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Scritto il 12 marzo 2014 alle 23:30 | Permalink | Commenti (27)
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Ora la domanda è: farà prima Renzi a eliminare il Senato o farà prima il Senato a eliminare Renzi? (di Antonio Padellaro)
Soltanto l’altro ieri sembrava che niente e nessuno potesse impedire al turbo-premier di “cambiare verso” all’Italia, in cinque mesi o giù di lì. E però già al primo ostacolo, il famoso Italicum, il nostro eroe destatosi dai sogni d’oro ha dovuto affrontare la dura realtà quotidiana. Ieri pomeriggio alla Camera l’hanno visto per la prima volta spaventato sul serio, quando ha rischiato di finire sotto sul nuovo tentativo di introdurre la rappresentanza di genere nelle liste (metà uomini e metà donne). Emendamento sostenuto dal M5S, che a far ballare il governo comincia a divertirsi un mondo. Ha salvato la pelle per 20 miseri voti grazie alla precettazione di ministri e sottosegretari rastrellati qua e là. Ma per quanto ancora potrà resistere, quando a giorni il nuovo sistema elettorale approderà a Palazzo Madama, dove la maggioranza è risicata assai e dove – stante l’annunciata abolizione della seconda camera – ai senatori non garberà molto fare la figura dei tacchini invitati al pranzo di Natale.
Il fatto è che Renzi subisce una sorta di legge del contrappasso. Ha stretto un patto con Berlusconi che adesso gli viene rinfacciato come un tradimento. Ha voluto un governo al femminile e sono le femmine a fargliela pagare cara. Ha teorizzato la rottamazione della vecchia guardia pd ed è una energica signora dai capelli argentati, Rosy Bindi, a guidare la rivolta di genere contro il giovanotto del “qui si fa come dico io”: con l’appoggio convinto dei tanti che dentro e fuori via del Nazareno ce l’hanno cordialmente sulle scatole. Perciò nei retroscena di palazzo si torna a parlare di voto a ottobre e in questa chiave i 10 miliardi per le famiglie oggi all’esame del Consiglio dei ministri possono apparire un cadeau elettorale anticipato. Si vedrà. Del resto è stato il fedele sottosegretario Reggi a dire che Matteo “spara razzi nel cielo”. E non sembra più un complimento.
Antonio Padellaro
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La legge del taglione: la conferenza-stampa di Renzi fatta a pezzi su twitter
Scritto il 12 marzo 2014 alle 22:40 nella Renzi | Permalink | Commenti (15)
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Un'analisi delle oscillazioni elettorali (di Fabio Bordignon)
"Cari amici che l'altra volta avete votato Berlusconi, noi non abbiamo paura di venire a stanarvi dalle vostre delusioni [...] Ehi, diciamo a voi, vogliamo venire a prendervi". Nel lanciare la propria candidatura alle primarie del centro-sinistra, nel settembre 2012, Renzi chiariva (ancora una volta) la propria intenzione di lanciare il proprio appello, senza remore, agli elettori di centro-destra, ai delusi della "rivoluzione del '94".
In che misura l'operazione di drenaggio del bacino post-berlusconiano - condizione ritenuta necessaria, dal leader del Pd, per vincere le elezioni - è effettivamente possibile? Se consideriamo i dati dei sondaggi condotti da Demos negli ultimi due mesi, i flussi da coloro che avevano votato Pdl, nel 2013, in direzione del Pd, rimangono ancora piuttosto contenuti. Sappiamo, tuttavia, che, tra il 2008 e il 2013, il Pdl aveva già perso più di sei milioni di elettori, in parte transitati verso altre forze - in particolare verso il M5S - in parte rifugiatisi nel non-voto. Una porzione di quest'area fluttuante sembra avere contribuito alla recente crescita del Pd renziano.
Se analizziamo l'auto-collocazione degli elettori democratici sull'asse sinistra-destra, oggi e un anno fa, si osserva un certo scivolamento verso centro-destra: la componente che si considera "di centro" è salita dal 5 al 7%; quella di chi si descrive come elettore "di destra" o "centro-destra" è passata dal 4 al 10% (...azz... e questo è "l'unico che può farci vincere", secondo la vulgata in auge anche fra alcuni lettori di questo blog... NdR)
Sempre negli ultimi dodici mesi, è lievita dal 5 all'11% la frazione di elettorato Pd che rifiuta di prendere posizione rispetto al più tradizionale degli assi politici. Tale mutamento, peraltro, sembra riconducibile direttamente al ruolo del segretario. Infatti, tra coloro che si dichiarano "elettori di Renzi" ancor prima che "elettori del Pd", oltre il 40% sceglie una posizione alternativa rispetto a quella di sinistra o di centro-sinistra.
Allo stesso tempo, il Presidente del Consiglio può contare su un numero di estimatori molto elevato tra coloro che, ancora oggi, si dicono intenzionati a votare per il partito di Berlusconi. Tra gli attuali elettori di Forza Italia il 56% esprime un giudizio positivo sul governo e una quota ancora più elevata (64%) giudica positivamente il premier. Circa un terzo degli elettori forzisti, inoltre, si dice convinto che, in caso di elezioni, in questo momento il centro-sinistra sarebbe favorito, e il 10% arriva a dirsi molto o abbastanza vicino al Pd renziano. Si tratta di persone che, qualora l'attuale clima d'opinione dovesse confermarsi nel tempo, con l'avvicinarsi del voto potrebbero essere tentate di salire "sul carro del vincitore".
Negli anni Ottanta, al di là dell'Oceano, li chiamavano Reagan democrats: elettori del Partito democratico (statunitense) sedotti dalla retorica post-ideologica del grande comunicatore. In modo speculare, il leader Pd - ribattezzato da Vittorio Zucconi Matteo Ronald Reanzi - continua oggi a lanciare messaggi all'elettorato di centro-destra, rispolverando molti dei cavalli di battaglia della rivoluzione berlusconiana.
Ad esempio, la lotta contro la pressione fiscale: "Meno tasse per tutti. Loro lo hanno detto. Noi lo abbiamo fatto", affermava, già nel 2011, lo stesso Renzi, rivendicano i provvedimenti assunti, in materia, da Presidente della Provincia di Firenze.
I prossimi sondaggi e, soprattutto, i prossimi appuntamenti elettorali ci diranno se tale tentativo di attrazione, nell'orbita democratica, degli orfani del berlusconismo avrà successo. Ci diranno se esista veramente l'elettore renziano (post)forzista: l'elettore forza-renziano.
Fabio Bordignon
Scritto il 12 marzo 2014 alle 11:48 nella Politica, Renzi | Permalink | Commenti (8)
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Scritto il 12 marzo 2014 alle 08:00 | Permalink | Commenti (3)
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Chiunque legga il Tafanus sa che io non sbavo per le quote 50/50, ma preferisco una suddivisione delle candidature che faccia riferimento ad una qualche misurazione dell'impegno complessivo dei due sessi nella politica di base. Quella che spesso si fa non per tornaconto, ma per passione e per spirito di servizio. Penso ad esempio ai tanti consiglieri comunali che prendono 18 euro lordi a seduta, e che spesso rinunciano ache a quei quattro soldi. Ma non è questo il tema di questo post. Il tema è che i soliti bastardi (la banda dei 101 in maschera) ha colpito ancora.
Ma il tema, ancora più importante, è che dobbiamo discutere serenamente, seriamente, dell'inadeguatezza etica e tecnica di chi ci governa. Costui, avendo "odorato" che l'emendamento 50/50 (come pure quello 40/60) rischiava di passare, e avrebbe creato problemi all'ammmore fra Renzi, Berlusconi e Verdini, si è "chiamato fuori", e ha fatto arrivare in aula gli emendamenti pericolosi senza il parere del governo. Se gli emendamenti scomodi per la banda di Arcore passano, è colpa del Parlamento (e con la complicità del voto segreto, nessuno potrà imputare la cosa a nessun altro); se passano, perfetta simmetria: nessuno può accusare nessuno.
Legge elettorale più sballata del porcellum, col "rinforzo" del rinvio della sua entrata in vigore a babbo morto (cioè a Senato riformato o abolito). Perfetto SuperAttak per incollare il culo di Renzi alla poltrona di premier per l'eternità, e dei peones alla "festa" da 14.500 euro al mese: dovranno tornare a fare i professori precari di scuola media, o i ragionieri al CAF delle ACLI. Potremmo dire "amen", se non fosse che per fortuna esistono anche donne coi coglioni, come l'odiata (da Arcore a Frignano sull'Arno) Rosy Bindi. Altra cosa, caro Fonzie, rispetto alle adoranti Boschi e Madia.
Credo che la popolarità di Renzi sia a rischio (?) di crollo verticale. In poche settimane, è riuscito a sbattere la faccia - agitandosi troppo con eccesso di tatticismo - contro Camusso ma anche contro Landini, contro l'Europa, contro le donne del PD ma anche contro molte donne di FI e di altre formazioni; contro Quinzi, ma anche contro l'associazionismo. Attento, fonzie... rischi che alla fine del tourbillon ti restino attaccate solo le bosche tacco 12, i giachetti ex-tutto, le madie senza tom-tom, le serracchiane e le mirte merline. Credi davvero di poter durare con questi fantastici "followers"? Forse su twitter si, ma la vita non è un social, è più complicata delle tue battute cazzare da 140 lettere.
Tafanus
Liste bloccate e quote rosa - La guerra di Rosy Bindi contro Renzi (Fonte: Repubblica)
Che ci fosse in atto "una guerra personale" tra Rosy Bindi e Matteo Renzi si era già capito da tempo. Almeno dai tempi delle primarie tra Renzi e Bersani del 2012, quando tra i due si consumò un'accanita battaglia sulle regole che vide l'allora presidente del partito vincere sul "ragazzino" che aveva osato sfidare l'establishment del partito. Stamattina all'assemblea del Pd a largo Nazareno, la pasionaria del Pd ha affilato le unghie dopo la «profonda ferita» che si è consumata dentro al partito a seguiro dell'affossamento delle quote rosa ieri sera alla Camera.
Con Renzi «ci siamo detti le cose come stanno», ha detto la Bindi utilizzando una uscita laterale per lasciare il Nazareno al termine della riunione tra le deputate e i deputati del Pd con il segretario e presidente del consiglio.
Chi era presente, ha parlato di toni sopra le righe, addirittura incandescenti. Durante il suo intervento, Renzi ha fatto riferimento all'intervista rilasciata dalla presidente della commissione Antimafia a Repubblica, in cui Bindi affermava che il Pd ha sacrificato la lealtà ai valori della Costituzione all'accordo con Berlusconi. Renzi ha sottolineato che l'Italicum non viola la costituzione. Bindi ha ribattutto, dal posto che occupava in fondo alla sala, che lei non ha detto questo. «Il Pd è stato ferito dai 100 voti che sono mancati per far passare la norma antidiscriminatoria», ha detto Bindi al premier che si è lamentato per i distinguo sulla parità di genere. «Noi abbiamo un'idea diversa della democrazia di un uomo solo che fa le cose buone. E se oggi abbiamo un segretario e un premier che crede alla parità, domani potrebbe non essere così».
