Ci sono delle cose, in casa mia, che non si portano mai in discarica... I libri. In questi giorni, mentre esplode lo "sgub" sul "gombloddo" Napolitano/Monti, innescato da un libro di Alain Friedman (una volta giornalista economico), voglio ricordare alcune cose.
Intanto vorrei ricordare un articolo di Massimo Giannini di un paio di giorni fa, che documenta come le "grandi rivelazioni" di Friedman erano su tutti i giornali italiani già nell'estate 2011, mesi prima dell'affidamento dell'incarico a Mario Monti.
Vorrei anche ricordare che su questo "sgub" farlocco si sono fiondati, come un sol uomo, personaggi del calibro di Berlusconi, Grillo, Ingroia, ed altri statisti del genere, fiancheggiati dal Corrierone...
Ma non è ciò che pensa (o dice di pensare) oggi "Ollio" Friedman, che mi spinge a scrivere queste note. No. Un fatto istintivo. Appena nato il caso Friedman (di questo si tratta), mi è venuto in mente un altro Friedman, quello del libro in immagine, che è datato ben 1989. All'epoca - pur se con qualche omissione (che sottolineerò) - Friedman, pur avendo il cuore a destra, riusciva in qualche misura a fare il mestiere di giornalista. Lo dico perchè pur essendo a quell'epoca, il nostro, un grande estimatore del craxismo, riusciva a scrivere quanto ho "digitalizzato" dalla mia copia del libro del 1989, e cioè un elogio "senza se e senza ma" di quel Romano Prodi diventato negli anni un bersaglio fisso degli "intenditori".
Ma... (e qui emerge il Friedman "in divenire") l'oscena faccenda IRI/SME, diventata negli anni il cavallo di battaglia degli anti-prodiani di scarse letture, anche il Friedman di allora la liquida in mezza riga, tacendo l'essenziale... Tafanus
Maurizio Crozza featuring Alain Friedman
Alcune pagime del libro di Alain Friedman ("Ce la farà il capitalismo italiano?") del 1989 (Edizioni Longanesi)
[...] Ma esattamente che cosa ha fatto Prodi per cambiare il modo di procedere dell'industria statale? Sul fronte del bilancio ha compiuto un risanamento impressionante. Nel 1983, il primo anno della presidenza Prodi, le perdite industriali superavano i 3000 miliardi. A livello di gruppo, grazie alle banche (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma), l'IRI era poi tornato in utile netto nel 1986, tre anni dopo la data prevista da De Michelis, ma con risultati qualitativi a fianco di quelli quantitativi. Nel 1988 l'IRI ha chiuso il bilancio con un utile di 1300 miliardi, incluso un profitto di 600 miliardi nel settore industriale. Era la prima volta in vent'anni. Quando Prodi è arrivato all'IRi nel 1983, il cash flow copriva il 3 per cento degli investimenti del gruppo. Oggi ne copre il 78 per cento. Ma non è solo una questione di cifre. Prodi è riuscito in sette anni all'IRi a compiere più passi di quanti i suoi predecessori ne abbiano compiuti negli ultimi venti. Non ha fatto miracoli, ma ha determinato una svolta importante [...] E come ha proceduto questo personaggio emiliano nella giungla di Roma? La risposta è che ha tentato (tentare non significa sempre riuscire) di gestire questa portaerei di guai come un'impresa privata.
Arrivando in un gruppo in perdita con una gamma di interessi che andava dagli autogrill all'Alitalia, dalle fabbriche di auto alle aziende per la coltivazione del pomodoro, dall'acciaio alle banche, chiunque si sarebbe chiesto: «Da dove comincio?» Prodi l'accademico ha deciso di prendersi qualche mese per «studiare la situazione prima di agire».
