle pochissime personalità che possono legittimamente richiamarsi ad Altiero Spinelli del quale il Parlamento ha celebrato non più di una decina di giorni fa l’approvazione dell’importante Progetto di Trattato da lui formulato nel 1984? Chi in Europa parlerà d’Italia e d’Europa con voce più competente e più convincente di Emma Bonino? Non resta che fare i migliori auguri al neo-Ministro degli Esteri Federica Mogherini, sicuramente consapevole del lavoro che le sarà necessario per avvicinarsi alla credibilità e al prestigio acquisiti da Emma Bonino sulla scena europea e non solo.
Insieme a Renzi, che lo ha detto a chiare lettere, anche il Ministro Mogherini sarà costretta a metterci la faccia per farsi conoscere e riconoscere. Curioso è, però, che Renzi tema di perdere la faccia più di quanto tema di perdere il governo, ma poi non sia per nulla interessato a che la faccia ce la mettano anche tutti i candidati e i parlamentari di fronte ai loro elettori. Per fortuna, sembra che la riforma elettorale (promessa per fine gennaio, poi per fine febbraio, poi per…) andrà di pari passo, quindi, lento pede, con la riforma costituzionale del bicameralismo imperfetto. Qualcuno, magari il neo-Ministro alle Riforme Istituzionali e ai Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, potrebbe ricordarsi che con le liste bloccate, per quanto relativamente corte, a nessun candidato sarà mai possibile “metterci la faccia” e nessuno si sentirà incentivato a farlo. La nuova politica nascerà, non quando il Presidente del Consiglio perderà la faccia, ma quando, dal basso, candidati ed elettori (i quali anche loro diventeranno consapevoli di perdere la faccia scegliendo male) saranno in condizioni di vedersi in faccia. Dunque, esclusivamente i collegi uninominali (a doppio turno, con una sola limpida non manipolabile soglia per il passaggio al secondo turno) offrono la soluzione accettabile. Tutto il resto è un ballo in maschera (Fonte: Gianfranco Pasquino)
Scritto il 22 febbraio 2014 alle 22:26 nella Politica, Renzi | Permalink | Commenti (10)
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La sorpresa e l’ira di Emma Bonino: «Ha saputo della sostituzione dalla tv» - I radicali: «Renzi ha fatto di testa sua senza preoccuparsi delle relazioni all’estero» (Fonte: Monica Guerzoni - Corsera)
«Perché mi hanno fatta fuori? Io davvero non lo so». Quando Emma Bonino risponde al cellulare, alle 19.35, Matteo Renzi ha da poco lasciato il salone della Vetrata e Giorgio Napolitano ha appena preso la parola. La voce della titolare della Farnesina è squillante, ma tradisce sgomento e uno stato d’animo che, eufemisticamente, si potrebbe definire di forte arrabbiatura.
«Nessuno mi ha avvertita». Matteo Renzi non le ha telefonato per dirle che non sarebbe stata riconfermata? «No, non mi ha chiamata nessuno». L’ha appreso adesso, dalla tv? «Io non sapevo assolutamente nulla». Posso chiederle cosa pensa del fatto che a prendere il suo posto sia Federica Mogherini, giovane parlamentare del Pd? «Lei può chiedermelo, certo. Ma io risponderò solo domani pomeriggio in Largo Argentina. L’appuntamento per ringraziare tutti quelli che mi hanno sostenuto e aiutato è alle 17.30. Per adesso, non ho altro da dire». Non un saluto, ma un vero e proprio comizio. E c’è da giurarci che Bonino, battagliera com’è, si toglierà qualche bella pietruzza dalle scarpe.
Silurata, senza preavviso. E dire che da settimane la leader radicale era in testa a tutti i sondaggi sul gradimento dei ministri. La più amata, la più stimata. Eppure il nuovo presidente del Consiglio non ha voluto sentire ragioni, già da un paio di giorni sul suo nome c’era una vistosa croce e al Nazareno, nella segreteria del leader, la spiegavano così: «Bonino? Non ci sembra che abbia lavorato bene».
Il cambio della guardia alla Farnesina avviene nel pieno della vicenda Marò e al ministero si registra una certa preoccupazione per la reazione delle cancellerie internazionali. Tanto più che anche Mario Mauro, responsabile della Difesa, è sparito a sorpresa dal foglietto di Renzi nelle ultimissime ore della trattativa. «Killeraggio politico», accusano senza giri di parole i Popolari per l’Italia.
Anche i Radicali sono furiosi. «Renzi ha fatto di testa sua, senza preoccuparsi delle reazioni all’estero - attacca Rita Bernardini, segretario del partito -. Renzi continua la sua antica pratica antidemocratica, tra l’altro esclude i problemi della giustizia non considerandoli come fondamentali per il Paese». E il caso dei due militari italiani in India, c’entra qualcosa? «Emma lo ha gestito egregiamente, considerato quel che le era arrivato in mano appena approdata alla Farnesina. È stata bravissima, anche sulla Siria».
Classe 1948, Emma Bonino si è costruita in decenni di attività politica una solida rete di rapporti internazionali, ad altissimo livello. Europeista convinta, è stimata dalla diplomazia Usa e grande amica di Israele, ma non ha mai trascurato il dialogo con il mondo arabo. I suoi dieci mesi nel governo Letta sono stati scanditi dalle crisi in Libia, in Egitto e in Ucraina e, al principio, dal caso di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov che fu espulsa dall’Italia a maggio. In quell’occasione il premier la ringraziò, facendo capire che non le addossava alcuna responsabilità nella gestione della vicenda.
Ora si volta pagina. «Renzi ha fatto fuori la storia radicale, socialista, azionista, liberale... Ha ottenuto l’ideale per i partitocrati» commentava Marco Pannella pochi minuti prima che il benservito diventasse ufficiale. Il vecchio leader ha centrato il punto: se il nuovo premier ha scelto di scrollarsi di dosso il simbolo di tante battaglie civili è perché vuole dare il segno di una discontinuità vera, costi quel che costi. In Parlamento, dove la notizia ha suscitato scalpore, si dice anche che i renziani avrebbero registrato con crescente fastidio il pressing ai massimi livelli sul nome della Bonino (e di Mario Mauro). Napolitano aveva chiesto continuità sui ministeri chiave? E invece, come spiegano i suoi, l’ex «rottamatore» ha voluto spazzar via i volti che rappresentano «un notabilato politico vecchio stampo». Ma nel Pd gira anche una lettura maliziosa: «La verità? Renzi ha fatto un favore a Pannella...».
22 febbraio 2014
Scritto il 22 febbraio 2014 alle 14:06 nella Politica, Renzi | Permalink | Commenti (15)
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Scritto il 22 febbraio 2014 alle 00:31 | Permalink | Commenti (4)
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Dal blog di Peter Gomez
È il segno più evidente di come il rottamatore Matteo Renzi prosegua imperterrito nella distruttiva opera di auto-rottamazione e di demolizione del sogno di cambiamento che aveva rappresentato per molti italiani. Una stolta manovra iniziata con il tradimento e il successivo brutale accoltellamento politico del mediocre Enrico Letta, a cui il nuovo premier aveva più volte pubblicamente e bugiardamente assicurato lealtà.
Certo, sull’esclusione all’ultimo minuto di Gratteri in molti vedono le impronte digitali di Napolitano. Il presidente del secondo paese più corrotto d’Europa, noto per aver lesinato solo i moniti in materia di legalità della politica, ovviamente esclude ogni responsabilità. Resta però da spiegare come mai, stando a quello che risulta per certo a Il Fatto Quotidiano, al magistrato fosse stato assicurato il dicastero solo pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. E perché Napolitano, pubblicamente, abbia poi tenuto a precisare – con una sorta di excusatio non petita – che tra lui e il neo-premier non era avvenuto nessun “braccio di ferro” sulla lista dei ministri.
Nelle prossime ore le notizie su quello che è esattamente accaduto durante il lunghissimo faccia a faccia tra il neopremier e l’ottuagenario capo dello Stato, non mancheranno. Non c’è invece bisogno di retroscena per capire tutto il resto. Bastano i curricula dei ministri più importanti.
Nella lista spiccano i nomi dell’esponente di Confindustria e della Commissione trilaterale, Federica Guidi (Sviluppo economico), quello del presidente della Lega Cooperative, Giuliano Poletti, dell’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano (Interno), e del ciellino Maurizio Lupi (Infrastutture). Mentre all’Economia ci finisce Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e ex presidente della Fondazione italiani europei di Massimo D’Alema, e alle Politiche Agricole, Maurizio Martina, già pupillo di Filippo Penati, l’ex presidente della provincia di Milano sotto processo per le tangenti di Sesto San Giovanni.
Il fatto che Renzi sia riuscito a mettere insieme una squadra formata al 50 per cento da donne, che l’età media dell’esecutivo sia piuttosto bassa, non servirà al premier per cancellare negli elettori la sensazione di trovarsi di fronte a un consiglio dei ministri espressione di quelle lobby da più parti ritenute responsabili del degrado del Paese. È infatti più che ragionevole dubitare che il suo obamiano programma di governo (“una riforma al mese”) possa essere messo in atto da una compagine del genere. Perché questo non è un dream team, ma solo una galleria di errori e orrori.
Così già oggi sappiamo che ha vinto il Gattopardo. #lavoltabuona può attendere.
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Alcune considerazioni a caldo: non basta né essere ggiovani, né essere donne, per garantire un governo non coccodé.
Marianna Madia è ggiovane. E' quella fedelissima di Renzi portata nella sua segreteria, e che il giorno dopo già si dava da fare, sbagliando ministero. Regaliamole un navigatore satellitare.
La Boschi è quella che ride sempre. Forse persino a lei, guardando le sue scarpe leopardate, scappa da ridere.
Agli Esteri, sicuro che sia stato un buon affare sostituire la Bonino con la Mogherini? Quali sono i suoi achievements, oltre quelli di far parte della segreteria di Renzi?
La verità è che Renzi si è abbassato le mutande su tutta la linea. Si è circondato da ggiovani bellocce, leopardate e con scarsa conoscenza dell'oggetto sociale di ciascun ministero. Ha accettato alla giustyizia di cacciare Gratteri, per mettere un innocuo Orlando (quello che voleva abolire l'azione penale obbligatoria). Berlusconi ringrazia. Sulla patrimoniale l'ometto di Frignano ha già detto no.
Ed ora analizziamo i risultati di "Renzi il Duro Negoziatore": questi sono i pesi specifici dei singoli partiti che lo appoggiano:
Volendo fare una bieca simulazione del "Manuale Cencelli", scopriamo che il PD, che rappresenta l'84% del corpo elettorale che fa riferimento a questa strana ammicchiata, prende il 50% dei ministeri con portafoglio; Angelino Alfano con un peso dell'11% prende il 19% dei ministeri; Scelta Civica e UDC (ognuno dei quali pesa lo 0,25% del corpo elettorale della coalizione) prendono il 6,25% ciascuno dei ministeri. ...disciamoscelo... una svendita così sarei stato capace di farla persino io. Con qualche errore da "Piccolo Maleducato" in meno: per esempio, mi sarei risparmiato la figura di merda di mandare un tweet dal Quirinale, anticipando l'annuncio ufficiale. Ma si sa... i cafoncelli spesso sono fottuti dalla loro fretta. Spintonano chi si trova sulla loro strada, e non chiedono neanche scusa. ...arrivo presto, vado via presto, e non pulisco il water...
Scritto il 22 febbraio 2014 alle 00:01 nella Politica, Renzi | Permalink
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Scritto il 21 febbraio 2014 alle 12:03 nella Renzi | Permalink | Commenti (9)
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Scritto il 21 febbraio 2014 alle 00:37 | Permalink | Commenti (5)
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Scritto il 20 febbraio 2014 alle 08:00 nella Renzi | Permalink | Commenti (32)
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Rosa Maria Di Giorgi: "Renzi ti travolge, chi rifiuta il governo ne ha paura". La senatrice Pd: con lui si lavora fino a mezzanotte, e se hai qualche tentennamento ti fulmina, è un'esperienza senza respiro (di Concetto Vecchio)
Rosa Maria, 'a margherita nnammurata
"Io custode del renzismo? Uuuh, mi piace".
C'è chi la definisce anche il prefetto di Renzi.
"Eh, prefetto è già più tosto, meglio vestale".
La senatrice Rosa Maria Di Giorgi 59 anni, conobbe Matteo Renzi quattordici anni fa nella comune militanza della Margherita. "Capii subito che era un giovane particolare". Da allora ogni volta che uno prova ad avanzare qualche critica al Capo ecco intervenire lei, sollecita come un gendarme.
Come spiega tutti questi rifiuti?
"Per accettare l'incarico in questo governo bisogna avere coraggio".
In che senso?
"È un'esperienza senza respiro".
Ah!