E' stato a quel punto che il segretario avrebbe chiesto di lasciarlo terminare il discorso, assicurando che poi avrebbe restituito la parola per eventuali repliche.
Già ieri, la Bindi aveva protestato dopo il voto sulla parità di genere. La presidente della Commissione Antimafia, visibilmente turbata, lasciando l'aula, aveva applaudito ironicamente alla volta del ministro Boschi, sbattendole le mani praticamente in faccia. Poi aveva puntato il dito contro i colleghi uomini, richiamando alla memoria un'esperienza non certo edificante per il Partito democratico: «Siamo ancora ai 101? Siamo ancora a quella storia lì?», aveva chiesto Bindi ai colleghi riuniti in un capannello, con esplicito riferimento ai franchi tiratori che affossarono la candidatura di Romano Prodi al Quirinale.
Oggi, un nuovo strappo dopo la bocciatura delle preferenze alla Camera, "figlia" anche questa dell'accordo tra Renzi e Berlusconi. «Credo che le liste bloccate siano inaccettabili. Nella percezione dei cittadini, corrispondono al Porcellum». Poi, lancia la stoccata: «Questa della parità di genere è forse uno dei punti fondamentali. E Renzi non ha dato rassicurazioni neanche per rimediare al senato. Non si è assunto la responsabilità. Questo, in buona sostanza, è uno spagnolo con il doppio turno. Quello che ha chiesto Verdini».
Rosy Bindi, insomma, è furibonda, e non lo nasconde conversando con i giornalisti a Montecitorio. «L'ideale sarebbero i collegi uninominali con primarie obbligatorie per legge. Ma se non c'è questa possibilità non capisco perché, soprattutto dopo la bocciatura di ieri della norma anti discriminatoria, non si possa prendere in considerazione la doppia preferenza», aggiunge la presidente della Commissione antimafia che poi ricorda: «Noi avevamo ritirato emendamenti», come quello sulla rappresentanza di genere e sulle preferenze, «che poi abbiamo ritirato perchè c'erano degli impegni che, poi, non sono stati rispettati».
Quindi, infilza ancora una volta il segretario: «Noi apprezziamo tanto la velocità ma ci hanno anche insegnato che se per fare le cose importanti si cerca di fare anche bene, e di solito il bene in democrazia coincide con il rispetto del pluralismo delle idee, forse si rende al Paese un servizio migliore».
Scritto il 11 marzo 2014 alle 17:25 nella Berlusconi, Leggi e diritto, Politica, Renzi, Tafanus | Permalink | Commenti (3)
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Nel 2012 i paesi dell’Unione Europea - esclusi Regno Unito e Repubblica Ceca - hanno firmato un patto di bilancio, noto come "fiscal compact", che prevede il divieto per il deficit strutturale di superare lo 0,5% del Pil nell’arco di un ciclo economico, e un percorso di diminuzione del debito pubblico in rapporto al Pil: che dovrà scendere ogni anno di 1/20 della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60%.
Per i meno abili in aritmetica significa che, se il PIL Italiano rimanesse fisso, il deficit complessivo dovrà ridursi del 5% annuale per i prossimi 20 anni: con un debito pari a 2.067.500 milioni di euro significherebbe abbattere il debito di circa 47 miliardi di euro l’anno, opzione sostanzialmente impossibile perlomeno in questa contingenza.
In realtà, se la si analizza matematicamente, questa regola sul debito è meno severa di quanto non appaia in prima istanza e certamente meno difficile da rispettare rispetto a quella relativa all’obbligo di pareggio di bilancio: se in effetti questo nodo venisse rispettato non si genererebbe nuovo debito, mentre ogni incremento di Pil nominale si tradurrebbe in una variazione del rapporto debito/Pil.
Vi risparmio i conti, ma per rispettare la regola della contrazione del debito in ragione di 1/20 ogni anno per 20 anni con un debito al 127% del Pil ed il pareggio di bilancio sarebbe sufficiente che il Pil nominale crescesse del 2,75%; con un debito al 100% del Pil basterebbe una crescita nominale del 2%; con un debito all’80% risulterebbe sufficiente l’1,25%.
In tempi appena normali questi valori di crescita del PIL sono valori medio-bassi, e basterebbe in realtà un po’ di inflazione per fare in modo di garantire questa crescita (si badi bene: più apparente che oggettiva, in quanto non basata su un incremento della produzione ma sul semplice depauperamento del valore del denaro).
Tanto per dare un’idea, nel 2000-2007, anni di crescita reale molto bassa, la crescita nominale del Pil in Italia è stata in media del 3,6% l’anno, per cui in effetti una condizione inflattiva relativamente bassa permette di mantenere i bilanci relativamente sotto controllo: anche per questo motivo tutti i governi temono la fase di deflazione perché in mancanza di perdita di valore del denaro il debito relativo cresce anziché diminuire.
Questo è esattamente ciò che accade quando c’è una fase di recessione: il Pil nominale può anche diminuire (in Italia è accaduto solo nel 2009) o crescere molto poco (dell’1,7% nel 2011 e, secondo le previsioni ufficiali di aprile 2012, dello 0,5% nel 2012 e auspicabilmente tra il 2,4 e il 3,2% nei tre anni successivi, ammesso che le stime dei governi Italiani non vadano considerate alla stregua di carta straccia).
Ovviamente la deflazione va considerata per quello che è, un adeguamento del mercato a condizioni esterne che ne perturbano le dinamiche: prosaicamente si tratta di valutare quale sia il punto di equilibrio fra prezzi ed offerta che permetta a chi vende di mantenere una marginalità sufficiente a rendere appetibile l’attività svolta.
Nell’istante in cui un qualunque attore finanziario (per esempio il pollivendolo sotto casa) si accorge che tenendo i prezzi troppo alti il suo negozio rimane vuoto, dovrà o rendere più appetibili i suoi polli oppure abbassare i prezzi, tenuto conto del fatto che sotto un determinato prezzo non vale la pena di continuare a tenere aperto il negozio a causa della tassazione e delle spese fisse.
Come ogni sistema, anche quelli economici sono generalmente autostabili (per fortuna): un effetto di deflazione permette in realtà ai salari di incrementare il loro potere di acquisto limitando a sua volta il valore della deflazione, e viceversa, mentre per chi governa ed ha tutto l’interesse ad aumentare l’inflazione per diminuire il valore complessivo del debito questa viene percepita come un disastro.
Basta fare un raffronto con gli altri Paesi europei per rendersi conto che il debito pubblico è il fulcro su cui si deve far leva: nel periodo 2007-2013, la Francia ha accumulato 699,8 miliardi di nuovo debito, la Germania 588,1 miliardi e l’Italia 435,4 miliardi. Nel complesso, la Francia è arrivata ad uno stock di debito pari a 1911,4 miliardi, la Germania a 2176,4 miliardi e l’Italia a 2.040,5.
Questi sono i dati che risultano dalle ultime previsioni del World Economic Outlook del Fmi. Il punto decisivo, per comprendere l’importanza dell’abbattimento del debito pubblico italiano, è rappresentato dalla spesa degli interessi sul debito pubblico: sempre nel periodo 2007-2013, la Francia ha pagato 331,8 miliardi di euro, mentre la Germania ha messo mano al portafogli dei propri cittadini per l’importo di 391,3 miliardi, il costo per i contribuenti italiani è stato assai più elevato: 522,6 miliardi di euro.
Visto che il nostro pil nominale nel 2013 è stato di 1557 miliardi ed il debito di circa 2040 miliardi, è come se in sette anni avessimo pagato per interessi una somma pari ad un terzo del pil e ad un quarto dell’intero debito… Furbo, vero ?
Come detto prima, se la logica di abbattimento del debito è quella basata sulla creazione di un avanzo primario annuale realizzato attraverso l’aumento delle entrate fiscali e la riduzione delle spese pubbliche in un contesto di recessione e di elevati tassi di interesse: dal 2007 al 2013, la Francia ha accumulato un risparmio primario negativo di 338 miliardi euro, mentre la Germania ha realizzato un saldo positivo di 194 miliardi. L’Italia ha registrato un saldo positivo di 161 miliardi di euro.
Ciononostante, il debito italiano è cresciuto in valori assoluti ed in rapporto al pil, che è diminuito. Solo Germania ed Italia, tra l’altro, in tutta Europa, hanno avuto saldi positivi, ma l’Italia è stata penalizzata dall’enorme debito pubblico di partenza: è la zavorra che ci manda a fondo appena un onda increspa il mare dei mercati.
Gran parte dei sacrifici dei contribuenti italiani sono serviti innanzitutto a remunerare il debito pubblico, che alla fine del terzo trimestre del 2013 era detenuto dall’estero solo per 746 miliardi, una somma pari al 36,6% dei titoli in circolazione, e spannometricamente, degli 80 miliardi di euro spesi nel 2013 per interessi sul debito pubblico, circa 29 miliardi sono andati agli investitori esteri mentre 51 miliardi a quelli italiani…
L’incapacità dei precedenti governi (e temo anche dell’attuale) si evidenzia proprio in queste logiche: mancando di qualsiasi vera politiche di sviluppo, è facile capire che qualunque dilettante allo sbaraglio (descrizione perfetta dei politicanti 'de noantri) pensi di portare sviluppo nel paese spendendo del denaro (in genere ad uso e consumo suo, della sua poltrona e della corte dei miracoli che lo attornia) in maniera tale da poter dichiarare di “favorire i consumi” senza rendersi conto di quanto queste logiche poi determinino un appesantimento dei conti pubblici.
Appare chiaro a questo punto che il rispetto della regola del pareggio di bilancio appare decisamente più critica ma anche più importante del cosiddetto fiscal compact, in quanto un effetto di aumento del PIL (e con una disponibilità economica derivante da una maggiore occupazione nel settore privato il PIL salirebbe infallibilmente) assicurerebbe un automatico decremento percentuale del fatidico rapporto debito/PIL.
In una condizione dove il PIL reale risulta essere sceso del 13% dal 2008 e del 9% dal 2009 (al lordo degli effetti inflattivi, per cui dovremmo aggiungere un 4-6% circa), un ritorno entro quattro anni riportando il livello di marginalità delle aziende al valore pre-2009 potrebbe suonare ragionevole, ovviamente al netto delle attività spostate all’estero, attirate da un livello fiscale e burocratico più vantaggioso.
Nel caso Italiano la regola della riduzione del debito si tradurrebbe (partendo dalle stime ufficiali al 2015 contenute nel "Documento di economia e finanza" di aprile 2012) in una discesa del rapporto debito/Pil a un ritmo decrescente: da una riduzione di 3,3 punti nel 2014 a 2,5 punti nel 2018 a 1,3 punti nel 2030: in altri termini, diversamente da quello che a volte si dice, la regola non richiede una riduzione del debito di 3 punti l’anno (un ventesimo della differenza tra 120 e 60) per vent’anni.
Man a mano che il debito/Pil scende, la differenza tra il suo valore e la soglia del 60% si riduce e, quindi, si riduce anche 1/20 di quella differenza: naturalmente ciò allunga il periodo necessario per avvicinarsi al fatidico 60%. Partendo dal livello attuale, la regola comporterebbe per l’Italia nel 2034 un rapporto ancora all’80%.