Poi ha agito. Eccome. Ha cominciato non dai singoli settori, ma a livello di gruppo, con una nuova politica per i manager e per la gestione del personale. «Quando sono arrivato in IRI, ho trovato una pesante situazione di demotivazione e di schizofrenia nella gestione delle risorse umane», ricorda oggi. I parametri cambiavano da finanziaria a finanziaria, da azienda ad azienda. Si doveva, insomma, fare la radiografia del management del gruppo. E sulla base di questi riscontri è stata imposta una nuova politica del personale che, partendo dai massimi livelli, scendesse fino alla base della piramide aziendale, una piramide che, all'epoca, contava 7000 dirigenti e 550.000 dipendenti. «Abbiamo dovuto oltretutto ricreare uno spirito di corpo, di attaccamento alla bandiera aziendale e al Gruppo IRI che praticamente era andato disperso negli anni. Sono state date regole uguali per tutti e stabiliti criteri per la selezione delle risorse a ogni livello», dice Prodi. È cominciata anche la caccia ai manager più bravi, portando via qualcuno anche al settore privato. Così sono arrivate al gruppo IRI, in momenti diversi, persone come Giuseppe Tramontana (ex Montefìbre) all'Alfa Romeo e Carlo Verri (ex Zanussi) all'Alitalia, a fianco di altri manager «privati» come Marisa Bellisario (ex Olivetti) alla Italtel e Pasquale Pistorio (ex Motorola) alla SGS.
Prodi si è mosso anche per licenziare tanti manager del gruppo che giudicava incompetenti, alti dirigenti e membri di consiglio del Banco di Roma e del Lloyd Triestino inclusi. Ha dovuto poi, inevitabilmente, resistere alle pressioni dei politici. Il rapporto col mondo politico, dice oggi, è rapporto «contrastato». Ma fin dall'inizio Prodi si è trovato davanti a problemi di ordine politico. Il comitato di presidenza, ci ricorda, è composto da persone che, secondo lo statuto dell'IRI, dovrebbero essere degli esperti in materie finanziarie ed economiche. E invece? «In effetti si tratta di rappresentanti di partito i quali portano, devo dire con molta determinazione e chiarezza, all'interno del comitato tematiche e visioni che poco hanno a che vedere con le esigenze di gestione del Gruppo». E questo fatto, dice Prodi «determina una situazione di conflitto continuo e di interferenza che si manifesta in misura più o meno accentua a seconda della disponibilità del Presidente pro tempore a farsi strumentalizzare dall'esterno».
Questa disponibilità, continua Prodi, «non l'ho mai dimostrata ed è per questo che le occasioni di contrasto sono state frequenti». Ma Prodi, che aveva da sempre l'appoggio di Ciriaco De Mita, non sarebbe stato in grado di resistere in eterno, specie negli ultimi tempi, mentre il potere di De Mita diminuiva notevolmente all'interno della DC. All'inizio, nel 1983, ha proibito ai suoi alti dirigenti di avere contatti con i politici: tutto sarebbe dovuto passare attraverso di lui. Ma questa proibizione era un po' naive, per non dire impossibile da attuare. E non sono stati soltanto alti dirigenti come Giuliano Graziosi e Fabiano Fabiani che nel corso della loro gestione della STET o della Finmeccanica hanno avuto a che fare con i politici (non per fare complotti ma perché così funziona il sistema in Italia). Prodi, in fin dei conti, è un primus inter pares e non è mai riuscito a sorvegliare tutto l'impero IRI. Un suo merito, però, è stato di respingere numerose richieste da parte dei politici di acquisire aziende fallite. Dopo ventisette mesi al vertice del gruppo di via Veneto, Prodi dichiarava a un giornalista straniero: «Io spiego ai politici che l'ora dei salvataggi è finita. Non abbiamo le risorse e neppure il desiderio di assumere nuovi impegni».