"Occorre realizzare dei risultati, essere efficaci, sollevare l'Italia dolente".
Non è un'esperienza ordinaria lavorare con Renzi?
"Tutt'altro. Lo dico per esperienza. (E alza gli occhi al cielo, compiaciuta). Intanto con lui si lavora sempre, riunioni fino a mezzanotte, si ricorda le promesse fatte da un dirigente due mesi prima, e quando gli dici: "Temo che non si possa fare" ti fulmina: "Penso ilcontrario".
Così?
"È travolgente, una fucina di idee. Guardi Firenze, l'ha trasformata".
Quindi ora rivoluzionerà pure l'Italia?
"Sì, lo dico con cognizione di causa".
Non è partito un po' troppo lento?
"Siamo appena a 48 ore dall'incarico, a sei giorni dalla direzione del Pd: pochi giorni ancora e ci sarà il governo".
Perché è così difficile trovare il ministro dell'Economia?
"Perché Renzi non si farà condizionare: la linea sarà quella di tagliare le sacche di spesa improduttiva, abbandonando la strada del rigorismo". (Poi, improvvisamente complice: "Ma perché la Reichlin ha detto no?".)
Non saprei.
"Devo chiederlo a Matteo".
Soprattutto non è un azzardo andare al potere così, senza passare per le elezioni?
"No, non si brucerà. Io sono sempre stata super-favorevole a questa scelta, ormai in Parlamento votavamo controvoglia i provvedimenti di Letta".
Ma avrà la stessa maggioranza.
"C'è un'altra leadership, Matteo ha fatto il sindaco, sa quel che vuole la gente, sa gli ostacoli che l'amministrazione frappone alledecisioni rapide: ora via tutti i blocchi, sburocratizzare, proviamo a dare un colpo".
Lei era comunista?
"Iscritta al Pci. Poi Pds, Ds. A un certo punto mi sono sentita a disagio. Sono andata nella Margherita ".
Matteo Renzi avrà almeno un difetto?(La senatrice si fa pensierosa).
"Forse è un po' freddo nei rapporti umani".
Dice?
"Si, sarà che pretende molto, è sempre preso, concentrato sulle cose che fa...".
Anche con lei quindi?
"Con me è rispettoso, forse con quelli della sua età è più espansivo, più caloroso, ci gioca a calcio".
(di Concetto Vecchio)
Scritto il 19 febbraio 2014 alle 23:07 nella Renzi | Permalink | Commenti (4)
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Scritto il 19 febbraio 2014 alle 00:47 | Permalink | Commenti (13)
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La Viola, lo stadio, gli affari - Ecco cosa lega Renzi a Della Valle (Fonte: Osvaldo Sabato - l'Unità)
La Fiorentina e Palazzo Vecchio. Una storia di legami forti, perché a Firenze la Viola è una religione. Si spiega così lo stretto rapporto che nel corso di questi anni ha tenuto insieme Diego Della Valle e l’amministrazione comunale. Del resto fu proprio l’ex sindaco Leonardo Domenici a consegnargli la società, ormai fallita per il crac di Vittorio Cecchi Gori. Una lunga chiacchierata sullo yacht del patron della Tod’s e lo sbarco dei Della Valle si trasforma in realtà. Da allora, sono passati più di dieci anni, l’imprenditore marchigiano è diventato una figura di riferimento a Firenze e non solo nel calcio.
Il pallone come veicolo di consensi in Italia è stata spesso una consuetudine e non poteva essere diversamente nella città di Dante. Lo sa bene Diego Della Valle. Lo sa bene anche il premier incaricato Matteo Renzi, incoraggiato spesso dal proprietario della Fiorentina nel suo percorso politico che lo ha portato fino alle porte di Palazzo Chigi.
E dire che in passato non sono mancate le frizioni fra i due. La sintonia fra Diego Della Valle e Renzi ha conosciuto alti e bassi. Sempre per cose di pallone. O meglio di strutture legate al pallone. Per esempio qualche anno fa fu alta tensione tra DDV e Palazzo Vecchio. «Uno strappo difficilmente ricucibile» disse davanti allo stadio Franchi il patron della Fiorentina. Parole che misero in subbuglio la città e che rischiavano di incrinare il rapporto con l´amministrazione comunale. «Mi risulta che il Comune si stia comportando male nei nostri confronti e se è vero il sindaco Renzi sarà chiamato a scusarsi» attaccò Della Valle. La discussione riguardava la costruzione dei nuovi campini dove si allena la squadra.
E anche la vicenda Stadio in passato ha rischiato di minare i rapporti fra Matteo e Diego. È successo quando alcuni sindaci dei Comuni limitrofi a Firenze, ingolositi dalla prospettiva di realizzare una grande infrastruttura di richiamo sul proprio territorio, avevano iniziato a tendere la mano ai proprietari della Fiorentina. «Se la famiglia Della Valle vuole, noi siamo pronti e ben disponibili a sviluppare il progetto. Nel nostro Comune c'è lo spazio sufficiente e la volontà per ospitare la cittadella viola» ebbe a dire il sindaco di Sesto Fiorentino, Gianni Gianassi. Uno smacco per Renzi, che preoccupato dalla prospettiva di «perdere» la Fiorentina invitò Diego a prendere un caffè a Palazzo Vecchio. Ci fu il caffè della pace e il caso rientrò.
Ora tutto sembra acqua passata, perché negli ultimi anni il feeling è diventato sempre più forte. Per esempio quando Renzi, aprendo la sua campagna elettorale a Bari nell’ottobre dello scorso anno, che poi lo avrebbe portato alla leadership del Pd, parlò senza mezzi termini della necessità di rottamare i poteri forti, sicuramente non pensava a Diego Della Valle. «C'è un intero establishment che ha fallito e nessuno ha il coraggio di dirlo» furono le sue parole. E quando ad Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, gli fu chiesto se fosse un supporter dell’allora sindaco, lui rispose «sono per quelli che fanno». E alle primarie del Pd Della Valle non esitò a dire che aveva votato per Renzi perché «dice cose condivisibili».
E quando il sito dell’Espresso pubblicò i nomi di alcuni dei presunti finanziatori rimasti anonimi, elencando, oltre a Cucinelli e Farinetti, poi saliti sul palco alla Leopolda, anche Diego Della Valle, con 80mila euro, e il magnate francese della moda François-Henri Pinault, che controlla Gucci, alla Fondazione si sono arrabbiarono parecchio. «L’elenco è falso da cima a fondo. Nessuno dei soggetti citati figura tra i finanziatori, né per le somme ivi indicate né per nessun’altra somma» fu la reazione piccata del presidente di Big Bang, Alberto Bianchi. Anche se lo stesso DDV in ua lunga intervista ad Otto e Mezzo su LA7, incalzato da Lilli Gruber su Renzi e la Fiorentina, chiese se davvero fosse uno dei finanziatori del sindaco di Firenze, lui fece finta di non sapere, ma non smentì categoricamente.
I dubbi restano. Ma non sul feeling fra i due, che sempre con la maglia viola di mezzo, questa volta hanno il sogno di un nuovo stadio a Firenze. Un investimento che l’azionista del Corsera e produttore di griffe prestigiose pensa da anni, ma che fino ad ora è rimasto nel cassetto. Infatti il progetto della famosa “cittadella viola” che doveva sorgere sui terreni di Fondiaria-Sai fu stoppato dalla procura di Firenze. Ora la questione sembra essersi sbloccata spostando lo stadio alla Mercafir, un’area del Comune, che con un project financing potrebbe essere trasformata nella nuova casa della Fiorentina.
Ci ha lavorato Renzi. È stato uno dei suoi ultimi atti da sindaco e ne ha parlato personalmente con Diego Della Valle domenica scorsa facendo colazione in un noto albergo di Borgo San Jacopo, a due passi da Ponte Vecchio.
Del resto l’osmosi fra l’amministrazione comunale e i Viola è tale che i Della Valle hanno voluto Eugenio Giani e Dario Nardella nel cda della Fiorentina. Due renziani di ferro. Nardella, fra le altre cose, è stato nominato da Renzi vicesindaco reggente, quindi di fatto sarà il suo successore a sindaco e toccherà a lui gestire la pratica stadio.
A unire i due c’è anche l’avversione per la Juventus, squadra degli Agnelli e degli Elkann. Ma non solo. Come non ricordare la polemica di Marchionne quando definì Firenze «una città piccola e povera»? La replica di Renzi fu immediata, come le scuse di Marchionne. È di questi giorni la lite a distanza fra Diego Della Valle e John Elkann. Il rampollo di casa Fiat aveva tuonato contro i giovani italiani che non hanno ambizione e quindi non trovano lavoro. «Non perde mai tempo di ricordare agli italiani che è un imbecille» l’attaco di Tod’s e patron della Fiorentina. Renzi assiste allo scontro preso dalla stretta attualità politica. Non si pronuncia, ma forse anche questa volta sarebbe stato d’accordo con Diego Della Valle.
Scritto il 19 febbraio 2014 alle 00:43 | Permalink | Commenti (2)
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Scritto il 18 febbraio 2014 alle 08:00 nella Politica, Renzi | Permalink | Commenti (16)
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Scritto il 17 febbraio 2014 alle 08:00 | Permalink | Commenti (29)
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PD, arriva il "primo avvertimento" dalla "ggente": flop totale alle primarie per l'elezione dei segretari regionali.
Primo avvertimento, o ultima chiamata? Le primarie, di qualsiasi misura e su qualsiasi oggetto, sono state per anni il fiore all'occhiello del PD. Un forte segnale di recupero di potere da parte dei cittadini. Ora è giunto il momento di recitare un "requiescat" per le primarie, uccise (come i referenda pannelliani a colpi di 23 alla volta) dall'uso improprio di questo strumento. Da segnale positivo di restituzione di almeno una piccola parte di potere decisionale ai cittadini, la nuova "etica renziana" prima, e l'uso strumentale che ne è stato fatto poi (e che oggi ha toccato vertici di ridicolo impensabili in passato), hanno ridotto anche lk'istituto delle primarie in coma vegetativo.
Ma andiamo con ordine. Cosa c'entra Renzi con la morte delle primarie?
-1) In attesa delle primarie che lo hanno visto opposto (e perdente) a Bersani, prima ha fatto un bordello immane per cambiare la regola statutaria (statuto approvato anche da lui) che prevedeva che il che segretario pro-tempore del PD fosse il candidato unico del PD alla premiership, in caso di primarie di coalizione;
-2) Poi ha fatto un bordello immane per aprire le primarie a cani e porci, iscritti e simpatizzanti (anche di altri partiti), e aveva tentato di
cancellare persino l'impaccio della "registrazione";
-3) Alla vigilia delle primarie, quando tutti i sondaggisti davano Bersani stra-vincente, ha iniziato una feroce campagna spargi-merda contro le primarie, denunciando "brogli organizzati" di cui era a conoscenza solo lui;
-4) A spogli completati, ha alzato i toni sui brogli, senza peraltro riuscire a dimostrarne neanche uno.
-5) Quando ha afferrato che operazioni di stampo berlusconiano del tipo "ricontiamo.it" lo stavano gettando nel ridicolo, si è rassegnato a riconoscere la vittoria di Bersani.
-6) Quando si è iniziato a parlare di primarie per la Segreteria, ha ricominciato a fare il diavoletto a quattro (di nuovo!) per aprirle a cani e porci, e... UDITE, UDITE... per ri-modificare la regoletta che aveva cancellato alle precedenti primarie... Già... quella regoletta che cancellava - su sua richiesta urlata - il legame funzionale fra carica di segretario pro-tempore e candidato unico PD alle primarie di coalizione. Non è fantastico? Lottare ferocemente per cancellare una norma che era modificata su misura dei suoi "Desideri & Interessi", e che adesso, a fronte di sondaggi che buttavano bene per lui, voleva reintrodurre...
-7) In questi giorni cani e porci hanno finalmente capito che a Renzi della "democrazia dal basso" e della "legittimazione popolare" non fotte un cazzo. A lui interessano le poltrone a più piazze: quelle di sindaco-segretario-premier, e quelle altrui. Nei prossimi mesi scadrà il 70% delle alte cariche dei boiardi di stato. #enricostaisereno... pensavi davvero che Renzi lasciasse a te l'onore, l'ònere e la riconoscenza per la scelta dei nuovi boiardi?
-8) Last but not least: oggi si è toccato il fondo: candidati alla segreteria regionale del PD "scelti" atttaverso primarie di cui non era informato NESSUNO; in molte regioni, primarie su una candidatura UNICA. Avete capito bene. UNICA. E quasi sempre renziana, of course... Io avrei dovuto perdermi la lettura di un buon libro, l'ascolto di un buon CD, o la finale di Rio de Janeiro Fognini-Ferrer, per "recarmi" al seggio e votare per un Candidato Unico, mai sentito nominare, in primarie di cui NESSUNO fino a ieri mi aveva informato. In altri termini avrei dovuto andare a mettere una crocetta su UN nome (nessuna altra scelta possibile) non scelto da me, ma dal partito (Renzi, lei ne sa qualcosa, come Segretario?), e avrei dovuto legittimare col mio voto una non-scelta fatta nelle segrete stanze.
