Recensione del film "A PROPOSITO DI DAVIS" (di Angela Laugier)
Titolo originale: "Inside Llewyn Davis"
Regia: Joel e Ethan Coen
Principali interpreti: Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, Ethan Phillips, Robin Bartlett, Max Casella, Jerry Grayson, Jeanine Serralles, Adam Driver, Stark Sands, John Goodman, Garrett Hedlund, Alex Karpovsky, F. Murray Abraham, Ricardo Cordero, Jake Ryan, James Colby, Mike Houston, Steve Routman, Ian Blackman, Genevieve Adams, Bonnie Rose Titolo originale Inside Llewyn Davis – 105 min. – USA, Francia – 2013.
Llewyn Davis è un personaggio dei fratelli Coen che appartiene alla folta schiera dei loro non eroi, gli sconfitti, che, innocenti, senza colpe come Giobbe, sono perseguitati dal loro dio crudele, o, se si preferisce, dal destino, al punto da vedersi negare la realizzazione di qualsiasi sogno o progetto a lungo accarezzato. Rassomiglia al mite Larry di A serious man, o a Barton Fink, lo scrittore spaesato in un mondo che non lo capisce e che neppure lui capisce; o a tanti altri perdenti dei loro film, apparentemente molto diversi, come Donnie o Drugo di Il grande Lebowski.
Lewyn (Oscar Isaac), che era un eccellente musicista, nonché un sensibilissimo poeta, scriveva canzoni stupende e cantava con voce bellissima, in coppia con un partner nei bar del Greenwich Village dei primi anni ’60, quando l’intera zona (che ora, ristrutturata anche troppo a fondo, è tra le più chic e snob di Manhattan) era un agglomerato sporco e maleodorante di case operaie poverissime. L’amico, che nei fumosi locali di quel quartiere condivideva con lui la passione per la musica e l’effimera gloria del successo serale, si era, purtroppo, gettato dal Washington Bridge, lasciandolo solo e poverissimo. Da allora, le sue belle canzoni folk avevano acquistato una tristezza disperata e abbastanza insolita; piacevano molto ad alcuni intellettuali, ma non avevano grandi probabilità di affermarsi in un mercato soggetto alla disponibilità a rischiare i propri soldi da parte di editori e discografici molto guardinghi. Questi, in verità, lo ascoltavano assai volentieri, apprezzandone talento e qualità, ma tutti gli chiedevano qualche compromesso: testi meno cupi, nonché un altro partner, secondo la tradizione commercialmente ben consolidata, proprio quella che il nostro Llewyn intendeva combattere. Conduceva in tal modo la sua quotidiana esistenza fra debiti e vita da bohème, ospitato a turno, per dormire, dai facoltosi ammiratori della sua musica che la sera erano accorsi al Village dalle loro abitazioni e che gli offrivano, per la notte, un divano accogliente: ogni notte, dunque, uno spostamento con quelle poche povere cose nelle quali ormai tristemente si compendiavano il suo passato e le sue speranze. Anche nelle belle case dell’Upper East Side, però, qualche inaspettato accadimento gli scombinava i piani e gli impegni: il bel gattone rosso, di cui Davis ignorava il nome, era furtivamente fuggito dall’appartamento, al mattino, non appena egli aveva cercato di uscire, né aveva potuto ritrovarlo, quando, proprio come Holly Golyghtly*, lo aveva invano cercato nei vicoli di New York, proprio come lei chiamandolo a gran voce “Gatto”! Ecco, poi, che, credendo di averlo riacciuffato, lo aveva portato con sé in partenza per un’audizione a Chicago: altro inutile ingombrante fardello da trascinarsi appresso, insieme alla chitarra e ai pochi suoi dischi precedenti, durante l’altrettanto inutile e rocambolesco viaggio, nel freddo invernale, senza cappotto e con le scarpe sfondate. Il gatto dei suoi ospiti ha un ruolo molto importante nel film: intanto scopriremo subito che non è quello che egli aveva creduto di ritrovare: un urlo forsennato della padrona di casa alla ricerca di un introvabile… scroto ne smaschererà l’impostura; inoltre il vero gatto di famiglia se ne tornerà a casa con le sue zampe: non per nulla si chiama Ulisse! Il richiamo all’Odissea e all’Itaca ritrovata suona ironico e molto amaro