Quale saldo di bilancio sarà necessario in futuro per ottenere questi risultati? Naturalmente dipenderà dal tasso di crescita del Pil e dal tasso di interesse sul debito, per questo risulta così importante che i tassi di interesse sui prestiti vengano mantenuti bassi, fattore impossibile in una situazione ove si voglia incrementare il PIL tramite la creazione di debito: in questo caso immediatamente la spinta inflazionistica comporterebbe un rialzo dei tassi di interesse e quindi del costo degli interessi passivi da debito.
L’avanzo primario e il saldo totale (indebitamento netto) necessari per rispettare la regola sul debito, proiettando nel futuro le ipotesi ufficiali per il 2015 sono quelli di una crescita reale del Pil all’1,2%, crescita nominale al 3,2%, costo medio del debito al 5% (quest’ultimo maggiore di 0,8 punti rispetto al livello del 2011).
Sono ipotesi che non appaiono particolarmente ottimistiche in un’ottica di lungo periodo: sotto queste ipotesi, l’avanzo primario dal 5,7% previsto per il 2015 potrebbe scendere al 4,8% l’anno successivo, al 4% nel 2021 e così via. Ciò non richiederebbe il pareggio di bilancio, bensì sarebbe coerente con un disavanzo totale tra lo 0,8 e l’1,4% del Pil lungo il periodo considerato.
Il quadro ovviamente cambia se si adottano ipotesi più o meno favorevoli rispetto a quelle ufficiali: ipotesi più pessimistiche, con tassi di crescita nominali intorno al 2%, comporterebbero la necessità di avanzi primari più elevati e quindi richiederebbero, in questo caso sì, un pareggio e anzi un avanzo complessivo ben oltre il 2020.
Con ipotesi più favorevoli, quale sarebbe una crescita nominale del Pil in linea con quella registrata in media nel periodo 2000-2007 (un periodo certo non particolarmente felice per la nostra economia), il disavanzo complessivo potrebbe mantenersi su livelli vicini al 2% lungo tutto il periodo.
Insomma ipotesi anche di poco più ottimistiche sulla crescita del Pil e sul mantenimento dell’attuale livello dei tassi di interesse renderebbero il mantenimento del pareggio di bilancio una regola tutto sommato meno gravosa e renderebbero possibile finanziare le spese di investimento mantenendo gli obiettivi di riduzione del debito.
Ve lo vedete il buon Renzie fare questi ragionamenti? No, vero? E in effetti dichiarazioni del tipo “il ministro delle finanze deve essere un politico, non un tecnico” dichiarano già un indirizzo chiaro…”
(di Axel)
...renzie fare questi "raggionamendi"??? Renzi chi? quello che prima che noi approfondissimo la questione, scriveva sul suo curriculum dettato a Wikipedia di aver "fondato" a 19 anni un'azienda che con tre milioni di fatturato aveva tre sedi, quindici dipendenti e circa 2000 collaboratori esterni? Oppure quello che ancora l'altro giorno confondeva 10 miliardi con 10 punti di IRAP? O magari ti riferisci a quello che ha scritto un "libro dei sogni" che prevede risorse per 130 miliardi all'anno? O Forse a "trecartaro" che pensava di coprire il libro dei sogni coi fondi strutturali europei non spesi? No, no... forse ti riferivi a quello che pensava di farsi dare altri fondi strutturali non già per affrontare spese strutturali, ma per dare la marchetta di 78 euri all'anno a chi guadagna meno dei 15.000 euro all'anno...? Vedi, Axel, per essere certo che renzie possa capire questi discorsi, avresti dovuto fare uno di quei libretti divulgativi a fumetti, che usavano nelle vecchie classi differenziali.
Mi viene in mente anche Gianni Clerici (unico giornalista di tennis italiano conosciuto in tutto il mondo). Quando parlava delle tenniste russe capaci solo di "scoppiare la palla" a randellate, che ogni tanto tentavano qualche "finezza" come un drop-shot, o un lob, mandando la palla in tribuna, Gianni Clerici - che allora commentada con Rino Tommasi le partite su Sky, usava dire: "La pastora siberiana, chiamata a giocare di fino, dimostrò tutta l'umiltà delle sue origini". Ecco, renzie, chiamato a muoversi nei meandri della politica, sta dimostrando tutta la sua nullità. In poche settimane, colui che "abbiamo fatto in otto giorni ciò che gli altri non hanno fatto in otto anni", non ha ancora messo la sua firma non dico du qualcosa di pubblicato in G.G., ma neanche sul "Giobatta", né sulla "legge elettorale", e sta rapidamente affondando nelle sabbie mobili che pensava presuntuosamente di poter dominare. Oggi sta completando l'opera di uccidere il PD, senza che la resurrezione di Berlusconi possa portargli alcun beneficio. Pensava di ammazzare la Camusso lisciando il pendo a Landini, e oggi è stato scaricato dall'una e dall'altro. Ieri si è capito perfettamente a quale banda appartenessero i 101 che hanno affossato Prodi. Oggi Rosy Bindi gli ha dato il benservito. Domani al Senato, dove i numeri sono molto stretti, rischia grosso. Anzi, no. Perchè arriverà - in una squallida politica del "do ut des" - il "soccorso nero" di Forca Italia. Complimenti a renzie, e ai renzini da riporto (che da qualche giorno, pur non essendo "bannati" su questo blog, ci stanno assordando col loro rumoroso silenzio.
Tafanus
Scritto il 11 marzo 2014 alle 10:32 nella Axel, Economia, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (52)
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Scritto il 11 marzo 2014 alle 02:10 | Permalink | Commenti (4)
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Scritto il 10 marzo 2014 alle 19:14 | Permalink | Commenti (0)
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Qual è la vera ministra, quella più autentica? Maria Elena Boschi (quella dalle incredibili scarpette leopardate, "annuitrice ufficiale" di Matteo Renzi, o la bravissima Virginia Raffaele, che ce ne regala una "inimitabile imitazione", regalandoci una finta intervista che denuda la badante di Renzi, ipotizzando l'ennesimo personaggio renziano della serie "sotto-il-vestito-niente"?
Noi siamo persimo disposti a disfarci del nostro imbarazzo per essere "sudditi" di una ministra di così elevate qualità, a patto che la ministra sia disposta a disfarsi di quelle orrende "scarpette" che l'hanno resa famosa nel mondo. E' questo il famoso "Made in Eataly"?
Scritto il 10 marzo 2014 alle 18:36 | Permalink | Commenti (2)
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Scritto il 10 marzo 2014 alle 14:39 | Permalink | Commenti (2)
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Scritto il 10 marzo 2014 alle 01:26 | Permalink | Commenti (6)
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Scritto il 09 marzo 2014 alle 08:01 | Permalink | Commenti (6)
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Recensione del film "12 anni schiavo" (di Angela Laugier)
Titolo originale: 12 years a slave
Regia: Steve McQueen
Principali interpreti. Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Lupita Nyong’o, Sarah Paulson, Brad Pitt, Alfre Woodard, Scoot McNairy, Taran Killam, Garret Dillahunt, Michael K. Williams, Quvenzhané Wallis, Ruth Negga, Bryan Batt, Chris Chalk, Dwight Henry, Anwan Glover, Marc Macaulay, Mustafa Harris – 134 min. – USA 2013.
Solomon Northup era un cittadino libero di Saratoga, città nello Stato di NewYork dove viveva, apprezzato violinista e artigiano, insieme alla moglie e alle due figlie, godendo della stima e del rispetto generale. La pelle nera non gli aveva creato ostacoli nella vita sociale e familiare fino al 1841, anno in cui venne rapito da un’organizzazione schiavistica che, dopo averlo ingannato con la promessa di un vantaggioso contratto di lavoro, lo aveva intontito con un intruglio di vino e belladonna e trasportato in catene nel Sud schiavista. Delle sue vicissitudini, durate fino al 1853 (anno in cui, grazie all’intervento di un canadese abolizionista, gli venne riconosciuto il diritto di tornare a Saratoga e alla sua famiglia), Northup lasciò la drammatica testimonianza di un racconto autobiografico, l’unico, a quanto ho letto, in cui la schiavitù dei neri negli Stati Uniti sia stata raccontata da chi l’aveva vissuta di persona.
A questa narrazione si ispira fedelmente il film di Steve Mc Queen che, dopo aver ricostruito con cura gli scenari in cui Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) si muoveva liberamente, tra Saratoga e Washington, si sposta direttamente nei campi di cotone della Louisiana, cioè nei luoghi della schiavitù del suo personaggio, ripercorrendone le tappe. Solomon, infatti, non ebbe un solo padrone, ma tre, l’ultimo dei quali, Edwin Epps (Michael Fassbender) è, dei tre, il più cupamente feroce e anche il più complesso e contraddittorio, dominato totalmente a sua volta da una moglie possessiva e gelosa. Il regista sembra suggerirci non tanto che esistono diversi modi di essere schiavisti, dal più brutale, al più tormentato, al più “umano”, ma che lo schiavismo sia soprattutto la condizione mentale di chi accetta che esistano, per un presunto ordine naturale o divino, privilegi e privilegiati. Se è così,lo stesso Solomon, che non riesce a liberarsi dell’idea di soffrire per un ingiusto equivoco dovuto alla perdita dei propri documenti, non è estraneo a quella mentalità, neppure nel momento in cui Bass, il canadese provvidenziale (Brad Pitt), comparirà come un deus ex machina nella sua vita e riuscirà a restituirgli, con sentenza del tribunale federale, i diritti conculcati, con molte scuse: tanto gli spetta, per il fatto di essere stato un uomo libero e pazienza se i suoi compagni di umiliazioni e di dolore rimangono dov’erano, nei luoghi maledetti del Sud! Sappiamo solo dalle scritte che compaiono alla conclusione del film che egli lotterà successivamente per l’abolizione della schiavitù.
L’argomento trattato è certamente interessante e promettente, ma questo non si è tradotto quasi mai in un linguaggio cinematograficamente apprezzabile, poiché il racconto è molto piatto e difficilmente riesce a coinvolgere lo spettatore: si esce, anzi, con l’impressione che molto spesso le brutalità efferate siano il pretesto di rappresentazioni estetizzanti, del tutto fuori luogo, quasi che i corpi piagati e sanguinanti dei poveretti che le subiscono si trasformassero in eleganti e cupe pitture materiche informali. Quali fatti storici abbiano favorito il diffondersi della vendita di uomini e donne non viene detto, né quali distorsioni abbia prodotto l’obiettivo dell’arricchimento a qualsiasi costo, né perché gli abolizionisti come Bass si muovessero nelle campagne del Sud, cosicché tutto il film non trova né un accettabile riferimento storico-politico, e neppure un colpo d’ala narrativo che riesca a renderlo davvero coinvolgente, ciò che è più grave dal punto di vista della rappresentazione cinematografica. Inevitabile, anche se probabilmente ingiusto, il paragone con il bel film di Tarantino, Django unchained in cui schiavi e schiavisti avevano trovato una rappresentazione davvero indimenticabile!