No grazie, caro Segretario. Avevo un'altra idea delle primarie. "...accà nisciuno è fesso...". Ed ecco come Repubblica narra del "Grande Flop":
Flop totale alle primarie per l'elezione dei segretari regionali - Fassina: "Colpa del pasticcio su Letta". Pochi in fila per votare i segretari del partito nelle varie regioni (Fonte: Repubblica)
In 14 regioni più la provincia di Bolzano oggi si è votato per i segretari regionali del Partito Democratico. In alcune regioni, come in Toscana, Puglia e Veneto, il Pd ha optato per una candidatura unitaria, in altre ancora - come nel Lazio con i renziani Bonaccorsi e Melilli a contendersi la segreteria - si sono sfidati solo i fedelissimi del sindaco fiorentino. Ma è il dato trasversale, quello della scarsa affluenza, a preoccupare maggiormente Largo del Nazareno. Nel Lazio, dove nel 2012 l'affluenza toccò quota 120.000, alle 13 solo in 18.000 avevano votato. Affluenza flop anche nelle Marche - peraltro teatro di liti interne per il caso Ceriscioli, dichiarato incandidabile - dove un'elettrice non ha esitato a sfogarsi: "Siamo fedeli ma disperati" [...]
In una nota Stefano Fassina dà la colpa del flop al pasticcio del Pd su Letta: "La drammatica caduta di partecipazione alle primarie per l'elezione dei segretari regionali è il riflesso della brutale scelta avvenuta giovedì scorso in direzione nazionale con la sfiducia votata a Letta. Larga parte del popolo democratico non ha capito quanto avvenuto e ha inviato un chiaro segnale. Inoltre, ieri in tante regioni ha pesato l'assenza del passaggio nei circoli cosicché il voto è apparso come uno stanco rituale plebiscitario per sancire accordi chiusi da un ceto politico autoreferenziale. Il Pd deve riflettere molto seriamente su quanto sta avvenendo e correggere la rotta prima di ricevere altre amare soprese" [...]
Intanto al di là della scarsa affluenza, emergono i primi neo-segretari regionali dem: il sindaco di Bari Michele Emiliano in Puglia, Dario Parrini in Toscana, Antonella Grim in Friuli-Venezia Giulia. Con molti renziani dati per favoriti, come Davide Gariglio in Piemonte, Alessandro Alfieri in Lombardia.
Scritto il 16 febbraio 2014 alle 22:50 nella Berlusconi, Bersani, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (50)
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...avevo immaginato di scrivere un fiume di parole per stigmatizzare Civati che dopo aver giocato a "culo e camicia" con Renzi, co-fondatore dell'idiotissimo "Movimento dei Rottamatori", sconfitto dal bischero, adesso si è messo a fargli la guerra... Quando si dice la saldezza dei principi... E mentre io cerco di connettere due sinapsi per torvare qualcosa di spiacevole da dire, ecco che arriva Staino che ti risolve l'editpriale con una vignetta...
...quando Renzi & Civati si amavano...
Scritto il 16 febbraio 2014 alle 08:01 | Permalink | Commenti (17)
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Recensione del film "DALLAS BUYERS CLUB" (di Angela Laugier)
Regia: Jean-Marc Vallée
Principali interpreti: Matthew McConaughey, Jared Leto, Jennifer Garner, Denis O’Hare, Steve Zahn, Griffin Dunne, Dallas Roberts, Kevin Rankin – 117 ‘ – USA 2013.
Il regista canadese di questo film porta sullo schermo il contenuto di un’intervista che nel 1992, un mese prima di morire, l’elettricista texano Ron Woodroof rilasciò al produttore cinematografico Craig Borden per raccontargli la storia della sua malattia, l’AIDS, contratta parecchi anni prima, ma diagnosticata nel 1986. Era comune a Woodroof e a Borden l’intento di ricavarne un film che aiutasse in primo luogo a sfatare alcuni luoghi comuni e poi a capire come si possa convivere con la malattia, limitando gli eccessi e adottando, per quanto tardivamente, uno stile di vita il più possibile sano. Per una serie di rifiuti, resistenze, ostacoli, disguidi, con più di venti anni di ritardo il film ispirato alla storia di Woodroof ha potuto essere realizzato ed è arrivato anche nelle nostre sale. L’ha girato, in soli venti giorni, Jean-Marc Vallée, che si è avvalso di un ottimo cast, puntando soprattutto sull’eccezionale recitazione di Matthew McConaughey, fatto dimagrire per renderlo un malato di AIDS più credibile. L’attore è infatti riuscito a dare corpo e anima al suo personaggio, adeguandosi benissimo alla parte del cowboy texano, come tutti lo immaginiamo: macho, collezionista di donne, arrogante e sprezzante; quello che va al rodeo, ama bere troppo, fumare troppo e non si preoccupa della malattia che si sta diffondendo perché è così stolto da pensare che, non essendo gay, la cosa non lo possa in alcun modo riguardare. Come si permette dunque un medico di dirgli che invece quella bella malattia ha contagiato anche lui? Come si permette di dirglielo davanti a un’infermiera? Non è un’infermiera, ma un medico a sua volta: anche nel Texas repubblicano e reazionario qualche donna riesce a farcela, e lavora con piena responsabilità e grande sensibilità negli ospedali, nonostante le insolenze di quelli come Woodroof e dei suoi amici, che, ora che è malato, non vogliono neppure avvicinarlo: chi l’avrebbe mai detto che Woodroof fosse gay?
Di fronte alla malattia mortale, non può, però, esistere alcuna differenza fra i gay e quelli che non lo sono. Si impone, anche al macho più sciocco, solidarietà e aiuto reciproco: molti malati che attendono di morire in ospedale si offrono per sperimentare, sulla loro pelle, il nuovo farmaco che una casa farmaceutica sta già provando in alcuni paesi europei. A lui, che ha deciso troppo tardi, non è concesso, così come a molti altri, di sottoporsi alla sperimentazione. Se ne verrà via dall’ospedale per tentare, in Messico, la strada delle cure alternative. In realtà non si tratta di vere e proprie terapie, ma di assumere cocktail, studiati da un medico, di proteine, di vitamine e di estratti vegetali di provata efficacia nel rafforzare il sistema immunitario, nonché di cambiare totalmente stile di vita. Woodroof ne farà un business, importando a Dallas grandi quantità dei preparati che gli consentiranno di sopravvivere (non di guarire) ben al di là delle previsioni dei medici, contrapponendosi alle case farmaceutiche, alla Food and Drug Administration e alle autorità federali.
Questo aspetto della vicenda è centrale nel film: in un paese che non ha un servizio sanitario pubblico, la libertà di cura non può essere vietata, ma è vietato lo spaccio di farmaci non autorizzati e potenzialmente nocivi. I consigli degli avvocati indurranno Woodroof a fondare un Club di compratori, in cui, pagando una quota mensile, i malati che lo vorranno potranno acquistare i prodotti messicani. Nessuna promessa di guarigione miracolosa, nessun effetto placebo, naturalmente, ma una maggiore serenità, determinata dal parziale recupero della forza fisica, che consentirà a molti una significativa sopravvivenza. Un buon film, con una narrazione cronachistica chiara e interessante, ma non molto coinvolgente.
Angela Laugier
Scritto il 16 febbraio 2014 alle 07:59 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (2)
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John Elkann, presidente della Fiat
SONDRIO - I giovani italiani si lamentano, ingrassano le statistiche sulla disoccupazione generazionale, entrano in tutti i discorsi sugli anni della grande crisi. In realtà, restano ancora dei "bamboccioni", pantofolai e mammoni, a distanza di sette anni, era il 2007, da quando l'allora ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa coniò quel soprannome. Parola di John Elkann.
"Molti giovani non colgono le tante possibilità di lavoro che ci sono o perché stanno bene a casa o perché non hanno ambizione" sostiene il presidente della Fiat, che oggi a Sondrio ha avuto un incontro con gli studenti della città per parlare proprio di lavoro e di scuola. "I giovani - sottolinea Elkann - devono essere più determinati nel trovare il lavoro, perché ci sono molte opportunità, spesso colte da altri, proprio perché loro non hanno voglia di coglierle. Questo stimolo, legato al fatto che o non ne hanno bisogno o non c'è la condizione di fare certe cose".
Uno studente prova a rintuzzare l'aperta critica a quello Elkann considera un atteggiamento largamente condiviso dai giovani italiani. Replicando che, forse, la mancanza di occupazione giovanile è conseguenza di una domanda che non c'è. John liquida rapidamente la questione: "Ci sono tantissimi lavori da fare, c'è tantissima domanda di lavoro, ma manca proprio l'offerta. Certo, io sono stato fortunato ad avere molte opportunità, ma quando le ho viste ho saputo anche coglierle".
Ma, collisioni e confusioni tra domanda e offerta a parte, c'è un ingrediente che il presidente della Fiat pone in cima alla ricetta per "farcela": l'ottimismo. "E' meglio essere ottimisti e guardare avanti in maniera reale", sottolinea nel suo faccia a faccia con gli studenti, "le opportunità esistono più oggi che una volta e sono enormi. Una risposta alla disoccupazione giovanile, ad esempio, può essere quella di creare delle attività in proprio". E a titolo di esempio Elkann ricorda l'iniziativa della fondazione Agnelli chiamata "'Prestito d'onore", rivolta proprio ai giovani studenti che intendano proseguire gli studi o avviare un'attività.
Cogliere al volo le occasioni. Non ci pensa su due volte un giovane, aspirante elettricista, che rivolge a Elkann una domanda semplice e diretta: "Una volta diventato elettricista, posso chiedere se c'è un posto alla Fiat?". Il presidente prende tempo: "Prima finisci bene gli studi, poi ne parliamo".
Un altro studente, dopo attente e prolungate riflessioni esistenziali, fa a Elkann la domanda più sincera: "Perché, nonostante la sua posizione, lei continua a lavorare?": Sottinteso: John, perché sbattersi quando potresti prendertela davvero comoda? Risposta: "Lavoro perché ho un grande desiderio di fare, di partecipare. Questa è la motivazione principale che mi permette anche di fare una vita interessante. Sicuramente è più interessante essere impegnato, fare delle cose piuttosto che vivere in vacanza tutto il tempo". Risposta altrettanto sincera? Di sicuro lo si è dimostrato lo stesso studente. Per nulla d'accordo sul "senso della vita" secondo John Elkann.
Marco De Benedetti: "Unica scusante: non ha mai avuto un lavoro". Marco De Benedetti, secondogenito dell'Ingegnere, dedica due tweet molto duri a Elkann. "Solo chi non ha mai dovuto cercarsi un lavoro può dire una minchiata del genere". E poi: "Unica scusante per quella frase offensiva nei confronti di milioni di giovani è proprio il fatto che un lavoro non lo ha mai avuto".
Airaudo (Sel): "Persa occasione per tacere". "Credo che oggi l'erede più rappresentativo della famiglia Agnelli abbia perso un'occasione per tacere" afferma il capogruppo di Sel in Commissione lavoro Giorgio Airaudo. "Quando si hanno le sue fortune e le sue facilità di scelta bisognerebbe avere più rispetto e più comprensione per chi, giovane, cerca ogni giorno di costruirsi e inventarsi un futuro in un Paese dove il lavoro si riduce, si precarizza e si svaluta. Ma soprattutto mister Chyrsler-Fiat dovrebbe dirci, ricordando suo nonno, cosa fa lui perché i giovani abbiano un lavoro in Italia e non negli Stati Uniti".
Fedriga (Lega Nord): "Se avesse vissuto da ragazzo normale...". "Se John Elkann avesse vissuto da ragazzo normale conoscendone le difficoltà, oggi non parlerebbe così, anzi farebbe parte del 42% di giovani disoccupati italiani. Invece grazie ai soldi dei cittadini che sono arrivati a fiumi nelle casse delle società della famiglia Agnelli lui ha potuto vivere da nababbo: frequentare le migliori scuole, divertirsi nei migliori salotti e approdare giovanissimo ai vertici delle controllate della Fiat prima e a capo dell'azienda di famiglia poi. Per dirla con una battuta, sembra proprio che abbia studiato dalla Fornero". Lo afferma in una nota Massimiliano Fedriga, responsabile Lavoro della Lega Nord.