A parte la riorganizzazione a livello generale, Prodi sarà ricordato nella storia del capitalismo di Stato come il grande uomo delle privatizzazioni e dei tentativi di internazionalizzazione delle aziende IRI. Anche qui la strada non è mai stata in discesa per il paffuto professore di Bologna. Sempre vincoli. Sempre bombe a tempo. Spesso delle molotov politiche gettate verso di lui. La necessità di internazionalizzare è stata recepita da Prodi ben prima che diventasse di moda parlarne mel 1992. Ma quando è entrato all'IRI, l'immagine del gruppo statale all'estero risultava così povera che non era neppure facile combinare degli appuntamenti. «Ricordo con una sensazione di fastidio fisico che, se chiedevo di essere ricevuto da qualche responsabile di grandi aziende all'estero, spesso l'OK veniva dopo defatiganti tentativi e sollecitazioni, "IRI, what?" era un po' il nostro cruccio. Oggi abbiamo la soddisfazione di essere ricercati, corteggiati non solo come compratori ma anche come partner», dice Prodi
La mossa più importante circa l'internazionalizzazione è venuta verso la fine dell'epoca prodiana, nel 1989, con l'accordo-alleanza tra STET, Italtel e American Telephone & Telegraph (AT&T), il gigante delle telecomunicazioni. Prima di arrivare a questo ci sono stati però anni di trattative difficili, e poi fallite, per un accordo fra Italtel e Telettra del gruppo FIAT, la creazione della TELIT. Oggi Prodi ricorda che fra le cose che meno lo hanno soddisfatto in questi anni c'è il caso TELIT, caduto quando la FIAT obiettò sulla scelta di Marisa Bellisario come amministratore delegato e mosse accuse di ingerenza politica nell'intera vicenda. Prodi è oggi amareggiato dal fatto che, per usare le sue parole, «non siamo riusciti a fare capire che la scelta della dottoressa Bellisario era legata alle sue capacità professionali, documentate da anni di ottima gestione di aziende, e non da ragioni di personali simpatie politiche». E ancora: «Quella che è stata interpretata da alcuni giornalisti e osservatori come una mia presa di posizione preconcetta a difesa di una candidatura manageriale che in effetti aveva poche possibilità di successo, in realtà aveva per me un significato preciso: la difesa del ruolo e dell'immagine di settemila manager IRI che vogliono essere giudicati sulla base dei loro risultati e non per come votano alle elezioni».
Prendiamo qualche esempio di privatizzazione e vedremo subito quanto tortuosi possono essere i rapporti fra IRI e mondo politico e fra IRI e industria privata. Poco dopo il suo arrivo all'IRI, Prodi ha incontrato ostacoli politici e sindacali quando voleva vendere la tenuta di Maccarese vicino a Roma, molto inefficiente e in perdita. Quindi ha incontrato difficoltà politiche quando intendeva privatizzare un piccolo produttore di elettrodomestici, la San Giorgio, vendendola alla Ocean. Nella primavera del 1985, a Milano, davanti a una platea di industriali e banchieri importanti, Prodi con un discorso chiave lodò la privatizzazione della British Telecom in Inghilterra e fece appello per una politica di privatizzazione in Italia.
Il discorso cadeva nel bel mezzo di una delle maggiori polemiche degli anni di Prodi, quella riguardante la vendita della SME, gruppo alimentare dell'IRI, a Carlo De Benedetti. Tale vendita non piaceva a Bettino Craxi, allora presidente del consiglio, e diversi politici scesero in campo per rivendicare la strategicità del gruppo SME. Strategici i biscotti? Prodi era furioso. Diceva che, se la vendita della SME non fosse stata approvata, le conseguenze sarebbero state «profonde». Alla fine, e dopo lunghe azioni legali, la vendita non andò avanti. Fu bloccata.