Se 12 anni schiavo non avesse portato a casa l’Oscar più prestigioso, quello per il miglior film, non l’avrei recensito, per non infierire su un regista che ho apprezzato molto nei due precedenti film Hunger e Shame.
Angela Laugier
Scritto il 09 marzo 2014 alle 07:59 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (7)
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La festa della donna, anche se non l'ho mai festeggiata con particolare impegno, l'ho sempre ricordata, anno dopo anno, con un omaggio floreale alle amiche del Tafanus e a tutte le donne, anche perchè in un mare magnum di feste inventate dagli uomini di marketing (la festa del papà, della mamma, del prozio, della cognata del cugino) era forse l'unica che avesse radici e ragioni storiche abbastanza dolorose. Oggi, lo faccio con malinconia, per diverse ragioni.
La prima è che oggi questa festa viene celebrata con un record storico di uxoricidi. Tre in un solo giorno. Ma è ormai da qualche anno che quuella cosa definita - con orribile neologismo - "femminicidio", fa registrare sempre nuovi records quantitativi e "qualitativi".
La terza ragione è che quest'anno la "festa" coincide con l'acne di una battaglia - quella sulla "parità di genere" in parlamento - che non mi piace, e proverò a spiegare perchè.
Non mi piace, perchè le "quote" (rosa o celeste che siano), non mi sono mai piaciute. Rifiuto l'idea che i diritti della donna - o dell'uomo - possano essere regolati da leggi che statuiscano che il 50% dei posti in parlamento, o al governo, o alla segreteria del PD, debba essere destinato ope legis ad un sesso o all'altro. Credo che la legge deve (perchè non si comincia da li?) garantire uguali condizioni di partenza, dopodichè vinca il migliore (o la migliore).
Uguali condizioni significa che non è ammissibile che a parità di mansioni le donne siano pagate più degli uomini. O che alla donna impegnata nei lavori domestici, o nella cura dei figli, debba essere riconosciuto uno status che facili il ruolo di "angelo del focolare", o che lo retribuisca. Oppure che imponga che l'uomo sia anc'egli "angelo del focolare", che gli piaccia o meno fare il bucato, cucinare, lavare i piatti, cambiare il pannolino al pupo. Banalizzo, ma lo faccio di proposito. Peccato che non si possa imporre all'uomo anche l'onere della gravidanza e del parto.
Detto questo, veniamo al caso specifico delle liste di partito "fifty/fifty". A prescindere dal fatto che ci sono mille modi - con l'attuale legge a liste bloccate e possibilità di candidare qualcuno si e qualcuno no in più collegi - per aggirare questa eventuale legge, per come si sta configurando:
-a) chi impedisce di mettere nella lista bloccata di Lombardia/2 10 maschietti immersi fino al collo nella politica politicante, e dieci signore-nessuno (cugine, vicine di casa, colf e via elencando?). NESSUNO. Questo è un modo di mettere il 50% di donne in una lista, NESSUNA delle quali sarà eletta. E le liste non le stabilisce una legge, ma una segreteria di partito.
-b) Chi dovrebbe impedire a Renzi (prendiamo uno a caso) di candidare la Boschi in 5 collegi, e la Bindi in nessuno?
Sono solo due esempi. E guardiamo agli effetti devastanti della suddivisione 50/50 dove questa è stata praticata: nella segreteria del PD, come sulle poltrone di ministro, oggi ritroviamo alcune nullità professionali (non solo donne, per la verità) figlie della voglia del capetto di andare in TV o su twitter a scrivere: ho messo in segreteria a ai ministeri lo stesso numero di uomini e di donne. E pazienza se le donne si chiamano Boschi o Madia. In fondo, in un paese che ha fatto ministra la Brambilla Autoreggenti, chiunque può aspirare...
L'errore d'origine, secondo me, è ancor più grave e inemendabile: non ha senso imporre che il 50% delle candidature sia riservato per legge alle donne, se queste - motu proprio - si danno da fare in politica - poniamo - in ragione di 1/5 rispetto agli uomini. Capirei di più se si tentasse di fare una legge per cui le liste dovrebbero contenere uomini e donne in proporzione all'impegno dei due sessi nella politica di base (attivismo di partito, candidature nella politica "minore", come consigli di zona, piccoli comuni, "società civile", etc..). Lo so, non è facile, ma una suddivisione "flat" 50/50 è semplicemente stupida. E comunque NESSUNA legge di pari opportunità può funzionare in regime di liste bloccate e di possibilità (né obbligo, né facoltà non partitica, di candidature multiple in più collegi).
Sacrosanta quindi nei principi la battaglia delle parlamentari per la parità di genere, sbagliata nella metodologia e nella genericità deegli obiettivi, e nella impossibilità pratica di applicazione. Cerchiamo quindi di salvaguardare il principio, ma articolando lo strumentario in maniera logica, applicabile, e armonizzando la legge elettorale con questo obiettivo.
APPENDICE - Non strettamente in tema con la festa della donna, oggi sul gruppo facebook che fa capo a John Peter Sloan (lunico gruppo al quale abbia aderito mia moglie), che raccoglie persone professionalmenmte legate all'uso della lingua inglese - come interpreti, insegnanti, traduttori - si è aperta una discussione sulle"feste" (troppe) che infestano la nostra vita. Riporto a beneficio di chi legge l'inglese, perchè non ho il tempo per tradurre, a quest'ora. Feste troppo spesso inventate, e troppo spesso crudeli nei confronti di chi "quella cosa" proprio non può festeggiarla... Lo riporto, perchè ho trovato il tema di grande interesse, ora che, puntuale come la cometa, pioverà anche addosso agli orfani e ai figli di nessuno la "Festa del Papà"...
John Peter Sloan said: the fact that we have to have an official day to remind us that we must appreciate and respect women, says everything...
TheRose WithThorns said: I like the Women's day ... I like S.Valentine ... I like the Mother/Father's day ... I like every celebrations ... why don't U like it? ... it doesn't mean U remember that Women/Partner/Mother/Father are important just in that day, it means (IMHO) that all of them are so important that they deserve a day to be celebrated... my personal opinion, of course...
Isa Ravera said: I dont'like any of those days, instead. There would be nothing to celebrate if everyoone lived up to their rights. As for mother's, father's, St Valentine's days they just remind of their lonelimess those who have no one to celebrate or to share with whereas they do not add anything to the one who are lucky enough to have a father, a mother, a lover to celebrate with. This is my opinion, that's all.
Marisa Crea sais: Dear Isa, I completely agree with you. I've never thought before of such a deep consideration about lonely people....You are right, absolutely right.
Isa Ravera said: I have grown two children with a father that deserted them and I can't forget the sorrow in their eyes on father's day when the school mates (and of course the teacher did not esonarate them from) spent days learning stupid poems on family love! To avoid that, though I hardly had enough money to feed them, I used to organise a winter week with some groups so that they could stay far from home and forget all about stupid celebrations[...] I didn't mean to judge, only to express my own opinion. If you are happy in your condition, it isn't a celebration that can make you happier. The stress on celebration (whic I consider a cosumistic one, to be honest) can increase the sense of loneliness in those who aren't. That's what I meant, that's what I feel, far from me any idea of judging any different opinion.
Buona domenica a tutti. Maschi. femmine, padri, madri, prozzi, e cugini di secondo grado.
Tafanus
Scritto il 08 marzo 2014 alle 22:59 | Permalink | Commenti (2)
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Vorrei timidamente estraniarmi dal coro osannante de "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino. Con enorme sforzo, ho deciso di vederlo in tv, nonostante fosse proiettato sul canale di Berlusconi. Mi sono messo di buzzo buono. Ho resistito solo 35 minuti, gli ultimi cinque proprio con violenza. Poi sono andato a fare cose più importanti.
Il fatto che abbia un oscar non significa nulla, perché gli americani del nord, popolo di decadenti conclamati e perduti, hanno voluto esaltare il loro stile di vita che certamente è anche quello dell’italiota medio-alto (o basso, dipende da quale prospettiva si guardi il tutto e la parte), ma non vuol dire che il film sia un bel film. Quali sono i parametri per dire che un film è «bello»? Il titolo? Siccome è intitolato «Grande bellezza» deve essere bello? Il fatto che cerca di imitare Fellini? Questi metteva in pellicola le sue non risolte nevrosi, i traumi che ha vissuto da bambino e che sperava di risolvere attraverso i film che erano piuttosto materia per gli psicanalisti allucinati da allucinogeni. Un po’ simile oggi è Almodóvar.
Di Fellini, personalmente salvo solo alcuni film come I Vitelloni, La Strada, Le Notti di Cabiria, cioè il primo Fellini. Poi è venuto il mito e in Italia guai a toccare i miti, anche se fanno grandi scemenze. Lo stesso avvenne nella pittura con Mirot che a mio parere è superato da migliaia di bambini delle elementari che dipingono molto meglio di lui. Siccome il mercato ha stabilito che un Miròt vale milioni, ecco allora il genio. Lo stesso dicasi per Salvator Dalí che imbrattava piatti e tele, ma il mercato lo ha consacrato «divino». Ma mi faccia il piacere!!!! Noi sappiamo come funziona il mercato: non è il genio che conta, o il talento, o la capacità letteraria, o la potenza della scrittura, della pittura, o i sentimenti, ma unicamente gli interessi di qualcuno, di qualche gruppo, di una società.
Altrimenti come si spiega che oggi autentici capolavori sono pressocché sconosciuti perché non trovano editori (vale per il libro, la scultura, la pittura, il cinema) e invece hanno successo su successo i liberculi di Vespa e di tanti autorelli venduti agli svariati padroni che hanno il potere di decidere sul mercato di un’opera e sulla distribuzione di un libro o di un film?
Mi permetto di dire che a mio parere, per i 35 minuti di film visto, «La grande bellezza» rappresenta una grande ciofeca. Se volevo un assaggio della noia stravaccata, meglio leggere La Noia di Sartre o Lo Straniero di Camus, ma stare a vedere imbecilli che fingono di divertirsi annoiandosi e annoiando è il massimo del masochismo a cui non sono per nulla votato. Qualcuno dirà che sono vecchio e allora viva la vecchiezza e abbasso l’imbecillità che offusca l’intelletto della maggioranza.
Non sono moralista e non ho ancora detto una parola sul contenuto, che non voglio valutare nel giudizio del film, perché sarebbe facile dire che vorrebbe essere lo specchio della realtà decadente della società di oggi, ma non lo è. Forse potrebbe essere lo specchio di quell’1% che rappresenta quel mondo, ma certamente non rappresenta il mondo reale di oggi, e comunque il mio mondo. No, non mi riconosco in questo Sorrentino, affatto geniale, che arriva a dedicare il film a Diego Armando Maradona, evasore fiscale dell’Italia e quindi ladro a danno del popolo italiano che gli ha dato tutto e lui ha ricambiato sottraendo denari all’Italia.
Non mi pare che il film abbia avuto uno straordinario successo di pubblico, se già a pochi giorni dall’uscita se ne appropria Mediaset per proiettarlo in prima serata con grande suono di trombe e trombette, unicamente per risollevare le sorti dell’auditel, altrimenti sottoterra! Ancora una volta, dire che hanno visto il film 9 milioni di persone significa dire una stupidaggine: 1° la maggior parte, come me, lo hanno visto per curiosità; 2° nessuno di quelli che l’hanno visto in tv sono usciti di casa per andare al cinema; 3° nessuno ha pagato il biglietto (questo non sarebbe vero perché le interruzioni pubblicitarie, equivalgono a migliaia di biglietti); 4° l’auditel è un inganno, un cartello tra le tv per gestire un consenso che non hanno.