Anzaldi (Pd): "Elkann stupefacente". "Ma il presidente della Fiat è mai entrato in un centro per l'impiego? Forse, prima di dire certe cose, sarebbe opportuno che lo facesse" afferma in una nota il deputato del Partito Democratico, Michele Anzaldi. "Le parole del presidente Fiat arrivano del tutto inaspettate, nel momento in cui l'azienda decide di spostare la sede legale e fiscale all'estero. Nel momento in cui la disoccupazione giovanile tocca la cifra record del 40%, non si capisce come si possa sostenere che i giovani non trovano lavoro perché preferiscono non cercarlo. I giovani italiani meritano rispetto, in particolare da chi rappresenta aziende che hanno avuto tanto dal nostro Paese. (Fonte: Repubblica)
Come commentare questa idiozia? Ricordando la minchiata del ggiovane Martone, quella di Padoa Schioppa sui "bamboccioni", o quella della Fornero che tesse le laudi del precariato, avendo la figliola con due impieghi contemporanei a tempo indeterminato? Preferisco commentare con due aforismi: uno colto, attribuito a JFK, e uno "de panza", attribuito a un sanguigno popolano napoletano:
"...Buon Dio, tu che hai fissato un tetto all'intelligenza dell'uomo, perchè non hai fissato anche un pavimento alla sua stupidità?..."
"... e ta putive sparagnà, 'sta figura 'e mmerda..."
Scritto il 15 febbraio 2014 alle 12:10 | Permalink | Commenti (13)
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John Elkann, presidente della Fiat
SONDRIO - I giovani italiani si lamentano, ingrassano le statistiche sulla disoccupazione generazionale, entrano in tutti i discorsi sugli anni della grande crisi. In realtà, restano ancora dei "bamboccioni", pantofolai e mammoni, a distanza di sette anni, era il 2007, da quando l'allora ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa coniò quel soprannome. Parola di John Elkann.
"Molti giovani non colgono le tante possibilità di lavoro che ci sono o perché stanno bene a casa o perché non hanno ambizione" sostiene il presidente della Fiat, che oggi a Sondrio ha avuto un incontro con gli studenti della città per parlare proprio di lavoro e di scuola. "I giovani - sottolinea Elkann - devono essere più determinati nel trovare il lavoro, perché ci sono molte opportunità, spesso colte da altri, proprio perché loro non hanno voglia di coglierle. Questo stimolo, legato al fatto che o non ne hanno bisogno o non c'è la condizione di fare certe cose".
Uno studente prova a rintuzzare l'aperta critica a quello Elkann considera un atteggiamento largamente condiviso dai giovani italiani. Replicando che, forse, la mancanza di occupazione giovanile è conseguenza di una domanda che non c'è. John liquida rapidamente la questione: "Ci sono tantissimi lavori da fare, c'è tantissima domanda di lavoro, ma manca proprio l'offerta. Certo, io sono stato fortunato ad avere molte opportunità, ma quando le ho viste ho saputo anche coglierle".
Ma, collisioni e confusioni tra domanda e offerta a parte, c'è un ingrediente che il presidente della Fiat pone in cima alla ricetta per "farcela": l'ottimismo. "E' meglio essere ottimisti e guardare avanti in maniera reale", sottolinea nel suo faccia a faccia con gli studenti, "le opportunità esistono più oggi che una volta e sono enormi. Una risposta alla disoccupazione giovanile, ad esempio, può essere quella di creare delle attività in proprio". E a titolo di esempio Elkann ricorda l'iniziativa della fondazione Agnelli chiamata "'Prestito d'onore", rivolta proprio ai giovani studenti che intendano proseguire gli studi o avviare un'attività.
Cogliere al volo le occasioni. Non ci pensa su due volte un giovane, aspirante elettricista, che rivolge a Elkann una domanda semplice e diretta: "Una volta diventato elettricista, posso chiedere se c'è un posto alla Fiat?". Il presidente prende tempo: "Prima finisci bene gli studi, poi ne parliamo".
Un altro studente, dopo attente e prolungate riflessioni esistenziali, fa a Elkann la domanda più sincera: "Perché, nonostante la sua posizione, lei continua a lavorare?": Sottinteso: John, perché sbattersi quando potresti prendertela davvero comoda? Risposta: "Lavoro perché ho un grande desiderio di fare, di partecipare. Questa è la motivazione principale che mi permette anche di fare una vita interessante. Sicuramente è più interessante essere impegnato, fare delle cose piuttosto che vivere in vacanza tutto il tempo". Risposta altrettanto sincera? Di sicuro lo si è dimostrato lo stesso studente. Per nulla d'accordo sul "senso della vita" secondo John Elkann.
Marco De Benedetti: "Unica scusante: non ha mai avuto un lavoro". Marco De Benedetti, secondogenito dell'Ingegnere, dedica due tweet molto duri a Elkann. "Solo chi non ha mai dovuto cercarsi un lavoro può dire una minchiata del genere". E poi: "Unica scusante per quella frase offensiva nei confronti di milioni di giovani è proprio il fatto che un lavoro non lo ha mai avuto".
Airaudo (Sel): "Persa occasione per tacere". "Credo che oggi l'erede più rappresentativo della famiglia Agnelli abbia perso un'occasione per tacere" afferma il capogruppo di Sel in Commissione lavoro Giorgio Airaudo. "Quando si hanno le sue fortune e le sue facilità di scelta bisognerebbe avere più rispetto e più comprensione per chi, giovane, cerca ogni giorno di costruirsi e inventarsi un futuro in un Paese dove il lavoro si riduce, si precarizza e si svaluta. Ma soprattutto mister Chyrsler-Fiat dovrebbe dirci, ricordando suo nonno, cosa fa lui perché i giovani abbiano un lavoro in Italia e non negli Stati Uniti".
Fedriga (Lega Nord): "Se avesse vissuto da ragazzo normale...". "Se John Elkann avesse vissuto da ragazzo normale conoscendone le difficoltà, oggi non parlerebbe così, anzi farebbe parte del 42% di giovani disoccupati italiani. Invece grazie ai soldi dei cittadini che sono arrivati a fiumi nelle casse delle società della famiglia Agnelli lui ha potuto vivere da nababbo: frequentare le migliori scuole, divertirsi nei migliori salotti e approdare giovanissimo ai vertici delle controllate della Fiat prima e a capo dell'azienda di famiglia poi. Per dirla con una battuta, sembra proprio che abbia studiato dalla Fornero". Lo afferma in una nota Massimiliano Fedriga, responsabile Lavoro della Lega Nord.
Anzaldi (Pd): "Elkann stupefacente". "Ma il presidente della Fiat è mai entrato in un centro per l'impiego? Forse, prima di dire certe cose, sarebbe opportuno che lo facesse" afferma in una nota il deputato del Partito Democratico, Michele Anzaldi. "Le parole del presidente Fiat arrivano del tutto inaspettate, nel momento in cui l'azienda decide di spostare la sede legale e fiscale all'estero. Nel momento in cui la disoccupazione giovanile tocca la cifra record del 40%, non si capisce come si possa sostenere che i giovani non trovano lavoro perché preferiscono non cercarlo. I giovani italiani meritano rispetto, in particolare da chi rappresenta aziende che hanno avuto tanto dal nostro Paese. (Fonte: Repubblica)
Come commentare questa idiozia? Ricordando la minchiata del ggiovane Martone, quella di Padoa Schioppa sui "bamboccioni", o quella della Fornero che tesse le laudi del precariato, avendo la figliola con due impieghi contemporanei a tempo indeterminato? Preferisco commentare due due aforismi: uno colto, attribuito a JFK, e uno "de panza", attribuito ad un sanguigno popolano napoletano:
"...Buon Dio, tu che hai fissato un tetto all'intelligenza dell'uomo, perchè non hai fissato anche un pavimento alla sua stupidità?..."
"... e ta putive sparagnà, 'sta figura 'e mmerda..."
Scritto il 15 febbraio 2014 alle 12:10 | Permalink | Commenti (1)
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John Elkann, presidente della Fiat
SONDRIO - I giovani italiani si lamentano, ingrassano le statistiche sulla disoccupazione generazionale, entrano in tutti i discorsi sugli anni della grande crisi. In realtà, restano ancora dei "bamboccioni", pantofolai e mammoni, a distanza di sette anni, era il 2007, da quando l'allora ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa coniò quel soprannome. Parola di John Elkann.
"Molti giovani non colgono le tante possibilità di lavoro che ci sono o perché stanno bene a casa o perché non hanno ambizione" sostiene il presidente della Fiat, che oggi a Sondrio ha avuto un incontro con gli studenti della città per parlare proprio di lavoro e di scuola. "I giovani - sottolinea Elkann - devono essere più determinati nel trovare il lavoro, perché ci sono molte opportunità, spesso colte da altri, proprio perché loro non hanno voglia di coglierle. Questo stimolo, legato al fatto che o non ne hanno bisogno o non c'è la condizione di fare certe cose".
Uno studente prova a rintuzzare l'aperta critica a quello Elkann considera un atteggiamento largamente condiviso dai giovani italiani. Replicando che, forse, la mancanza di occupazione giovanile è conseguenza di una domanda che non c'è. John liquida rapidamente la questione: "Ci sono tantissimi lavori da fare, c'è tantissima domanda di lavoro, ma manca proprio l'offerta. Certo, io sono stato fortunato ad avere molte opportunità, ma quando le ho viste ho saputo anche coglierle".
Ma, collisioni e confusioni tra domanda e offerta a parte, c'è un ingrediente che il presidente della Fiat pone in cima alla ricetta per "farcela": l'ottimismo. "E' meglio essere ottimisti e guardare avanti in maniera reale", sottolinea nel suo faccia a faccia con gli studenti, "le opportunità esistono più oggi che una volta e sono enormi. Una risposta alla disoccupazione giovanile, ad esempio, può essere quella di creare delle attività in proprio". E a titolo di esempio Elkann ricorda l'iniziativa della fondazione Agnelli chiamata "'Prestito d'onore", rivolta proprio ai giovani studenti che intendano proseguire gli studi o avviare un'attività.
Cogliere al volo le occasioni. Non ci pensa su due volte un giovane, aspirante elettricista, che rivolge a Elkann una domanda semplice e diretta: "Una volta diventato elettricista, posso chiedere se c'è un posto alla Fiat?". Il presidente prende tempo: "Prima finisci bene gli studi, poi ne parliamo".
Un altro studente, dopo attente e prolungate riflessioni esistenziali, fa a Elkann la domanda più sincera: "Perché, nonostante la sua posizione, lei continua a lavorare?": Sottinteso: John, perché sbattersi quando potresti prendertela davvero comoda? Risposta: "Lavoro perché ho un grande desiderio di fare, di partecipare. Questa è la motivazione principale che mi permette anche di fare una vita interessante. Sicuramente è più interessante essere impegnato, fare delle cose piuttosto che vivere in vacanza tutto il tempo". Risposta altrettanto sincera? Di sicuro lo si è dimostrato lo stesso studente. Per nulla d'accordo sul "senso della vita" secondo John Elkann.
Marco De Benedetti: "Unica scusante: non ha mai avuto un lavoro". Marco De Benedetti, secondogenito dell'Ingegnere, dedica due tweet molto duri a Elkann. "Solo chi non ha mai dovuto cercarsi un lavoro può dire una minchiata del genere". E poi: "Unica scusante per quella frase offensiva nei confronti di milioni di giovani è proprio il fatto che un lavoro non lo ha mai avuto".
Airaudo (Sel): "Persa occasione per tacere". "Credo che oggi l'erede più rappresentativo della famiglia Agnelli abbia perso un'occasione per tacere" afferma il capogruppo di Sel in Commissione lavoro Giorgio Airaudo. "Quando si hanno le sue fortune e le sue facilità di scelta bisognerebbe avere più rispetto e più comprensione per chi, giovane, cerca ogni giorno di costruirsi e inventarsi un futuro in un Paese dove il lavoro si riduce, si precarizza e si svaluta. Ma soprattutto mister Chyrsler-Fiat dovrebbe dirci, ricordando suo nonno, cosa fa lui perché i giovani abbiano un lavoro in Italia e non negli Stati Uniti".
Fedriga (Lega Nord): "Se avesse vissuto da ragazzo normale...". "Se John Elkann avesse vissuto da ragazzo normale conoscendone le difficoltà, oggi non parlerebbe così, anzi farebbe parte del 42% di giovani disoccupati italiani. Invece grazie ai soldi dei cittadini che sono arrivati a fiumi nelle casse delle società della famiglia Agnelli lui ha potuto vivere da nababbo: frequentare le migliori scuole, divertirsi nei migliori salotti e approdare giovanissimo ai vertici delle controllate della Fiat prima e a capo dell'azienda di famiglia poi. Per dirla con una battuta, sembra proprio che abbia studiato dalla Fornero". Lo afferma in una nota Massimiliano Fedriga, responsabile Lavoro della Lega Nord.