(...Alain Friedman evita accuratamente di dire che la vendita fu bloccata da un consorzio a dir poco "atipico", il cui fulcro era costituito da Berlusconi - all'epoca legato mani e piedi a Bettino Craxi - e di cui facevano parte anche Barilla e Ferrero. La vendita fu bloccata non per ragioni economiche, ma politiche e "di pelle": sia Bettino che Silvio odiavano, per ragioni diverse, De Benedetti. La ridicola motivazione della guerra a De Benedetti era stata quella che cedere per 500 miliardi quell'azienda-colabrodo fosse una specie di regalo. Il consorzio mosso da Silvio e da Bettino quanto offriva, a fronte di questo "regalo"? Il doppio, il triplo, il quadruplo di 500 miliardi? Sbagliato. Offriva ben 525 miliardi. Dunque 500 miliardi erano un regalo criminoso, 525 miliardi erano un prezzo giusto e remunerativo. Inutile dire che una volta centrato l'obiettivo di impedire la vendita a De Benedetti, il consorzio Bettino-Silvio-Barilla-Ferrero svanì nel nulla. NdR)
E oggi? Oggi Prodi guarda indietro e dice di incontrare spesso persone che dicono che aveva ragione lui. "Magra consolazione", commenta il professore emiliano, notando che «sulla SME è stato pagato un prezzo di mancanza di esperienza, di mancanza di regole certe e forse di un anticipo rispetto ai tempi che non erano ancora maturi. Le regole ancora non ci sono, ma quel precedente ha, se non altro, costretto la classe politica ad assumere atteggiamenti meno ondulatori e più precisi sui casi che successivamente si sono presentati. Senza il caso SME non si sarebbero fatte le privatizzazioni successive ».
Negli anni di Prodi l'IRI ha poi privatizzato una trentina di aziende, tra le quali l'Alfa Romeo. Nonostante tutte le polemiche; nonostante tutti i dubbi che si possono avere sull'intensità della campagna di lobby contro la Ford o sul pagamento da parte della FIAT, che comincerà solo nel 1993, e in cinque tranches; nonostante l'ordine della CEE nei confronti di Finmeccanica, che deve restituire 615 miliardi di aiuti illeciti all'Alfa, non si può negare che la privatizzazione della gloriosa azienda automobilistica sia un'operazione storica per l'industria di Stato.
Oltre alle privatizzazioni l'epoca prodiana ha anche visto il collocamento in Borsa di titoli di minoranza di molte aziende, incluse l'Alitalia, la STET, la SIP, la SIRTI, e banche, per un totale di 6500 miliardi. Per Prodi la privatizzazione non era necessariamente un obiettivo in sé, bensì uno strumento di razionalizzazione e di risanamento finanziario.
Ma i fronti di battaglia erano per il professore di Bologna tali e tanti che non gli è stato possibile fare tutto. C'era, e c'è ancora, per esempio, il fronte della siderurgia che, dopo la liquidazione della Finsider, si sta finalmente e lentamente razionalizzando, non senza polemiche con i politici, i sindacati e la CEE, ma almeno secondo una logica che non esisteva al principio degli anni '80. Nel settembre 1987, in mezzo a una serie di conflitti sui fronti della siderurgia, della TELIT e di Mediobanca, Prodi salutava un gruppo di giornalisti stranieri con un sorriso stanco e li esortava: «Restate, restate! Ho bisogno di un po' di riposo nelle retrovie!» Col passare degli anni, nel palazzo di via Veneto il gioviale professore si trovava sempre più impegnato in una guerra continua e su più fronti, ma non ha mai perso il buon umore o una certa ironia. «Per me», spiegava nel 1987, «questa esperienza è come una battaglia temporanea che dura sette anni, dopo di che mi ritiro nella vita accademica». Ma la domanda chiave riguarda il futuro. È stato l'inizio di un'epoca nuova all'IRi, quella prodiana, o solo un periodo controcorrente per questo gigante del capitalismo di Stato, una parentesi? [...]
Credits: dal Libro "Ce la farà il capitalismo italiano?" - Di Alain Friedman - 1989 - Ed. Longanesi)
SOCIAL
Follow @Tafanus