Se questo film, senza capo né coda, senza pathos, senza il senso di una parvenza di estetica narrativa, vi è piaciuto, fate vobis. A me no. Una cosa si salva (qui è stata la furbizia del regista o di chi ha avuto la pensata): le inquadrature su Roma. Ecco, Roma e tutta la sua «bellezza» doveva essere il filo narrativo del film, senza la massa di falliti che lo interrompono, come un brutto spot pubblicitario: sarebbe stato un grande film di inusitata «bellezza», anche di quella Roma nascosta che non si vede a occhio nudo. Come è venuto, è invece un film omaggio alla «grande bruttezza».
Paolo Farinella, prete
Scritto il 08 marzo 2014 alle 13:53 nella Cinema | Permalink | Commenti (19)
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Scritto il 08 marzo 2014 alle 08:00 | Permalink | Commenti (1)
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Nei sondaggi pesa poco, eppure Alfano tiene in scacco il premier. Dalle riforme ai sottosegretari, all'Italicum. E si prepara a sfidare Berlusconi (di Marco Damilano - l'Espresso)
Il 16 novembre 2013, data di nascita del suo partito, convocò la stampa italiana e internazionale per la lieta novella: «Sono qui per annunciare la formazione di un nuovo, grande centrodestra, con un simbolo che presto entrerà nei cuori di tutti gli italiani». Quattro mesi dopo il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano nei sondaggi balla pericolosamente attorno al quattro per cento, soglia di sbarramento per accedere alla distribuzione dei seggi nel Parlamento europeo alle elezioni del 25 maggio, alle ultime regionali in Sardegna non ha neppure presentato la lista.
L'obiettivo di raggiungere i cuori degli italiani appare lontano. In compenso, è ben collocato nel cuore del sistema politico, la posizione da cui si governa l'Italia, il centro del centro, collocazione che garantisce a chi la occupa una rendita fortunata: influenza, potere, poltrone di governo e di sottogoverno, in misura largamente superiore al consenso davvero raccolto tra gli elettori. In questi mesi Alfano si è sganciato dal nume tutelare Silvio Berlusconi, ha mollato il premier Enrico Letta di cui era vice e che lo aveva difeso a spada tratta nella vicenda della dissidente kazaka Alma Shalabayeva, professando - sia chiaro - grandi sentimenti di amicizia, si è attaccato alla nuova stella Matteo Renzi proponendosi come il suo principale alleato di qui alla fine della legislatura, che per il leader dell'Ncd deve arrivare il più tardi possibile. Missione compiuta con l'accordo sull'Italicum, il via libera a una legge elettorale valida solo per la Camera che di fatto rende impossibile un voto anticipato: o si elimina il Senato con una legge costituzionale che richiede tempi lunghi, oppure per Palazzo Madama si tornerà a votare con quel che resta del Porcellum fatto a pezzi dalla sentenza della Corte costituzionale, certezza di ingovernabilità assoluta. In entrambi i casi Alfano sente di avere in tasca la golden share, con Renzi costretto a rallentare e Berlusconi a fare marcia indietro pur di restare seduto al tavolo delle trattative.
Bastava vederlo l'Angelino felice prima di entrare nello studio di "Otto e mezzo", la sera di martedì 4 marzo, poche ore dopo la svolta decisiva: «Questa legislatura durerà, possiamo essere i fondatori della Terza Repubblica». Del governo di cui fa parte rivendica la paternità: «Quando ho sentito Renzi al Senato nel discorso della fiducia dire che il nostro programma è riforme, mercato del lavoro, fisco, burocrazia e giustizia gli ho chiesto il copyright: sono le cose che diciamo da sempre». Quasi un governo Alfano, insomma. E pazienza se Berlusconi ora preferisce parlare con il premier fiorentino piuttosto che con il suo ex segretario che un tempo trattava come un figlio: «Sopporto con cristiana pazienza la persecuzione del "Giornale" di cui Berlusconi è pienamente informato». Nulla, in realtà, rispetto a quanto subito da Gianfranco Fini, ma per Alfano è un altro tabù squarciato. E pazienza, anche, se in nome dell'asse con Matteo Angelino ha dovuto sacrificare il sottosegretario alle Infrastrutture Antonio Gentile, coinvolto in una faida familiar-affaristica, che pure aveva nominato di suo pugno tre giorni prima: ci sarà modo di rifarsi. L'importante è che nel governo Renzi, sempre di più, sia visibile il peso di Alfano e del suo Ncd. Partito virtuale, pensiero debole e potere solido, com'erano i dorotei di una volta, la corrente centrale della Dc: «Il doroteismo è la continuità nell'apparente evoluzione, l'immobilismo nell'apparente movimento», scriveva il politologo Ruggero Orfei. Con un solo terrore: restare fuori, andare all'opposizione. Il governo come destino, condizione esistenziale.
L'Ncd fino a qualche giorno fa non aveva neppure una sede nazionale, si riuniva negli uffici di Camera e Senato o nelle stanze governative, ne ha appena trovata una in via dell'Arcione, zona fontana di Trevi. E non aveva organi dirigenti: sul sito del partito i notabili si fanno chiamare "team", Alfano si autoproclama leader, almeno in questo è rimasto berlusconiano. Appena è arrivato il momento delle scelte sono cominciate le divisioni interne, le rivalità sotterranee, come quella che divide l'ex presidente del Senato Renato Schifani dall'ex ministro Gaetano Quagliariello. Quagliariello è la testa pensante della compagnia, studioso di fama e rapporti consolidati con il Quirinale, legato ai teocon Eugenia Roccella e Maurizio Sacconi che sognano di trasformare l'Ncd in un partito di crociati dei valori non negoziabili, proprio quelli sconfessati pure da papa Bergoglio. Schifani è l'ex fedelissimo berlusconiano che guida una invisibile ma solida rete negli apparati dello Stato, affidata al senatore Giuseppe Esposito, vice-presidente del Copasir, strategico comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti.
Una settimana fa i giochi sembravano fatti: Quagliariello doveva essere nominato coordinatore nazionale dell'Ncd, una sorta di segretario. Ma Schifani si è messo di traverso e ha strappato a Quagliariello la delega più importante: sarà lui, Renatino, a fare le liste dei candidati Ncd alle elezioni europee e amministrative. E non solo: anche sulla lista dei sottosegretari Quagliariello è rimasto totalmente escluso, a compilarla sono stati Alfano e Schifani. Sono loro che hanno assegnato una poltrona delicata come quella di sottosegretario alle Infrastrutture a Tonino Gentile, signore delle preferenze calabrese. Il fratello Giuseppe, alle ultime regionali è stato il consigliere più votato con quasi 15mila voti personali ed è assessore alle Infrastrutture della giunta Scopelliti, il loro sarebbe stato un caso di ricongiungimento familiare. Accolto con esultanza dalla pattuglia dell'Ncd calabrese: «Il senatore Gentile potrà rafforzare la filiera degli investimenti con la Regione, saprà farsi portavoce della necessità di portare a rapido compimento i lavori sull'A3, di proseguire con l'Alta Velocità e con la realizzazione dei punti ferrati...», lo avevano festeggiato i senatori Piero Aiello, Antonio Caridi, Paolo Naccarato, Nico D'Ascola e Giovanni Bilardi, restituendo all'Ncd il tratto distintivo, la ragione sociale: le grandi opere, la gestione della spesa pubblica. Gentile è stato costretto a dimettersi, ma è solo un incidente di percorso, ha precisato Schifani, «la nomina è solo sospesa». E la partita è appena all'inizio: un derby tutto interno al centrodestra, contro gli ex fratelli di Forza Italia, palmo a palmo, consigliere per consigliere, voto su voto. Al Senato è arrivato l'ex sindaco di Milano Gabriele Albertini (che però aveva già lasciato il Pdl per candidarsi con Scelta Civica), dato in uscita per tornare a Arcore il deputato lombardo Maurizio Bernardo. In Veneto quattro assessori e due consiglieri regionali che erano passati con Alfano sono tornati da Berlusconi.
Una contesa che si farà drammatica con l'avvicinarsi delle elezioni europee, in cui si vota con le preferenze e si candideranno tutti i big, affiancati dai portatori di voti. Scarsi gli esterni, tipo il consigliere del Csm Nicolò Zanon («Siamo in diecimila alla convention, nessuno potrà negare che è nata una forza politica nuova», twitta felice). L'Ncd può contare sulla macchina elettorale di Comunione e Liberazione, rappresentata dal ministro Maurizio Lupi, dall'ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, neo-tesoriere del partito, dall'eterno Roberto Formigoni appena rinviato a giudizio insieme ad alcuni nomi storici del movimento milanese (Antonio Simone, Nicola Senese, Alberto Perego), dal sottosegretario all'Istruzione Gabriele Toccafondi, fiorentino come Renzi. Ma i veri bacini elettorali sono da Roma in giù: in Puglia c'è il super-votato Massimo Cassano, 19mila preferenze alle ultime regionali, nemico del lealista berlusconiano Raffaele Fitto, nel Lazio la pattuglia degli ex An Vincenzo Piso, Andrea Augello e Barbara Saltamartini, oltre al ministro Beatrice Lorenzin e al potente Gianni Sammarco, cognato di Cesare Previti, in Campania, Calabria e Sicilia ci sono le roccaforti di Angelino che devono trascinare il partito a raggiungere il quorum.
Questione di vita o di morte. Non c'è golden share che possa reggere senza passare la prova elettorale, perfino in un sistema politico arretrato come quello italiano, dove i voti, come le azioni, si pesano e non si contano e in cui il virtuale Ncd di Alfano può atteggiarsi a partito-chiave del governo Renzi. Senza quorum l'Angelino esultante rischia di finire stritolato nella morsa di Renzi e Berlusconi. Troppo potere, senza consenso. (Marco Damilano - l'Espresso)
Scritto il 07 marzo 2014 alle 23:07 nella Politica | Permalink | Commenti (2)
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Non esiste nessun testo scritto sulla fine del bicameralismo perfetto. Per ora Berlusconi e il premier concordano soltanto sui presupposti: il "nuovo" palazzo Madama dovrà essere non elettivo e non dovrà votare la fiducia al governo
«Dobbiamo eliminare il senato per come lo conosciamo. Questa riforma è la chiave di tutto e qui mi gioco la vittoria di una scommessa», ammette il rischio Matteo Renzi. «Non mi dispiacerebbe passare alla storia come ultimo presidente di questo tipo di senato, ma… staremo a vedere», dice un perplesso Pietro Grasso. Pregiudizio d’ufficio connesso al ruolo di presidente dell’assemblea di palazzo Madama? Può darsi. E però, a confortare in qualche modo lo scettiscismo di Grasso, c’è il fatto che su un punto concordano tutte le versioni riferite da chi ha finora partecipato, da una parte e dall’altra, alle trattative tra Pd e Forza Italia: «Sulla riforma del senato e su quella del Titolo V siamo praticamente all’anno zero».