Anzaldi (Pd): "Elkann stupefacente". "Ma il presidente della Fiat è mai entrato in un centro per l'impiego? Forse, prima di dire certe cose, sarebbe opportuno che lo facesse" afferma in una nota il deputato del Partito Democratico, Michele Anzaldi. "Le parole del presidente Fiat arrivano del tutto inaspettate, nel momento in cui l'azienda decide di spostare la sede legale e fiscale all'estero. Nel momento in cui la disoccupazione giovanile tocca la cifra record del 40%, non si capisce come si possa sostenere che i giovani non trovano lavoro perché preferiscono non cercarlo. I giovani italiani meritano rispetto, in particolare da chi rappresenta aziende che hanno avuto tanto dal nostro Paese. (Fonte: Repubblica)
Come commentare questa idiozia? Ricordando la minchiata del ggiovane Martone, quella di Padoa Schioppa sui "bamboccioni", o quella della Fornero che tesse le laudi del precariato, avendo la figliola con due impieghi contemporanei a tempo indeterminato? Preferisco commentare due due aforismi: uno colto, attribuito a JFK, e uno "de panza", attribuito ad un sanguigno popolano napoletano:
"...Buon Dio, tu che hai fissato un tetto all'intelligenza dell'uomo, perchè non hai fissato anche un pavimento alla sua stupidità?..."
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Scritto il 15 febbraio 2014 alle 12:09 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 15 febbraio 2014 alle 08:00 | Permalink | Commenti (12)
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Ecco perché Renzi cambia gioco. E ora vuole il posto di Letta. Col rischio flop. Retroscena di quello che sembra un blitz. Ma non lo è (di Marco Damilano - l'Espresso del 14 Febbraio 2014)
L'operazione "Matteo Premier Subito" ha l'apparenza del blitzkrieg, la guerra lampo, l'attacco rapido che non lascia scampo all'avversario, una specie di battaglia di Austerlitz renziana condotta in poche mosse fulminee: ultimatum al premier Enrico Letta la settimana scorsa alla direzione del PD, lunga cena con Giorgio Napolitano per placare le perplessità del Quirinale, intervento davanti ai deputati del partito alle otto del mattino di martedì 11 febbraio, l'ora preferita dal segretario-sindaco per riunioni, proclami, decisioni, imboscate, resistenza, e infine resa dell'inquilino di Palazzo Chigi costretto a sloggiare dopo un drammatico faccia a faccia con il pretendente alla successione. Ma non c'è nulla di improvvisato nel progetto di ascesa di Matteo Renzi alla guida del governo, potenziale presidente del Consiglio più giovane della storia repubblicana (sbagliato: Goria è stato Presidente del Consiglio a 34 anni. NdR), anzi, della storia unitaria (l'attuale detentore del record aveva al momento della nomina 39 anni e tre mesi, Renzi i trentanove li ha compiuti poco più di un mese fa: si chiamava Benito Mussolini).
Anzi, è una scalata lungamente preparata. Cominciata un anno e mezzo fa, il 13 settembre 2012, quando il Bimbaccio in maniche di camicia come uno sposo al ricevimento si candidò alla primarie per la premiership dal palco dell'auditorium della Gran Guardia in piazza Bra a Verona spiegando: «Noi siamo quelli che hanno l'ambizione di governare l'Italia per i prossimi venticinque anni. Mi dicono: lascia perdere, chi te lo fa fare? Hai 37 anni, aspetta il tuo turno. Ma adesso tocca a noi». Interrotta nel momento più amaro, la batosta alle primarie contro Pier Luigi Bersani, il 2 dicembre 2012, che sembrava condannarlo ad altri cinque anni di inaugurazioni di scuole a Firenze e che, invece, in virtù di quella fortuna che non deve mancare mai all'aspirante principe, si è trasformata in una maledizione per il vincitore e in una straordinaria opportunità per lo sconfitto, a un anno esatto di distanza dal terribile voto del 25 febbraio, quando Bersani fu travolto dall'onda di piena del Movimento 5 Stelle. Perfezionata, infine, la notte dell'8 dicembre, appena due mesi fa, nello speech di investitura dopo il voto delle primarie che lo aveva plebiscitato leader: «Forse useremo metodi un po' spicci, ma non confondete un cambio di governo con l'ambizione di cambiare il Paese. Abbiamo preso i voti per scardinare il sistema, non per sostituirlo». Un discorso da premier in pectore, non da segretario.
Ma il vero cambio di rotta, la decisione di andare a Palazzo Chigi senza passare dalle elezioni, Matteo Renzi l'ha presa prima di essere eletto segretario del Pd, il 4 dicembre, quando alla convocazione dei gazebo Pd mancavano quattro giorni. Quel pomeriggio la Corte Costituzionale bocciò la legge elettorale Porcellum, con motivazioni inusuali, lasciando al suo posto un sistema di voto a brandelli e nei fatti inapplicabile. «Una sentenza politica», la bollò il padre del maggioritario Mario Segni, che sembrò provocare l'effetto politico di blindare la legislatura e dunque, anche, il governo Letta. La vittima designata, in questo scenario, doveva essere proprio il trionfatore annunciato delle primarie, Matteo il Giovane: imprigionato nel sistema, senza la possibilità di ricorrere all'arma da fine del mondo, le elezioni anticipate, minaccia spuntata per quanto agitata quasi ogni giorno, intrappolato nella palude.
E non per caso il primo pensiero del segretario del Pd appena eletto, nella notte fiorentina, fu per loro, «i professionisti dell'inciucio, i burocrati, i papaveri, chi pensava di stabilizzare le larghe intese, chi si preparava a brindare al ritorno alla proporzionale: vi è andata male!». È lì, in quel passaggio di estrema difficoltà, che per Renzi si materializza la scomoda alternativa. Sostenere il governo Letta, a costo di reggerne il peso dell'impopolarità e di perdere malamente le elezioni europee del 25 maggio, oppure tentare la scorciatoia, l'azzardo, «la forzatura», come la chiama Paolo Gentiloni, tra i più autorevoli sostenitori della prima ora, il rischio mortale.
Il pericolo, soprattutto, di tradire il cromosoma essenziale del renzismo, conquistare una carica con la spinta di un voto popolare e non con una manovra di vertice, che si tratti di Palazzo Vecchio, la segreteria del Pd o la guida del governo. «Non sono come Letta o come Angelino Alfano, portati al governo da altri, da Massimo D'Alema o da Silvio Berlusconi: io sono diverso, sono qui perché ho ricevuto un mandato popolare, tre milioni di persone che mi hanno votato», diceva un mese fa. E ora, invece, lo sbarco a palazzo Chigi avviene con modalità simili a quelle che hanno portato alla premiership Mario Monti o Enrico Letta: gli unici due presidenti del Consiglio indicati dal risultato di un voto negli ultimi venti anni rimangono Berlusconi e, nel centro-sinistra, Romano Prodi.
Renzi, il più attrezzato a uguagliare e superare il primato del Professore, non farà invece eccezione. Di più, la scalata ricorda in modo inquietante le liturgie della Prima Repubblica: consultazioni istituzionali avvolte nel mistero, direzioni del partito convocate per staccare la spina al governo presieduto da un esponente dello stesso partito, trattative segrete, proposte di scambio, la poltrona degli Esteri offerta come premio di consolazione al premier uscente come si usava ai tempi della Dc di Mariano Rumor e del manuale Cencelli, nessun passaggio elettorale e neppure nelle aule della Camera e del Senato.
Una crisi tutta extra-parlamentare che porta alla guida del governo un leader che a Montecitorio ha letteralmente messo piede la prima volta due settimane fa per un incontro con i deputati del Pd. «Questo è il famoso Transatlantico? Me lo fate vedere?», si è affacciato curioso Renzi alle otto di sera di un lunedì sulla guida rossa del corridoio principale di quella Camera dove potrebbe ritrovarsi tra qualche giorno a tenere il discorso della fiducia da presidente del Consiglio. In quelle stanze, l'accelerazione del cambio di inquilino a Palazzo Chigi è stata accolta con euforia da tutti i capi-corrente del Pd. «Quando Matteo è venuto a spiegare che il suo è un governo che arriverà fino al 2018 è salita una ola tra i deputati», racconta Gentiloni. «La cosa che mi diverte di più è che tutto nasce e finisce da uno scontro tra democristiani. Nel pugnalare Letta, lo riconosco, Renzi ha dimostrato di appartenere alla stirpe», gongola Giuseppe Fioroni, certo non un amico del segretario fiorentino.
...che tristezza, Chiamparino...
E Dario Franceschini, il gemello di Letta, si è defilato al momento giusto: mentre si consumava la resa dei conti tra i due rivali a Palazzo Chigi lui si è messo a fotografare la smart blu nel cortile di Palazzo Chigi che ha portato Renzi all'incontro decisivo, a immortalare la conquista, il momento storico, il passaggio di campo (suo). La minoranza post-Ds, erede del Pci, nel momento del trapasso è la più entusiasta: «Letta non ha capito di quale spinta sia capace Renzi», ammette ora Gianni Cuperlo, che meno di un mese fa si è dimesso dalla presidenza del partito in segno di protesta per l'irruenza polemica del numero uno di largo del Nazareno. E il ciclone Renzi si abbatte sugli altri partiti: in Sel divisa Nichi Vendola presidia il territorio, fa su e giù in Transatlantico con i deputati, il capogruppo Gennaro Migliore che partecipò alla conclusione dell'ultima edizione della Leopolda, il meeting renziano, ed è tentato dall'ingresso nel governo e il pupillo Nicola Fratoianni, fieramente contrario.
Nella Lega c'è l'imprevista apertura dell'altro Matteo (Salvini). E in Forza Italia? C'è l'ammirazione per la discesa in campo fulminea di impronta berlusconiana e il timore di restare confinati per anni all'opposizione. La speranza che Renzi possa fare quello che Berlusconi ha sempre mancato, la riforma della giustizia, per esempio, il calcolo del logoramento, la paura di restare isolati. «Se tutto va bene, Matteo sarà il primo segretario del centro-sinistra ad aver fregato Berlusconi e non viceversa», spiegano nel cerchio magico renziano. «Lo ha coinvolto nella maggioranza per le riforme e da lì il Cavaliere non si può sfilare, se lo fa si becca una legge elettorale senza di lui, c'è la maggioranza per farla. E intanto partirà una maggioranza per un governo di legislatura senza Forza Italia e con Alfano rassicurato dalla prospettiva di arrivare fino al 2018».
E se invece tutto va male? Anche un personaggio ricco di autostima come Renzi, per usare un eufemismo, non può non mettere nel conto le incognite dell'operazione. La più importante: il leader ha sempre predicato l'esigenza di una riforma radicale delle istituzioni, una nuova legge elettorale con una maggioranza sicura e l'eliminazione del bicameralismo, ma se andrà a Palazzo Chigi troverà il vecchio sistema di sempre, con i suoi regolamenti e i suoi tempi biblici, la navetta tra le due Camere e gli attuali gruppi parlamentari, con il Movimento 5 Stelle sulle barricate, prevedibilmente ringalluzzito dalla possibilità di interpretare la parte di unico oppositore del nuovo governo. I rapporti di forza sono invariati, soprattutto al Senato, dove Letta poteva contare su dieci voti di scarto: Renzi potrebbe allargare la maggioranza con qualche apporto di Sel o addirittura di qualche dissidente grillino, ma questo non farebbe che aumentare l' eterogeneità della nuova maggioranza, dall'alfaniano Carlo Giovanardi, nemico giurato di ogni legge sulle unioni civili e sulle coppie di fatto, ai senatori vendoliani. Se poi dovessero aggiungersi le astensioni leghiste l'eventuale governo Renzi assumerebbe i colori dell'arcobaleno: rosso-azzurro-bianco-verde... In questa situazione anche il capitano più valoroso rischia di entrare nella stanza dei bottoni e trovarla desolatamente vuota.
Una seconda incognita riguarda la preparazione del candidato a Palazzo Chigi: l'abilità, il fiuto, l'intelligenza quasi ferina di Renzi, la sua rapidità nel capire le situazioni e nel cambiare gioco è fuori discussione. Ma per ora la sua esperienza di uomo di governo si ferma alla Provincia e al Comune di Firenze, macchine a disposizione del presidente e del sindaco, in aule consiliari dove una star della politica nazionale come Renzi si muove a piacimento. Nella macchina-governo, invece, l'alta dirigenza statale, quel blocco di capi-gabinetto e direttori generali dei ministeri, «i papaveri» di cui parla Renzi, si muove compatta ed è passata indenne dai governi del centro-destra e del centro-sinistra fino a Monti. Il nuovo premier, se l'operazione andrà in porto, dovrà trovare una bussola per orientarsi. Consigliato da chi? Sui rapporti internazionali, se Renzi può essere inorgoglito dal semestre europeo, un debutto da protagonista sul palcoscenico, il più giovane governante del G20, le gaffes sono dietro l'angolo.