per Llewyn Davis, condannato a peregrinare a vuoto e senza alcun approdo familiare. La vita da homeless non era davvero il meglio, anzi, per affrontare l’implacabile inverno di New York, la città, bella e spietata, capace di indurire ogni cuore: quello di sua sorella, che si era organizzata una vita piccolo borghese e non lo voleva fra i piedi; quello di Jean Berkey (una Carey Mulligan bravissima ma quasi irriconoscibile nella sua acida aggressività), la cantante, partner musicale e moglie incinta del suo miglior amico, che temendo di portare in grembo, in realtà, un figlio suo, lo aveva apostrofato con terribili ingiurie e contumelie, costringendolo a trovare i soldi per farla abortire. Tutti lo evitavano nel terrore che l’infezione della povertà si trasmettesse a loro, che contagiasse i loro figli, che attentasse alla rispettabilità mediocre che in qualche modo li accontentava e che non intendevano mettere in discussione. Gli restava un padre a cui ricorrere nei momenti di bisogno: un vecchio operaio della marina mercantile, ora ricoverato in un ospedale per vecchi, demente e quasi dimentico di lui, evocato in una scena fra le più suggestive e drammatiche del film.
La narrazione dei registi ci descrive l’odissea di Llewyn, nel corso di una settimana e si conclude con una scena che , circolarmente, ci riporta all’inizio della narrazione: un’ aggressione che lo lascia pesto e sanguinante su un lurido e gelido marciapiede del Village, mentre, all’interno di un altro locale, Bob Dylan si sta facendo le ossa: di lì a poco si imporrà sulla scena internazionale come l’unico e vero innovatore del folk americano, confinando il povero Llewyn nella irrilevanza, ciò che ne conferma il destino di artista non riconosciuto ai suoi tempi e perciò perennemente inattuale, così come molto spesso sono inattuali e incompresi tutti i veri artisti.
I Coen hanno dichiarato in un’intervista del 17 ottobre 2013 ai giornalisti Joachim Lepastier e Mathieu Macheret**, di essersi ispirati, molto liberamente, alle memorie del cantante Dave Van Ronk, da cui, in ogni caso, hanno tratto le canzoni e gli arrangiamenti musicali. Nel corso di questa loro lunga chiacchierata, essi hanno tuttavia voluto escludere di aver girato un film biografico su quello o su altri artisti dell’epoca ricostruita nel film. Difendendo orgogliosamente la loro libertà creativa hanno sostenuto che attenersi a una storia realmente accaduta avrebbe limitato troppo i loro movimenti e la loro legittima interpretazione della realtà, che è infatti, a mio giudizio, coerentemente e chiaramente riconoscibile. Il loro incontro con l’attore cantante Oskar Isaac ha poi di per sé creato quel valore aggiunto che ha permesso loro di tratteggiare in modo originale il profilo di un cantante originale, perché, casualmente (sono o no i fratelli Coen?), la voce di Oskar, profonda e vellutata, molto diversa da quella roca di Dave Van Ronk, ha determinato la personalità di Llewyn, che si è quasi imposta da sola.
La fotografia bella e malinconica, i colori luminosi e parzialmente desaturati ci danno l’impressione quasi fisica dell’inverno gelido di New York e dell’atmosfera fredda che circonda la sfortunata carriera di Llewyn. Film molto bello, premiato nel maggio 2013 a Cannes con la palma d’argento per la migliore regia, da non perdere assolutamente!
*secondo me è evidentissima, qui infatti, la citazione della famosa pagina finale di Colazione da Tiffany. Non è neppure l’unica citazione di quel film (sempre secondo me).
Riporto qui di seguito la canzone che viene integralmente presentata da Llewyn all’inizio del film: Hang Me, oh Hang Me
e quella che Llewyn canta al padre: Shoals of Herring
In entrambi i casi la voce è quella di Oskar Isaac.
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Chi avesse, invece, la curiosità di sentire la voce di Dave Van Ronk, può ascoltarla QUI, nella canzone Hang Me, oh Hang Me
Angela Laugier
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