Ma se questo è davvero lo stato dell’arte, su cosa si sono basate fino ad oggi le dichiarazioni incrociate di Renzi («Sulla riforma del senato c’è un accordo tra i principali partiti») e di Berlusconi («Abbiamo concordato sulla riforma del senato, c’è l’esigenza immediata e assoluta di una sola camera che approvi le leggi»)? Sulla convinzione, concordano le fonti democratiche e quelle forziste, che un’intesa sia raggiungibile a partire da un solido presupposto condiviso. «Non c’è nulla di scritto, salvo l’intesa sul principio che il senato non deve essere elettivo e che non deve votare la fiducia al governo», puntualizzano da parte del Pd. «Quanto al versante Titolo V c’è già un sostanziale accordo sulle materie che dovranno essere di competenza delle regioni e dello stato centrale. Lì eravamo e lì siamo rimasti. Non c’è altro», aggiunge uno dei negoziatori di parte forzista, perché le due riforme – senato e riordino delle competenze regionali – marciano a loro volta di pari passo, fondandosi necessariamente l’una sull’altra.
Ma qui cominciano le grane. Perché a sentire il parere di uno dei presentatori delle tre proposte di riforma costituzionale del senato finora assegnate alla commissione affari costituzionali di palazzo Madama, il bolzanino Karl Zeller, presidente del gruppo autonomie, «se c’è un punto su cui la maggioranza dei senatori concorda è invece che il senato deve essere elettivo». Allo stato, oltre alla proposta di legge Zeller che introduce il senato federale eletto dalle assemblee regionali e dai consigli delle autonomie locali, in commissione ci sono i testi presentati dal democratico Ruta, che abolisce il senato tout court, e più recentemente dal leghista Calderoli che attribuisce alla camera l’esclusività del rapporto di fiducia con il governo e al senato la rappresentanza degli enti territoriali e il rapporto con le istanze sovranazionali. In sostanza: la legislazione alla camera, la sussidiarietà al senato.
Ma quel che c’è conta fino a un certo punto. Conterà, invece, il testo che Renzi da segretario del Pd, a fine gennaio, aveva annunciato sarebbe stato presentato di lì a poco. La crisi del governo Letta, l’incarico, la nomina di Renzi a presidente del consiglio hanno ritardato quella tabella di marcia. «Senato non elettivo, senza indennità, 150 persone – 108 sindaci di capoluogo, 21 presidenti di regione e 21 esponenti della società civile – cooptati dal presidente della repubblica», è l’idea di Renzi. In attesa di conoscere le proposte di Forza Italia, Ncd di Angelino Alfano coltiva già tutt’altre idee: vuole eleggere 210 senatori, che non voterebbero la fiducia, agganciandoli al voto per le assemblee regionali. «Così sarebbe il caos, si complicherebbero ancora di più le cose. Sarebbe il modo migliore per non concludere nulla», taglia corto Zeller.
Primissime schermaglie. Eppure c’è già chi sussurra che proprio sul punto d’intesa Renzi-Berlusconi apparentemente non negoziabile del senato non elettivo si troverebbe un compromesso: siano pure eletti ma ridotti a 150 e, soprattutto, ben sganciati dal voto di fiducia al governo.
Ormai la legge elettorale (ricordate quando il renzino affermava di "aver fatto in otto giorni ciò che gli altri non erano stati capaci di fare in otto anni"?), è un fatto "quasi compiutissimo". Ormai c'è il disaccordo completo quasi su tutto, tranne che sul fatto che nessuno vuole andare a votare, o almeno creare le condizioni per poterlo fare, just in case... E che con questa non-legge renzino si è incollato a quella poltrona che proprio non voleva, almeno per i prossimi 2/3 anni. Come s'offre...
Tafanus
Scritto il 07 marzo 2014 alle 07:59 | Permalink | Commenti (4)
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Di giovane c'è sempre il solito movimento - tweet, IPad, battute, film, interviste a mensili patinati, che però da giovanili che sono si trasformano sempre più in giovinate dell'immagine, mentre il premier politico invecchia a vista d'occhio. È in atto un effetto Dorian Gray per Matteo Renzi, fra l'entusiastico leader del cambiamento e lo statista già un po' appesantito che si disvela in questi primi giorni.
Il contatto del mirabile ragazzo con la realtà è parso duro fin dai primi attimi, rovinati dalla sfortunata coincidenza fra il primo weekend di governo e la peggiore crisi militare in Europa da un paio di decenni. La cautela lì si è vista subito - né tweet né messaggi al popolo e nemmeno mediatici affacci. Un cautissimo silenzio ha avvolto il di solito loquace governo. Riserbo da prudenza - il vertice fra premier e i due ministri,
Difesa ed Esteri, è arrivato solo alla fine della domenica, buon ultimo dopo che tutti, Onu, Nato, americani ed europei si erano già espressi sull'operato della Russia. E anche con tutta la cautela usata, la nostra posizione è stata così poco chiara fra Putin e il resto del mondo che abbiamo dovuto precisare e poi precisare sulla precisazione, per dire che siamo ancora in campo occidentale.
Non che tutto questo sia stato sia colpa del governo. L'Italia è da anni nella singolare posizione di essere con il portafoglio a favore di Putin e con le idee a favore dell'Occidente. Quando c'era Berlusconi questa divaricazione la sinistra italiana l'ha cavalcata fino al grottesco (ricordate il "lettone di Putin"?). Ne ha fatto le spese, anche se in forma minore, Enrico Letta, unico leader occidentale presentatosi a Sochi a dispetto delle "buche" date a Putin dagli alti leader occidentali. Renzi però ha avuto la sfortuna di trovarsi a confrontare la nostra singola più difficile questione di politica estera, appena ha cominciato a camminare. E lì abbiamo subito visto un altro Renzi, quello che, di fronte al primo bagno di realtà, ha cominciato a virare verso le sponde sicure della politica e dei ruoli tradizionali, per subito rifugiarsi con educazione sotto la tutela del presidente della Repubblica: cappottino grigio e aria seria, all'inizio dell'anno accademico dei nostri Servizi Segreti, un passo indietro al Presidente, ha pronunciato ai vertici della nostra intelligence un discorso scritto.
Dalle mani in tasca al discorso preparato (è arrivato finalmente nello staff qualcuno che scrive?): una vera e propria educazione sentimentale per il nostro premier, potremmo dire. Senonché, la vecchiaia in politica non è certo quella dei modi (e chissene delle mani in tasca), ma della sostanza.
Ed eccoci qui, a pochi giorni dall'inizio dell'era del ringiovanimento italiano, a prendere atto di una tripla mossa di illusionismo parlamentare. Quell'Italicum il cui pirotecnico passaggio è stato fin qui la base per giustificare l'arrivo al potere senza voto del Premier, proprio quell'Italicum eccolo cadere e rinascere modificato in altra forma e in altri scopi ancora prima che arrivasse in discussione alla Camera. E con un accordo ancora una volta fatto senza nessun ruolo dei parlamentari, ma per vie dirette fra il premier stesso, Alfano e Berlusconi.
Pratica molto tradizionale, non vi pare?, questi rapporti fra vertici di partito. E non mi dite che si è sempre fatto così perché questo è esattamente il punto: Renzi aveva promesso a tutto il paese di rottamare la vecchia politica, di cambiare il modo di far funzionare il paese, per questo ha vinto le primarie. La soluzione finale di questi accordi è stata - e non sorprende - la produzione di una di quelle immaginifiche formule tanto in voga in tutte le nostre varie repubbliche: una legge elettorale che vale solo per una camera "tanto il Senato lo dobbiamo abolire", un "Italicum a metà" che degnamente può compararsi all'audacia intellettuale delle "convergenze parallele".
La parola ora torna, come sempre, ai costituzionalisti. Ma davvero vorrei capire se sia sensato, ancora prima che legittimo, fare una riforma a-la-carte, per un elettorato sì e un altro no. Dal punto di vista politico il risultato però è chiaro. L'Italicum a metà salva molti interessi. Renzi nel giorno della approvazione potrà dire di aver mantenuto la promessa ed di aver fatto la "rivoluzione" di una nuova legge elettorale. Ma, se per andare al voto si dovrà poi aspettare la abolizione del senato, cambiando la Costituzione, ci andremo sicuro molto in là. Il più in là possibile - quel 2018 cui il giovane Renzi ambisce diventa così un arco possibile di legislatura.
È un bellissimo salto mortale, una splendida manovra parlamentare per ottenere tutto e non pagare prezzo. Il sogno, insomma, di ogni leader politico da quando la politica ha cominciato a camminare. Renzi si conferma così ogni giorno un po' di più un leader tradizionale. Dopo aver promesso di cambiare il sistema, rottamare la vecchia politica, è arrivato al potere senza il voto, per poi prolungare a colpi di manovre parlamentari la sua permanenza in questo potere. I renziani che hanno creduto in lui, i cittadini che gli hanno dato fiducia (io tra questi) sono (siamo) contenti?
(Fonte: Lucia Annunziata - The Huffington Post)
(Credits: Segnalato da Nonna Mana)
Cara Signora Annunziata,
benvenuta fra di noi. Noi comuni cittadini che - pur non disponendo delle sue attrezzature culturali e giornalistiche - di chi fosse Renzi, a cosa tendesse, con quali strumenti e quali obiettivi, e con quale totale assenza di cultura economica e di etica politica, lo predichiamo fin dalla prima "Leopolda", quando il nuovo guretto andava a cena di nascosto da Berlusconi, e il "ghost-writer" prescelto si chiamava Giorgio Gori, provenienza "Grande Fratello". Mi creda, non erano necessarie le capacità previsionali del "Frate Indovino" per capire dove saremmo andati a parare. Ora lo ha capito persino lei.
Non possiamo quindi che darle il benvenuto fra coloro che fin dalla seconda elementare sono in grado di calcolare che due più deve spesso deve fare quattro.
Tafanus
Scritto il 06 marzo 2014 alle 16:11 | Permalink | Commenti (4)
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"Battiam battiam le mani, arriva il Direttor"
Grande Orchestra del Maestro Cinico Angelini
Cantano: Gino Latilla e Carla Boni
Il canto servile dei poveri figli di Siracusa (di Francesco Merlo)
La canzone era così stupidamente servile che avrebbe messo in imbarazzo persino i nordcoreani. Perciò il giovane Renzi, che ha fama di disobbediente (“sono un po’ bullo” diceva di sé, ricordate?), avrebbe dovuto fermare, liberare, fare discoli e mandar fuori a giocare al pallone quei poveri figli di Siracusa che gli cantavano “facciamo un salto / battiam le mani / muoviam la testa/ facciam la festa”.