La terza incognita riguarda la classe dirigente, il nuovo potere che avanza: la lista dei ministri, certo, per cui è richiesta una prova di fantasia, un mix di innovazione e di competenza che non può fermarsi alla pura rivendicazione dei giovani e delle donne, come ha fatto Letta nel suo governo e Renzi nella segreteria del partito. Ma anche il pacchetto in arrivo ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, le cento poltrone del parastato, e naturalmente la Rai. Il vero banco di prova per stabilire se il passaggio, l'operazione Matteo premier subito è l'avvio di un cambiamento del sistema o, più semplicemente, un avvicendamento a Palazzo Chigi. «I pericoli ci sono, figuriamoci, ma è un'occasione da non perdere», si fa coraggio Matteo Richetti, il deputato emiliano che più di tutti ha sostenuto la mossa del cavallo nelle ultime settimane. Un fallimento di Renzi, considerato da una larga fetta di opinione pubblica l'unico motore, la sola spinta di energia in una politica paralizzata, l'ultima spiaggia, porterebbe con sé il crack finale del sistema. Anche se il ragazzo di Firenze rapidamente cresciuto fino ad arrivare alla guida del governo conosce bene il pericolo e ha pronta un'exit strategy: altro che governo di legislatura, in caso di logoramento e con una nuova legge elettorale, Renzi è pronto a tornare alla strada maestra, il piano A, la via preferita da sempre: nuove elezioni in ottobre.
(di Marco Damilano)
Scritto il 14 febbraio 2014 alle 21:59 nella Berlusconi, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (11)
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San Valentino 2014
Chi l'ha detto?
Il mio obiettivo non è far cadere il governo, ma fare in modo che lavori (9 dicembre).
Letta mangerà tanti panettoni (18 dicembre).
Il Presidente del Consiglio per il 2014 di chiama e si chiamerà Letta (22 dicembre).
Mi dicono: fai finta di candidarti a sindaco di Firenze e invece vuoi fare le scarpe a Letta. Ma non è così (7 gennaio).
Sì, certo, il governo proseguirà per tutto il 2014 (12 gennaio).
Le critiche non sono per fare le scarpe ma per dare una mano (16 gennaio).
E’ ingeneroso sentirsi dire per mesi che l’obiettivo è fare le scarpe all’esecutivo (20 gennaio).
Chi non mi ha mai creduto oggi deve prendere atto della realtà: nessuno trama contro Enrico Letta (21 gennaio).
C’è Letta, rimanga Letta (21 gennaio).
Grazie, Enrico (Fonte: Alessandro Robecchi)
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Lo sgub del Tafanus: siamo entrati in possesso del testo definitivo del "Giobatta" (il dettagliato programma di Matteo Renzi per il "Nuovo Rinascimento")
Scritto il 14 febbraio 2014 alle 11:46 nella Politica, Renzi, Satira | Permalink | Commenti (29)
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Scritto il 14 febbraio 2014 alle 01:19 | Permalink | Commenti (4)
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...chi ha detto che Renzi non è capace??? Renzi è un buono a nulla, capace di tutto... Adesso, già da domani, l'economia rifiorirà...
La tendenza "smart" del sindaco pié veloce (Fonte: Filippo Ceccarelli)
È la seconda volta in tre giorni che Matteo Renzi si aggira per i palazzi del potere — Quirinale, Palazzo Chigi e Nazareno — a bordo di una Smart. Vecchio modello, di colore blu bordato di grigio, con qualche graffio sul fianco e piccole incrinature sul retro. Al volante c’è spesso, ma non sempre, l’impetuoso segretario del Pd.
Con una velocità non proprio abituale per la Città Proibita, di norma intasatissima, la vetturetta è ieri sbucata in curva dietro la sede del governo, a via dell’Impresa, cogliendo di sorpresa un posto di blocco di giornalisti, fotografi e cameramen. Nel breve video dell’arrivo si sente distintamente uno di loro che esclama, si direbbe con ammirata e quasi stupita rassegnazione: «‘Mmazza, a tremila è arivato!».
Com’è ovvio, ci sono notizie che assai più di questa attraversano i destini collettivi. Ciò nondimeno, oltre che di uomini e duelli e problemi da avviare possibilmente a soluzione, l’odierna politica vive anche di simboli, e al giorno d’oggi un tipo di automobile lo è a sufficienza. Non solo, ma se questa carica simbolica proviene dal mondo delle merci, la faccenda della Smart si carica di senso: è leggera, veloce e un po’ prepotente; è giovane, poi, costosa e non italiana.
Insomma, è molto Renzi. O almeno corrisponde perfettamente al suo guidatore, come dimostra l’home page del Financial Times che ha riproposto l’immagine di questa macchina che l’onorevole Carbone ha acquistato dall’onorevole, pure renziano, Recchia. Per certi versi, non tutti, la Smart è il contrario dell’auto blu, che peraltro nel corso degli anni si è mimetizzata virando sul grigio metallico.
Ma è comunque lontanissima dalla Fiat Ulysse con cui nell’aprile scorso Enrico Letta è arrivato al Quirinale per ricevere l’incarico — e ancor più lontana, se è per questo, dalla modesta Ford Focus dalla quale nel cortile d’onore è sceso Papa Francesco.
La Smart è «fichetta», ma l’espressione è povera, così come il personaggio Renzi è qualcosa di più, ma anche di meno di un semplice «fichetto». Infatti spesso va anche in bici, modello eco-solidale; lo si è poi visto in motorino — come Rutelli a suo tempo fu brevemente a Roma «il sindaco col motorino»; quindi sul camper turbo-connesso delle primarie; e quest’estate, con il caschetto giallo d’ordinanza e gli occhiali da sole, addirittura alla guida di una scavatrice, per certi lavori di demolizione di manufatti abusivi.
Detta altrimenti: è dal cocchio dorato di Agamennone in poi che il teatro mette in scena l’arte del cambiare luogo, ma da una ventina d’anni il potere scimmiotta tali traslochi utilizzando i relativi mezzi di trasporto come risorse spettacolari. I media, come pure qui pare chiaro, seguono con un certo gusto tali espedienti, ma ieri anche i social network si sono sbizzarriti [...]
La quale Smart, forse proprio perché «incarna» l’innovazione, un futuro no-curves e una vaga gioia di vivere, già da tempo gorgogliava nell’immaginario del potere, e se proprio si vuole anche di quello meno simpatico, dalle rischiose scorribande di Marrazzo ai regalini di Berlusconi alle sue amichette (cinque vetture del modello «for two»), fino all’arrapatissimo portavoce del superministro che in un’intercettazione, parlando di una ragazza, la definiva «compatta come la Smart».
E pazienza. Nonostante la recentissima scomunica di Guido Ceronetti, che accusa Renzi di non difendere la lingua italiana rimpinzandola di parole inglesi, il leader del Pd usa con una certa frequenza proprio l’aggettivo che ha dato il nome alla macchina.
Smart sta per «intelligente», con una sfumatura di brillantezza. E Matteo ci dà dentro. Per esempio: «Dimostriamoci leader e non followers, il punto è rendere più smart l’Italia», eccetera.
Vero è che il segretario, più di ogni altro immerso nella dimensione post-ideologica, è assai sensibile ai consumi e ai marchi, vedi le lodi agli spot della Nutella e al marketing della Coca cola, la sviolinata sui piumini Moncler in borsa, la difesa anti-tasse di Google, il plateale rifornimento della segreteria presso Eataly (...il cui proprietario è sponsor e finanziatore di Renzi. Si può parlare di "marchetta" all'amico generoso? NdR).
E tuttavia, per le particolari caratteristiche della Smart, si può azzardare che arrivando al potere guidando quel prezioso autoveicolo egli abbia in qualche misura sdoganato una sorta di tabù che fa della Smart, e non solo a sinistra, la più odiata, ma forse anche la più invidiata automobile. Almeno a Roma.
Di questo complicato e inconfessabile stato d’animo si trova vivida e sintomatica traccia in una canzone del 2007 che il Trio Medusa e poi la «Gnometto band» hanno creato sull’aria del «Vecchio frac» di Modugno. S’intitola «L’uomo in Smart»:
...c’ha gli occhiali de Versace, la pelliccia sul giubotto
c’ha le scarpe de Paciotti, e le tiene sul cruscotto,
guida scalzo a zig-zàg, in velocità:
chissà ‘ndo va, quell’uomo in Smart?
Guida come n’assassino, per le vie del Tiburtino,
pe’ raggiunge su’ cugino, pe pigliasse un cappuccino.
Non se sa dove vien, né dove va
cazzo sta a fa’, co quella Smart?
Scritto il 13 febbraio 2014 alle 21:35 nella Politica, Renzi, Satira | Permalink | Commenti (19)
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Scritto il 13 febbraio 2014 alle 00:20 | Permalink | Commenti (53)
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Ci sono delle cose, in casa mia, che non si portano mai in discarica... I libri. In questi giorni, mentre esplode lo "sgub" sul "gombloddo" Napolitano/Monti, innescato da un libro di Alain Friedman (una volta giornalista economico), voglio ricordare alcune cose.
Intanto vorrei ricordare un articolo di Massimo Giannini di un paio di giorni fa, che documenta come le "grandi rivelazioni" di Friedman erano su tutti i giornali italiani già nell'estate 2011, mesi prima dell'affidamento dell'incarico a Mario Monti.
Vorrei anche ricordare che su questo "sgub" farlocco si sono fiondati, come un sol uomo, personaggi del calibro di Berlusconi, Grillo, Ingroia, ed altri statisti del genere, fiancheggiati dal Corrierone...
Ma non è ciò che pensa (o dice di pensare) oggi "Ollio" Friedman, che mi spinge a scrivere queste note. No. Un fatto istintivo. Appena nato il caso Friedman (di questo si tratta), mi è venuto in mente un altro Friedman, quello del libro in immagine, che è datato ben 1989. All'epoca - pur se con qualche omissione (che sottolineerò) - Friedman, pur avendo il cuore a destra, riusciva in qualche misura a fare il mestiere di giornalista. Lo dico perchè pur essendo a quell'epoca, il nostro, un grande estimatore del craxismo, riusciva a scrivere quanto ho "digitalizzato" dalla mia copia del libro del 1989, e cioè un elogio "senza se e senza ma" di quel Romano Prodi diventato negli anni un bersaglio fisso degli "intenditori".
Ma... (e qui emerge il Friedman "in divenire") l'oscena faccenda IRI/SME, diventata negli anni il cavallo di battaglia degli anti-prodiani di scarse letture, anche il Friedman di allora la liquida in mezza riga, tacendo l'essenziale... Tafanus
Maurizio Crozza featuring Alain Friedman
Alcune pagime del libro di Alain Friedman ("Ce la farà il capitalismo italiano?") del 1989 (Edizioni Longanesi)
[...] Ma esattamente che cosa ha fatto Prodi per cambiare il modo di procedere dell'industria statale? Sul fronte del bilancio ha compiuto un risanamento impressionante. Nel 1983, il primo anno della presidenza Prodi, le perdite industriali superavano i 3000 miliardi. A livello di gruppo, grazie alle banche (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma), l'IRI era poi tornato in utile netto nel 1986, tre anni dopo la data prevista da De Michelis, ma con risultati qualitativi a fianco di quelli quantitativi. Nel 1988 l'IRI ha chiuso il bilancio con un utile di 1300 miliardi, incluso un profitto di 600 miliardi nel settore industriale. Era la prima volta in vent'anni. Quando Prodi è arrivato all'IRi nel 1983, il cash flow copriva il 3 per cento degli investimenti del gruppo. Oggi ne copre il 78 per cento. Ma non è solo una questione di cifre. Prodi è riuscito in sette anni all'IRi a compiere più passi di quanti i suoi predecessori ne abbiano compiuti negli ultimi venti. Non ha fatto miracoli, ma ha determinato una svolta importante [...] E come ha proceduto questo personaggio emiliano nella giungla di Roma? La risposta è che ha tentato (tentare non significa sempre riuscire) di gestire questa portaerei di guai come un'impresa privata.
Arrivando in un gruppo in perdita con una gamma di interessi che andava dagli autogrill all'Alitalia, dalle fabbriche di auto alle aziende per la coltivazione del pomodoro, dall'acciaio alle banche, chiunque si sarebbe chiesto: «Da dove comincio?» Prodi l'accademico ha deciso di prendersi qualche mese per «studiare la situazione prima di agire».