Diciamolo più chiaro: se fosse stato ancora lo stesso che, appena eletto segretario, scelse come inno “Resta ribelle” dei Negrita, Renzi avrebbe certamente intonato “prendi una chitarra e qualche dose di follia / come una mitraglia sputa fuoco e poesia”. E, con l’incitamento a contestare e a irridere i maestri, avrebbe coperto quei miagolii che dai maestri erano stati imposti: “presidente Renzi, da oggi in poi / ovunque vai, non scordarti di noi”
Non l’ha fatto e l’Italia intera lo ha visto ubriaco di lusinghe. Ha cominciato ad abbracciare tutti e “facebook non vale un abbraccio” ha detto, e pensate quanto sarebbe stato renzianamente bello sentirgli invece dire: “disobbedite, se volete il mio abbraccio”. Anche quel vezzo stucchevole di farsi chiamare Matteo più che da sindaco d’Italia sta diventando un tic da televisivo, non statista in versione Vasco Rossi ma imbonitore in formato Antonella Clerici, quella di “Ti lascio una canzone” che è appunto la fiera del bambino da salotto, tutto moine e mossette, che nessuno, soprattutto a sinistra, vorrebbe avere per figlio.
C’era in più, in quella filastrocca cortigiana, anche il tentativo del glamour, con il clap and jump, e persino con il blues, la disposizione in semicerchio, il gioco perverso di regolare gli evviva e gli applausi, la fatica ruffiana di tradurre e adattare un testo inglese. Tutto questo per aggiungere charme al solito immaginario canoro degli italiani: una spruzzatina del Sanremo di Fabio Fazio sui bimbi-scimmiette del Mago Zurlì. Ecco il punto: Renzi ha tutto il diritto di girare le scuole d’Italia, se è questa la sua cifra di politica popolare, ma per cambiarle, come aveva promesso, e non per degradarle a serbatoi delle sue majorettes.
Capisco che qui è facile il paragone con l’uso dei bambini nei totalitarismi, sul quale infatti si è banalmente esibito Beppe Grillo: i figli della lupa, gli avanguardisti della ventisettesima legione che salutavano il duce intonando Giovinezza, oppure “i battaglioni della speranza”, ragazzini dai dodici a quattordici anni che cantavano nelle parate dell’Est europeo. La verità è che anche in democrazia troppo si abusa dei giovanissimi, perché fa un sacco bello lasciare che i bambini vengano a noi e, come ha scritto Milan Kundera, “nessuno lo sa meglio degli uomini politici: quando c’è in giro una macchina fotografica si precipitano verso il bambino più vicino per sollevarlo in aria e baciarlo sulla guancia”.
A Siracusa dunque non c’è stata la manipolazione sordida tipica dei regimi ma la paideia, il tentativo di ridurre i bambini a protesi ornamentale, di formarli alla piaggeria e all’adulazione: “non insegnate ai bambini la vostra morale /è così stanca e malata potrebbe far male” cantava il Gaber citato da Renzi persino nei libri. Gaber li vedeva cantare e battere le mani e pensava che facessero “finta di essere sani”, Renzi invece li ha passati in rassegna dando a tutti il cinque.
Ma ieri a Siracusa ho visto di peggio. Un retroscena rivela infatti che nell’esibizione di quella scuola di borgata, vicina alla chiesa di Lucia, santa e sempre più cieca, non c’è stato solo l’accanimento politico – e ridicolo – del sindaco Giancarlo Garozzo. Ecco il colpo di scena: la preside Cucinotta, che è la vera regista responsabile dello spettacolino, e la sua vice Katya De Marco sono accanite militanti di Forza Italia. E dunque io, che da quelle parti sono nato, ci ho visto soprattutto la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale dello zio d’America, e mi sono ricordato che Silvio Berlusconi a Lampedusa fu accolto come un messia, come un conquistador. Perché sempre così viene salutato l’uomo potente che viene da fuori, l’uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore, un presidente del consiglio o non importa chi, purché venga appunto da fuori.
Renzi si rilegga, per risarcire l’Italia, Carlo Levi che racconta di quel tal Vincent Impellitteri che – cito a memoria – tornato dall’America, entra in paese (era la provincia di Palermo e non di Siracusa) su una lussuosa macchina scoperta, ed è accolto dalla gente in festa che lo tratta come uno sciamano: “’Tuccamu a machina, così ce ne andiamo in America’ gridavano i ragazzi del luogo”. Ebbene, Impellitteri non solo non li abbraccia e non dà loro il cinque. Ma si addolora e si rattrista al punto che si mette a piangere.
Così recitava il testo della canzoncina Arriva il Direttore negli anni Cinquanta, portata al successo da Carla Boni e Gino Latilla, dal Quartetto Cetra e da Natalino Otto. (Fonte: The FrontPage)
Scritto il 06 marzo 2014 alle 14:08 nella Politica, Renzi, Satira | Permalink
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Facciamo un salto... battiam le mani...
Muoviam ta testa... facciamo festa...
A braccia aperte ti diciamo "Benvenuto al Raiti!"
I bambini... gli insegnanti... i bidelli...
E poi l'orchestra lascerem improvvisar così...
...piripippi ppi...
Siamo felici... e ti gridiamo...
Da oggi in poi... dovunque vai...
Tu non scordarti di noi
Dei nostri sogni... delle speranze...
Che ti affidiamo, con fiducia, oggi a ritmo di blues
Le ragazze... I ragazzi... Tutti insieme
Alle tue idee e al tuo lavoro affidiamo il futuro
...piripippi ppi..
E poi di nuovo... Ancora insieme...
Noi camminiamo... Ci avviciniamo...
E un girotondo noi formiamo
sempre a tempo di blues
la nostra maestrina
con la più gran disciplina
tutti faceva filar
lei ci metteva in riga
gridando “fate attenzion
adesso marcerete
cantando questa canzon”
Battiam battiam le mani
arriva il direttor
battiam battiam le mani
all’uomo di valor
gettiamo tulipani
e mazzolin di fior
cantiamo tutti in coro
evviva, evviva
ed una coppa d’oro
doniamo al direttor.
E finalmente a vent’anni
dicemmo è finita
ora ci porta la vita
giorni di felicità
ma presto tutti quanti
dovemmo constatar
che per andare avanti
sempre si deve cantar
Battiam battiam le mani
arriva il direttor…..”
Scritto il 06 marzo 2014 alle 08:14 | Permalink | Commenti (16)
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Qualcuno avverta Renzi che la campagna d'inverno per la presa del palazzo è finita. Basta slogan, e basta voli di stato per andare a recitare Rio Bo coi bambini. Con quello che stai spendendo per queste "TV opportunities" a Treviso e in Sicilia, avresti già ristrutturato due scuole. Coi muratori, e non con le minchiate.
Coso, sei tu che devi "Cambiare Verso"
Scritto il 05 marzo 2014 alle 20:03 nella Renzi | Permalink | Commenti (5)
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Scritto il 05 marzo 2014 alle 00:18 | Permalink | Commenti (7)
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Qualche giorno fa (qualcuno forse se ne ricorderà) avevo scritto alcune righe di lodi a Scalfari, che poteva concedersi il lusso di scrivere un'articolessa molto critica su Renzi e il renzismo, su un giornale che era stranamente molto morbido su un tipo di personaggio che in altri tempi Repubblica avrebbe massacrato. Ovviamente mi chiedevo perchè. Ora, lentamente, le ragioni della morbidezza di Repubblica cominciano ad emergere. E si chiamano, forse, "crisi della Sorgenia". A pensar male, si fa peccato, ma spesso si indovina...
I nudi fatti - Sa qualche tempo, si parla in termini sempre più allarmanti della crisi finanziaria e della situazione debitoria della Sorgenia, società elettrica del gruppo De Benedetti. Debiti che hanno raggiunto 1,9 miliardi di euro, consumi in calo, e Sorgenia sbilanciata su centrali vecchie, spesso a carbone, con una bomba ad orologeria come quella della centrale di Vado Ligure (avete presenti quelle due enormi ciminiere a strisce bianche e rosse, tanto care a noi marinai della domenica, perchè erano due fantastici "punti cospicui" sui quali calcolare il punto-nave quando i satellitari cartografici costavano una fortuna?).
Sorgenia per essere salvata ha urgente bisogno di almeno 600 milioni di euro a brevissimo termine, per coprire le più urgenti richieste di rientro da parte delle banche ersposte con la CIR di De Benedetti, padrone di Repubblica. Praticamente tutto il risarcimento che a De Benedetti proviene dalla vittoria della causa con Berlusconi sul Lodo Mondadori... Può darsi che a breve la Sorgenia possa salvarsi solo con aiuti - propri o impropri - da parte dello Stato. Quindi con Renzi non si può sparare troppo ad alzo zero.
Il Corrierone, praticamente unico concorrente del gruppo Repubblica-Espresso, sente l'odore del sangue, e domenica pubblica, a firma Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo sull'affaire Sorgenia, di cui riportiamo in calce i passi salienti.
Debiti per 1,9 miliardi: l’aiuto dello Stato è una possibilità già diventata un caso politico - Il premier, Sorgenia e il salvataggio pagato dallo Stato - Il nodo della remunerazione pubblica per le centrali del gruppo De Benedetti (di Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo - Corriere.it)
Si chiama in gergo tecnico capacity payment, ed è un salvagente formidabile per quanti oggi producono ancora energia elettrica con il gas: a causa del boom delle energie rinnovabili e della crisi economica che ha affossato i consumi di energia le loro centrali restano spente la maggior parte del tempo. E i bilanci vanno a picco. Ecco allora spuntare quella miracolosa formula inglese, che si può tradurre così: i proprietari degli impianti termoelettrici vengono pagati lo stesso anche se le turbine non girano, semplicemente perché potrebbero produrre. Una specie di imposta sulla riserva di capacità produttiva che entrerebbe in azione quando ce ne fosse la necessità, in grado di dare un bel sollievo ai conti malandati di alcuni produttori. Quella tassa esiste già, ma i produttori vogliono molto più dei 150 milioni del vecchio capacity payment. Secondo Assoelettrica ed Energia Concorrente, per tenerli a galla servono almeno 600 milioni l'anno fino al 2017. L'hanno scritto in un dossier di una decina di pagine spedito nelle stanze che contano con la dicitura «Riservato».
Chi sta peggio di tutti è Sorgenia, gruppo che fa capo alla Cir di Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e del gruppo L'Espresso. Si trova a un passo dall'avvitamento finanziario: fra tre settimane finirà i soldi in cassa. Il debito sfiora quota 1,9 miliardi. A metà degli anni duemila le banche le avevano concesso generosi finanziamenti per realizzare centrali a turbogas. Ma allora il mercato tirava. Poi, in soli cinque anni, è cambiato tutto. Alla crisi economica e al boom delle rinnovabili si è aggiunto l'alto costo dei contratti di acquisto del gas a lungo termine, i cosiddetti take or pay . Risultato: con una produzione ridotta al 20 per cento e un debito diventato insostenibile per almeno 600 milioni, nel solo terzo trimestre 2013 Sorgenia ha messo a bilancio una perdita di 434 milioni: cento in più di quanti De Benedetti ne abbia incassati da Silvio Berlusconi dopo la sentenza sul caso Mondadori.