Poi ha agito. Eccome. Ha cominciato non dai singoli settori, ma a livello di gruppo, con una nuova politica per i manager e per la gestione del personale. «Quando sono arrivato in IRI, ho trovato una pesante situazione di demotivazione e di schizofrenia nella gestione delle risorse umane», ricorda oggi. I parametri cambiavano da finanziaria a finanziaria, da azienda ad azienda. Si doveva, insomma, fare la radiografia del management del gruppo. E sulla base di questi riscontri è stata imposta una nuova politica del personale che, partendo dai massimi livelli, scendesse fino alla base della piramide aziendale, una piramide che, all'epoca, contava 7000 dirigenti e 550.000 dipendenti. «Abbiamo dovuto oltretutto ricreare uno spirito di corpo, di attaccamento alla bandiera aziendale e al Gruppo IRI che praticamente era andato disperso negli anni. Sono state date regole uguali per tutti e stabiliti criteri per la selezione delle risorse a ogni livello», dice Prodi. È cominciata anche la caccia ai manager più bravi, portando via qualcuno anche al settore privato. Così sono arrivate al gruppo IRI, in momenti diversi, persone come Giuseppe Tramontana (ex Montefìbre) all'Alfa Romeo e Carlo Verri (ex Zanussi) all'Alitalia, a fianco di altri manager «privati» come Marisa Bellisario (ex Olivetti) alla Italtel e Pasquale Pistorio (ex Motorola) alla SGS.
Prodi si è mosso anche per licenziare tanti manager del gruppo che giudicava incompetenti, alti dirigenti e membri di consiglio del Banco di Roma e del Lloyd Triestino inclusi. Ha dovuto poi, inevitabilmente, resistere alle pressioni dei politici. Il rapporto col mondo politico, dice oggi, è rapporto «contrastato». Ma fin dall'inizio Prodi si è trovato davanti a problemi di ordine politico. Il comitato di presidenza, ci ricorda, è composto da persone che, secondo lo statuto dell'IRI, dovrebbero essere degli esperti in materie finanziarie ed economiche. E invece? «In effetti si tratta di rappresentanti di partito i quali portano, devo dire con molta determinazione e chiarezza, all'interno del comitato tematiche e visioni che poco hanno a che vedere con le esigenze di gestione del Gruppo». E questo fatto, dice Prodi «determina una situazione di conflitto continuo e di interferenza che si manifesta in misura più o meno accentua a seconda della disponibilità del Presidente pro tempore a farsi strumentalizzare dall'esterno».
Questa disponibilità, continua Prodi, «non l'ho mai dimostrata ed è per questo che le occasioni di contrasto sono state frequenti». Ma Prodi, che aveva da sempre l'appoggio di Ciriaco De Mita, non sarebbe stato in grado di resistere in eterno, specie negli ultimi tempi, mentre il potere di De Mita diminuiva notevolmente all'interno della DC. All'inizio, nel 1983, ha proibito ai suoi alti dirigenti di avere contatti con i politici: tutto sarebbe dovuto passare attraverso di lui. Ma questa proibizione era un po' naive, per non dire impossibile da attuare. E non sono stati soltanto alti dirigenti come Giuliano Graziosi e Fabiano Fabiani che nel corso della loro gestione della STET o della Finmeccanica hanno avuto a che fare con i politici (non per fare complotti ma perché così funziona il sistema in Italia). Prodi, in fin dei conti, è un primus inter pares e non è mai riuscito a sorvegliare tutto l'impero IRI. Un suo merito, però, è stato di respingere numerose richieste da parte dei politici di acquisire aziende fallite. Dopo ventisette mesi al vertice del gruppo di via Veneto, Prodi dichiarava a un giornalista straniero: «Io spiego ai politici che l'ora dei salvataggi è finita. Non abbiamo le risorse e neppure il desiderio di assumere nuovi impegni».
A parte la riorganizzazione a livello generale, Prodi sarà ricordato nella storia del capitalismo di Stato come il grande uomo delle privatizzazioni e dei tentativi di internazionalizzazione delle aziende IRI. Anche qui la strada non è mai stata in discesa per il paffuto professore di Bologna. Sempre vincoli. Sempre bombe a tempo. Spesso delle molotov politiche gettate verso di lui. La necessità di internazionalizzare è stata recepita da Prodi ben prima che diventasse di moda parlarne mel 1992. Ma quando è entrato all'IRI, l'immagine del gruppo statale all'estero risultava così povera che non era neppure facile combinare degli appuntamenti. «Ricordo con una sensazione di fastidio fisico che, se chiedevo di essere ricevuto da qualche responsabile di grandi aziende all'estero, spesso l'OK veniva dopo defatiganti tentativi e sollecitazioni, "IRI, what?" era un po' il nostro cruccio. Oggi abbiamo la soddisfazione di essere ricercati, corteggiati non solo come compratori ma anche come partner», dice Prodi
La mossa più importante circa l'internazionalizzazione è venuta verso la fine dell'epoca prodiana, nel 1989, con l'accordo-alleanza tra STET, Italtel e American Telephone & Telegraph (AT&T), il gigante delle telecomunicazioni. Prima di arrivare a questo ci sono stati però anni di trattative difficili, e poi fallite, per un accordo fra Italtel e Telettra del gruppo FIAT, la creazione della TELIT. Oggi Prodi ricorda che fra le cose che meno lo hanno soddisfatto in questi anni c'è il caso TELIT, caduto quando la FIAT obiettò sulla scelta di Marisa Bellisario come amministratore delegato e mosse accuse di ingerenza politica nell'intera vicenda. Prodi è oggi amareggiato dal fatto che, per usare le sue parole, «non siamo riusciti a fare capire che la scelta della dottoressa Bellisario era legata alle sue capacità professionali, documentate da anni di ottima gestione di aziende, e non da ragioni di personali simpatie politiche». E ancora: «Quella che è stata interpretata da alcuni giornalisti e osservatori come una mia presa di posizione preconcetta a difesa di una candidatura manageriale che in effetti aveva poche possibilità di successo, in realtà aveva per me un significato preciso: la difesa del ruolo e dell'immagine di settemila manager IRI che vogliono essere giudicati sulla base dei loro risultati e non per come votano alle elezioni».
Prendiamo qualche esempio di privatizzazione e vedremo subito quanto tortuosi possono essere i rapporti fra IRI e mondo politico e fra IRI e industria privata. Poco dopo il suo arrivo all'IRI, Prodi ha incontrato ostacoli politici e sindacali quando voleva vendere la tenuta di Maccarese vicino a Roma, molto inefficiente e in perdita. Quindi ha incontrato difficoltà politiche quando intendeva privatizzare un piccolo produttore di elettrodomestici, la San Giorgio, vendendola alla Ocean. Nella primavera del 1985, a Milano, davanti a una platea di industriali e banchieri importanti, Prodi con un discorso chiave lodò la privatizzazione della British Telecom in Inghilterra e fece appello per una politica di privatizzazione in Italia.
Il discorso cadeva nel bel mezzo di una delle maggiori polemiche degli anni di Prodi, quella riguardante la vendita della SME, gruppo alimentare dell'IRI, a Carlo De Benedetti. Tale vendita non piaceva a Bettino Craxi, allora presidente del consiglio, e diversi politici scesero in campo per rivendicare la strategicità del gruppo SME. Strategici i biscotti? Prodi era furioso. Diceva che, se la vendita della SME non fosse stata approvata, le conseguenze sarebbero state «profonde». Alla fine, e dopo lunghe azioni legali, la vendita non andò avanti. Fu bloccata.
(...Alain Friedman evita accuratamente di dire che la vendita fu bloccata da un consorzio a dir poco "atipico", il cui fulcro era costituito da Berlusconi - all'epoca legato mani e piedi a Bettino Craxi - e di cui facevano parte anche Barilla e Ferrero. La vendita fu bloccata non per ragioni economiche, ma politiche e "di pelle": sia Bettino che Silvio odiavano, per ragioni diverse, De Benedetti. La ridicola motivazione della guerra a De Benedetti era stata quella che cedere per 500 miliardi quell'azienda-colabrodo fosse una specie di regalo. Il consorzio mosso da Silvio e da Bettino quanto offriva, a fronte di questo "regalo"? Il doppio, il triplo, il quadruplo di 500 miliardi? Sbagliato. Offriva ben 525 miliardi. Dunque 500 miliardi erano un regalo criminoso, 525 miliardi erano un prezzo giusto e remunerativo. Inutile dire che una volta centrato l'obiettivo di impedire la vendita a De Benedetti, il consorzio Bettino-Silvio-Barilla-Ferrero svanì nel nulla. NdR)
E oggi? Oggi Prodi guarda indietro e dice di incontrare spesso persone che dicono che aveva ragione lui. "Magra consolazione", commenta il professore emiliano, notando che «sulla SME è stato pagato un prezzo di mancanza di esperienza, di mancanza di regole certe e forse di un anticipo rispetto ai tempi che non erano ancora maturi. Le regole ancora non ci sono, ma quel precedente ha, se non altro, costretto la classe politica ad assumere atteggiamenti meno ondulatori e più precisi sui casi che successivamente si sono presentati. Senza il caso SME non si sarebbero fatte le privatizzazioni successive ».
Negli anni di Prodi l'IRI ha poi privatizzato una trentina di aziende, tra le quali l'Alfa Romeo. Nonostante tutte le polemiche; nonostante tutti i dubbi che si possono avere sull'intensità della campagna di lobby contro la Ford o sul pagamento da parte della FIAT, che comincerà solo nel 1993, e in cinque tranches; nonostante l'ordine della CEE nei confronti di Finmeccanica, che deve restituire 615 miliardi di aiuti illeciti all'Alfa, non si può negare che la privatizzazione della gloriosa azienda automobilistica sia un'operazione storica per l'industria di Stato.
Oltre alle privatizzazioni l'epoca prodiana ha anche visto il collocamento in Borsa di titoli di minoranza di molte aziende, incluse l'Alitalia, la STET, la SIP, la SIRTI, e banche, per un totale di 6500 miliardi. Per Prodi la privatizzazione non era necessariamente un obiettivo in sé, bensì uno strumento di razionalizzazione e di risanamento finanziario.
Ma i fronti di battaglia erano per il professore di Bologna tali e tanti che non gli è stato possibile fare tutto. C'era, e c'è ancora, per esempio, il fronte della siderurgia che, dopo la liquidazione della Finsider, si sta finalmente e lentamente razionalizzando, non senza polemiche con i politici, i sindacati e la CEE, ma almeno secondo una logica che non esisteva al principio degli anni '80. Nel settembre 1987, in mezzo a una serie di conflitti sui fronti della siderurgia, della TELIT e di Mediobanca, Prodi salutava un gruppo di giornalisti stranieri con un sorriso stanco e li esortava: «Restate, restate! Ho bisogno di un po' di riposo nelle retrovie!» Col passare degli anni, nel palazzo di via Veneto il gioviale professore si trovava sempre più impegnato in una guerra continua e su più fronti, ma non ha mai perso il buon umore o una certa ironia. «Per me», spiegava nel 1987, «questa esperienza è come una battaglia temporanea che dura sette anni, dopo di che mi ritiro nella vita accademica». Ma la domanda chiave riguarda il futuro. È stato l'inizio di un'epoca nuova all'IRi, quella prodiana, o solo un periodo controcorrente per questo gigante del capitalismo di Stato, una parentesi? [...]
Credits: dal Libro "Ce la farà il capitalismo italiano?" - Di Alain Friedman - 1989 - Ed. Longanesi)
Scritto il 13 febbraio 2014 alle 00:03 nella Berlusconi, Economia, Politica | Permalink | Commenti (2)
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Si tratta, perciò, di deplorare, certo, più o meno fermamente, le pagliacciate anti-euro della Lega contro Napolitano a Strasburgo, ma badando bene a non annotare «e questi sarebbero quelli che, sommati a Casini, garantirebbero il trionfo elettorale di Berlusconi», giacché tale annotazione, con la prospettiva di Borghezio agli Esteri o di Buonanno alla Giustizia, attenuerebbe la Luce abbagliante dell’attuale vittoria sondaggistica a reti unificate.
Si tratta, pertanto, di non soffermarsi sul dettaglio che all’odierno trionfo virtuale al primo turno concorre la Destra di Storace, così da preparare il palato del teleutente distratto a future, decisive ma occultate intese elettorali con, chissà, Forza Nuova, Nazisti Padani e Neo-Borbonici delle Due Sicilie. (Fonte: Enzo Costa - l'Unità)
(Credits: segnalazione Nonna Mana)
Scritto il 12 febbraio 2014 alle 11:20 nella Berlusconi, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (12)
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Scritto il 12 febbraio 2014 alle 00:32 | Permalink | Commenti (4)
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L’assenza dell’algoritmo che non fa funzionare l’Italicum (Fonte: Gad Lerner)
Quest'ometto è tutto da ridere... per raddrizzare le gambe al cane nato storto, hanno dovuto presentare, fuori tempo massimo, un "piccolo emendamento" correttivo (12 pagine) ad una legge... di 15 pagine. Lunga vita all'ometto del Fare. Tafanus
Se l’Italicum fosse già entrato in vigore nella forma uscita dalla commissione Affari Costituzionali, il nuovo Parlamento sarebbe stato caratterizzato dall’assenza dei deputati. Forse il trionfo finale dell’anti politica.
In realtà, come spiega Claudia Fusani su “L’Unità” di martedì 11 febbraio, la colpa sarebbe di un clamoroso errore. Alla nuova legge elettorale infatti manca l’algoritmo che permette l’assegnazione dei seggi. Senza questa formula matematica non è possibile che i deputati siano eletti, visto che è impossibile la loro determinazione. L’errore è stato scoperto ieri dal Comitato dei 9, il gruppo dei parlamentari che presenta l’esame di una legge all’aula dopo la sua discussione in Commissione. L’errore era stato scoperto dall’Ufficio Studi della Camera dei Deputati, ed ha imposto una corsa all’ultimo secondo per elaborare l’emendamento che introdurrà l’algoritmo per assegnare i seggi. Il relatore dell’Italicum, il forzista Francesco Sisto, ha depositato ieri sera l’emendamento, ma ciò non è piaciuto molto agli altri membri della Commissione Affari Costituzionali, che hanno chiesto nuovo tempo per esaminare gli emendamenti.
L’emendamento Sisto è lungo 12 pagine, mentre l’intero Italicum ne occupa 15. Praticamente il testo riscrive la legge elettorale. Il problema dell’algoritmo mancante è rappresentato anche dal fatto che non sono state realizzare le simulazioni per capire come sarebbero distribuiti i seggi. Nelle settimane scorse questa assenza era stata fatta notare da vari parlamentari così come dai funzionari della Camera, ma le forze che più spingono l’Italicum, PD e Forza Italia, si sono dimenticati dell’argomento. L’emendamento Sisto risolve però il problema per i partiti di Renzi e Berlusconi, che nel caso di eventuali correzioni, si dichiarano aperti anche ad una terza lettura. Camera e Senato devono infatti approvare lo stesso testo, e se a Palazzo Madama l’algoritmo dovesse essere modificato, l’Italicum dovrebbe tornare a Montecitorio per l’approvazione definitiva. Un’ipotesi che garantirebbe qualche settimana di più ad una legislatura che nessuno vuole far finire, nonostante le dichiarazioni contrarie.
Scritto il 11 febbraio 2014 alle 13:02 | Permalink | Commenti (11)
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Scritto il 11 febbraio 2014 alle 08:00 | Permalink | Commenti (24)
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La riforma del sistema di voto verrà discussa alla Camera martedì 11 febbraio. Alla seconda scadenza per la presentazione delle modifiche, sono comparse cinquanta nuove proposte. La Russa: "La legge torni in commissione. Non sta in piedi" (Fonte: Il Fatto Quotidiano)
Quattrocentocinquanta emendamenti e altrettante polemiche. La legge elettorale nata dall’accordo tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi è pronta all’approdo in Aula per il voto e già si porta dietro dibattiti e problemi. Alle 13 è scaduto il secondo termine per la presentazione delle modifiche e all’appello ci sono 50 punti in più rispetto alla prima scadenza. Tra i nodi critici naturalmente il tema preferenze. Il Movimento 5 Stelle ha annunciato che chiederà l’abolizione delle liste bloccate: “Presenteremo emendamenti, ha affermato Luigi Di Maio a Radio 1, “di buonsenso per far tornare le preferenze, perché quella proposta è molto simile al Porcellum, con liste bloccate. E, soprattutto, cercheremo di portare costituzionalità in una legge fondamentalmente incostituzionale”.
Su tre emendamenti la minoranza Pd non demorde: il primo è che la riforma entra in vigore solo dopo il superamento del Senato (emendamento Lauricella), il secondo chiede primarie obbligatorie pur prevedendo deroghe, il terzo vuole la parità di genere. E’ questo l’esito della riunione dell’area Cuperlo. A quanto si apprende, gli emendamenti Pd presentati in Aula sono gli stessi depositati prima in commissione Affari costituzionali e poi in Aula durante il primo termine. Durante la seconda scadenza – riferisce una fonte democratica – “il gruppo ha presentato solo alcune correzioni e l’emendamento a firma Cuperlo sulle primarie”. Altro punto è quello della soglia di sbarramento per le coalizioni che si abbassa dal 12 al 10%. La norma, a prima firma Marilena Fabbri, se approvata dall’assemblea cambierebbe l’articolato in questo modo: le coalizioni di liste la cui cifra elettorale nazionale sia pari ad almeno il 10 per cento (non più il 12, ndr) dei voti validi espressi”. Un emendamento identico è stato depositato anche da Popolari per l’Italia, a prima firma Gregorio Gitti.
Proseguono invece le iniziative e il”pressing” della Conferenza che riunisce gli organismi di Pari Opportunità delle Regioni italiane, al fine di ottenere misure di riequilibrio di genere. La delegazione guidata dalla presidente della Commissione Parità dell’Emilia-Romagna nonché coordinatrice nazionale Roberta Mori, insieme alla presidente della Consulta femminile della Regione Lazio Donatina Persichetti e a Teresa Petrangolini in rappresentanza della Conferenza assemblee regionali, è stata ricevuta dal presidente del Gruppo Pd Roberto Speranza. “Speranza ha dichiarato il convinto impegno dei Deputati Pd a modificare il testo base in senso paritario – ha riferito dopo l’incontro Mori – dal momento che il tema della rappresentanza femminile nelle istituzioni sta molto a cuore al Partito Democratico. “L’obiettivo che abbiamo condiviso è di ottenere l’approvazione degli emendamenti che inseriscono l’alternanza di genere “uno a uno” e il 50% di capilista donne”. La Conferenza delle Presidenti, “pur nella consapevolezza che la riforma debba essere approvata, ritiene indispensabile che il tema della parità di accesso alle cariche elettive costituisca un punto fermo di una reale democrazia paritaria. Su questo auspica la convergenza di tutte le donne presenti in Parlamento e di tutte le forze Politiche”.
Ma la battaglia è appena cominciata.
Ignazio La Russa, presidente di Fratelli d’Italia chiede il ritorno in commissione del testo: “Ora i nodi vengono al pettine. Avevamo insistentemente chiesto che la legge elettorale tornasse in commissione dove mai è stata esaminata ma la nostra richiesta è stata respinta. Ora a sostenere che la proposta di legge non stia in piedi neanche tecnicamente è un gruppo di maggioranza che inoltre sottolinea l’esistenza di problemi politici irrisolti. Il ritorno in commissione è oggi ancora più necessario.
...insomma, tanto per dirla con Fantozzi, questa legge è una cagata pazzesca, che non affronta né di dritto né di rovescio il problema Senato (non sapendo come risolverlo?), e che - oltre ai dissensi politici e/o di bottega illustrati nell'articolo - presenta dei "bugs" tecnici notevoli che hanno costretto gli estensori ad aggiungere all'articolato, alla chetichella, altre dodici pagine, che sono un maldestro tentativo di raddrizzare le gambe ai cani, prima ancora che sui cani ci sia una seria diagnosi. Ad maiora, Renzie. Il tuo padrone di Arcore te ne sarà grato in eterno... Tafanus
Scritto il 10 febbraio 2014 alle 19:40 nella Berlusconi, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (1)
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Scritto il 10 febbraio 2014 alle 00:32 | Permalink | Commenti (2)
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Scadenza il 28 febbraio per quattro provvedimenti chiave - Al Senato la maggioranza è appesa a tre voti, dopo la fuga di Casini e la diaspora dei centristi (di Claudia Fusani - l'Unità)
Se fosse un gioco, e non lo è, lo potremmo chiamare Trappole & Trabocchetti (al governo).Nel tabellone di gioco sono raffigurati i giorni di quel che resta del mese di febbraio, l’emiciclo del Senato e quello della Camera. L’obiettivo è traghettare a marzo legislatura e governo in ogni sua declinazione possibile - rimpasto, Letta bis, Renzi uno - cercando di fargli evitare tutte le caselle cerchiate di rossocon la scritta «Crisi/pericolo» disseminate qua e là lungo il calendario dei giorni.
Fuor di metafora, la situazione politica nei prossimi giorni è un intreccio diabolico tra decreti legge in scadenza (quattro entro fine febbraio), riposizionamento delle singole forze politiche in funzione di quella che sarà la nuova legge elettorale e, di conseguenza, una
frammentazione di voti che rende il voto, soprattutto di palazzo Madama, consistente come quello di una lotteria. Cioè appeso più al caso che a variabili prevedibili. Una palude piena di insidie.
Le scadenze dei decreti al Senato - tra il 21 e il 28 febbraio - su cui il governo Letta misurerà la sua stabilità, incrociano infatti il voto in prima lettura alla Camera della nuova legge elettorale. Martedì pomeriggio cominciano alla Camera le votazioni sull’Italicum. Che è arrivato in aula con la tagliola in Commissione (ostaggio dei Cinque stelle) che ha impedito anche l’adozione dei cinque punti già concordati tra Pd, Ncd e Fi: lo sbarramento per il premio di maggioranza salito dal 35 al 37 per cento; l’abbassamento della soglia per i partiti in coalizione (dal 5 al 4,5%); multicandidature; norma salva Lega (entrano in Parlamento i partiti che raggiungono il 9% in almeno tre regioni); delega al governo di 45 giorni.
Sull’Italicum pesano però circa 300 emendamenti. Qualcuno particolarmente insidioso, come la norma salva-Sel (entra in Parlamento anche il miglior perdente di ogni coalizione), decisiva soprattutto per il centrosinistra (Renzi teme giustamente una scissione a sinistra). E l’emendamento sul conflitto di interessi presentato da M5S e Sel. Che farà il Pd, sapendo che Forza Italia non lo può certo votare?
Il risiko del Senato
Così, mentre la prossima settimana l’Italicum avvierà il suo periglioso viaggio a Montecitorio, sarà possibile intravedere il posizionamento dei piccoli partiti dell’ex centro che hanno iniziato da giorni una inevitabile polverizzazione, con relativo posizionamento a destra o a sinistra.
Ed è chiaro che sil tavolo della trattativa per ottenere qualcosa di più o di meno sulla legge elettorale saranno proprio i decreti in scadenza soprattutto al Senato. Dove la maggioranza è appesa, attualmente, al netto della doppia scissione dei centristi (Scelta Civica e Popolari,
e ora anche Casini e Popolari) a soli tre voti. La torta dei voti di palazzo Madama può contare su 161 voti certi (la maggioranza è 158, compresi i senatori a vita), cioè la somma di Pd (108), Ncd (31), Psi/Maie/Autonomie (12), Scelta civica (12), due senatori a vita (Renzo Piano e Carlo Azeglio Ciampi; gli altri due, Cattaneo e Rubbia sono nelgruppo Autonomie). Sono passati alle opposizioni infatti Casini e De Poli (Udc) mentre i 10 Popolari di Mario Mauro (che ieri hanno presentato il simbolo) sono ancora tra quelli che son sospesi. In questo momento posizione
altamente strategica e redditizia. Incerti anche i 4 senatori cacciati da Grillo e soci.
Centosessantuno voti è stato il numero incubo del governo Prodi. E lo sarà anche nei prossimi giorni quando andranno in aula i primi quattro decreti (di un gruppo di otto) in scadenza entro febbraio, e la cui bocciatura equivarrebbe a un voto di sfiducia. Entro venerdì 21 devono
essere convertiti «Destinazione Italia» e «Svuotacarceri». Il primo contiene le norme per il rilancio economico del paese e per attrarre capitali stranieri. È ancora in aula alla Camera che da martedì, come abbiamo visto, avrà a che fare con la legge elettorale (con i tempi contingentati, cioè massimo 22 ore). Lo «Svuota-carceri» ha già mostrato la sua vulnerabilità nell’approvazione alla Camera (dove però la maggioranza ha numeri sicuri) e al Senato potrebbe aggregare alleanze trasversali e alternative. Che già potrebbero mostrarsi, sempre a
Palazzo Madama, sul decreto che taglia il finanziamento pubblico ai partiti in maniera graduale entro il 2017 ed è in
scadenza il 26 febbraio. Su questo testo nella maggioranza ha alzato la testa Ncd («tagliamo subito tutto adesso») che ha mandato così i suoi segnali a Letta e al Pd. Gli otto senatori di Scelta civica presenteranno il conto al governo e al Pd sull’ex salva-Roma (da convertire entro
il 28 febbraio).
Un tabellone di gioco molto impegnativo. Sempre che la salita al Colle del premier Letta, annunciata per i prossimi giorni (nuova squadra e Impegno 2014) e la direzione del Pd del 20 non facciano saltare tutto prima. In un senso o nell’altro.
(Claudia Fusani - l'Unità)
Scritto il 09 febbraio 2014 alle 23:48 nella Politica, Renzi | Permalink | Commenti (1)
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