E qui si apre uno scenario incandescente. Con tre protagonisti: il premier, l'editore di Repubblica e il suo avversario di sempre, Berlusconi [...] Rispettando il gioco delle parti, da settimane i giornali e i commentatori della destra non danno tregua a De Benedetti, individuato come il manovratore occulto del governo di Matteo Renzi. E non soltanto da loro, se è vero che «il Secolo XIX», certo non un quotidiano berlusconiano, raccontando come ai colloqui per il governo avesse partecipato nella delegazione socialista Vito Gamberale, amministratore del fondo F2i; «in trattativa con il gruppo «L'Espresso» per il nuovo operatore delle frequenze digitali», commenta: «Una presenza che non contribuisce ad allontanare l'ombra di De Benedetti dal tentativo di Renzi».
Tutto parte dall'ormai famosa telefonata di Fabrizio Barca con l'imitatore di Nichi Vendola mandata in onda dalla «Zanzara», in cui l'ex ministro parlava delle pressioni subite «dal padrone di Repubblica, con un forcing diretto di sms, attraverso un suo giornalista» per accettare l'incarico di responsabile dell'Economia. Ma poi la cosa dilaga. Il tam tam è inarrestabile. Intervistato dal giornale online ilsussidiario.net, l'economista Francesco Forte, editorialista del «Foglio» di Giuliano Ferrara, si chiede: «Non è un caso che la nomina di Renzi sia arrivata, con un'accelerata, nel momento delle nomine? Lui, forse, quest'accelerata, non la desiderava neanche ma ora sarà tenuto a renderne il servizio...» E dopo che «Repubblica», a poche ore di distanza dalla formazione del governo, ha puntato il dito contro il conflitto d'interessi del ministro dello Sviluppo, l'ex presidente dei giovani di Confindustria Federica Guidi, stigmatizzandone anche le presunte simpatie berlusconiane, il «Giornale» della famiglia Berlusconi titola: «Repubblica attacca la Guidi per i debiti di De Benedetti». Sottolineando proprio la difficile situazione di Sorgenia.
Il fatto è che questa vicenda è destinata a incrociare tanto la strada del governo Renzi quanto quella delle prossime nomine pubbliche nelle aziende di Stato. E magari anche quella del Cavaliere. Ma qui è necessario fare un passo indietro, tornando alle ultime settimane del governo di Enrico Letta. Le pressioni della Confindustria perché si risolva quel problemino dei produttori termoelettrici sono incessanti. Finché nella legge di Stabilità spunta una norma che apre la strada proprio a quella formuletta inglese: «capacity payment».
Fissando però soltanto il principio: a stabilire quanti soldi e a chi concretamente andranno, toccherà al Ministero dello Sviluppo, sentita l'Authority, entro la fine di marzo 2014. Al ministero c'è il bersaniano Flavio Zanonato, attorniato da altri bersaniani. Il segretario generale è Antonio Lirosi e il capo di gabinetto Goffredo Zaccardi, che aveva lo stesso incarico con Pier Luigi Bersani: il quale non può certo essere considerato nemico di De Benedetti. Anzi. Sorgenia esiste proprio grazie alle liberalizzazioni introdotte
dall'ex ministro dell'Industria Bersani. E ora il salvataggio è nelle mani di Renzi e Guidi.
Il nemico rischia di essere il tempo. Le banche hanno chiuso i rubinetti, il socio austriaco Verbund non vuole più tirare fuori un euro e Rodolfo De Benedetti, il figlio di Carlo, è disposto a mettere nel buco nero soltanto un centinaio di milioni. Il rischio di dover portare i libri in tribunale è reale. E l'eventuale fallimento non risparmierebbe le banche, la cui esposizione è vertiginosa. Tanto che queste stanno valutando la possibilità di trasformare parte dei loro crediti in capitale, ripetendo il copione già sperimentato con l'immobiliare Risanamento di Luigi Zunino e con la Tassara di Romain Zaleski. Se ne parlerà domani a un vertice forse decisivo. Ben sapendo due cose.
La prima: senza l'aiutino dello Stato Sorgenia rischia comunque di andare a picco, come riconosce lo stesso piano finanziario della società.
La seconda: la soluzione definitiva è la cessione del gruppo energetico che fa capo a De Benedetti.
E di candidati italiani con le spalle abbastanza grandi non ce n'è che uno. L'Eni di Paolo Scaroni: un manager che nel 2002 è stato designato alla guida dell'Enel e che poi è stato nominato per ben tre volte ai vertici del grande gruppo petrolifero ancora controllato dal Tesoro. Cementando anche attraverso l'assidua presenza dell'Eni in Russia i rapporti tra l'ex premier Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. Corre voce che nei colloqui con Matteo Renzi il Cavaliere abbia chiesto (e ottenuto?) un impegno a preservare, con le nomine che il governo dovrà fare nelle prossime settimane, le posizioni di Scaroni e dell'attuale capo dell'Enel Fulvio Conti all'interno del sistema delle grandi aziende pubbliche (...su questo punto, avremo una verifica a brevr scadenza... i tempi stringono. NdR)
Da una parte il capacity payment rinforzato. Dall'altra l'intervento successivo dell'Eni. Gli ingredienti per uno dei classici feuilleton all'italiana, nei quali la politica e gli affari si amalgamano in un abbraccio incestuoso, ci sono tutti. Con effetti pirotecnici a cascata. Perché se trasformando i crediti in azioni le banche diventeranno proprietarie di Sorgenia, magari lo Stato, attraverso l'Eni, darà un aiutino determinante anche a loro. Il secondo, dopo quello della rivalutazione delle quote di Bankitalia che ha fatto imbestialire i grillini. La prima della lista, la più esposta di tutte? Il Monte dei Paschi di Siena, nelle mani di una fondazione già a trazione Pd...
Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo
Dunque, tutto chiaro "as fresh water"? Non proprio. Perchè nell'articolo del Corrierone, ci sono molte verità, ma anche molte "dimenticanze" sospette. Prendiamo un articolo di Carlo Stagnaro, ingegnere-ambientalista, che smentisce parzialmente l'obiettività e l'autorevolezza dell'articolo di Massaro e Rizzo. L'articolo di Stagnaro, tratto da "linkiesta.it", è particolarmente affidabile anche perchè Stagnaro scrive su molti giornali, fra i quali molti "vicini al berlusconismo (Il Giornale, Libero, Il Foglio, Il Tempo), e quindi dobbiamo dedurre che non è propriamente un amico di Carlo De Benedetti. Ma riesce ugualmente ad individuare alcune "attenuanti tecniche" in favore di De Benedetti. Leggiamo alcuni passi:
Sorgenia e gli aiuti di Stato al mercato elettrico - Non solo l’azienda Cir: ecco come in Italia il libero mercato dell’energia esiste solo a parole (Fonte: Carlo Stagnaro - linkiesta.it)
Il mercato elettrico si trova oggi in mezzo al guado: liberalizzato ma non troppo, ancora nell’orbita dello Stato ma non del tutto. In questo post si cerca di fare un po’ d’ordine, partendo da Sorgenia, E.On, capacity payment e l’immancabile Cdp. Un lungo articolo di Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo, pubblicato a tutta pagina sul Corriere della Sera di domenica, mette sotto i riflettori la crisi di Sorgenia, società a cui restano sì e no tre settimane di liquidità e per la quale si sta cercando insistentemente una qualche “soluzione di sistema“. Massaro e Rizzo descrivono abbastanza fedelmente la situazione, ma ci montano troppa panna politica attorno, e in tal mondo sviano l’attenzione sia dalle ragioni vere delle difficoltà di Sorgenia, sia dal più generale cambiamento di fase che sta travolgendo l’intero settore elettrico. Fare un minestrone tra Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi, Vito Gamberale (!) e Matteo Renzi, presentare il discusso meccanismo di capacity payment come un aiuto di Stato a Sorgenia, ricamare sulla telefonata rubata a Fabrizio Barca, non aiuta a fare chiarezza e, anzi, dà a tutto un’allure fumettistica che non giova a nessuno.
Massaro e Rizzo, in particolare, si sono persi due elementi, ed è un peccato perché questo rende monca la loro ricostruzione dei fatti, di per sé corretta.
Il primo è la storia del disimpegno di un altro importante operatore, la tedesca E.On, che da tempo ha annunciato di voler abbandonare il nostro paese: Sorgenia, insomma, ma non solo Sorgenia. Non appena la notizia – nell’aria da un po’ – ha assunto dimensione pubblica, sono immediatamente fioccate le manifestazioni di potenziale interesse e le smentite. Pian piano però si è fatta strada l’ipotesi di un coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti. La Cdp funziona così: prima “gira la voce”, poi la voce si fa insistente, quindi viene smentita, infine l’operazione si realizza in un amen (citofonare Ansaldo energia).
Il secondo elemento che è sfuggito all’attenzione di Massaro e Rizzo è la causa dell’impasse di Sorgenia. Certo, l’azienda ha perseguito una politica di espansione aggressiva di cui oggi paga il conto: ha attivato impianti quando la condizione di over capacity del sistema elettrico italiano era ormai un fatto (anche se, quando l’iter per la loro realizzazione era stato avviato, lo scenario era ben diverso), ed è in tal modo rimasta travolta dalla crisi dei consumi. Tuttavia, Sorgenia non paga dazio solo alla recessione, che pure è un elemento cruciale nella vicenda. I consumi elettrici nel 2013 sono crollati ai livelli del 2003, proprio in chiusura di un ciclo di investimenti, iniziato nei primi anni 2000, che ha portato a un completo rinnovo del parco di generazione. L’andamento macroeconomico è un fattore largamente esogeno al mercato elettrico, e come tale non controllabile. Eppure, è fondamentale, per capire Sorgenia, rendersi conto che nel 2012 il parco elettrico italiano poteva contare su una potenza efficiente lorda media pari a 124 GW, contro una domanda di picco (10 luglio 2012 alle ore 12) di 54 GW. La capacità produttiva era più che doppia rispetto al massimo carico domandato dalla rete.
La crisi economica, dunque, ha indebolito Sorgenia (ed E.On e tutti gli altri: nessuno sta troppo bene, oggi, nell’industria elettrica). Ma la vera malattia del settore elettrico, e in particolare dei generatori convenzionali, ha un altro nome: si chiama “politica industriale”, o “politica energetica”, o qualunque altra espressione a vostra scelta purché contenga la parola “politica”. Il boom delle fonti rinnovabili, sulla scia di sussidi generosissimi, ha fatto crescere la capacità di generazione “verde” da 24 GW nel 2008 (di cui quasi 18 GW vecchio idroelettrico) a 47 GW nel 2012. Le fonti rinnovabili godono di “priorità di dispacciamento”, vale a dire che l’energia elettrica da esse generata può “scalzare”, sulla rete, quella di origine termoelettrica. Per di più sono remunerate, per mezzo degli “incentivi”, a condizioni che ne rendono certa la competitività. Domanda virtualmente illimitata più prezzi ben al di sopra dei costi di produzione non potevano che produrre una tendenza dell’offerta a dilatarsi indefinitamente, almeno fino al giro di vite sugli incentivi avvenuto nel 2012.
Risultato? Da un lato, le rinnovabili hanno ridotto le dimensioni del mercato contendibile, in questo amplificando gli effetti della recessione: se nel 2008 i produttori convenzionali hanno potuto competere per servire circa 295 TWh (cioè la differenza tra una domanda lorda totale di 353 TWh e un 16% di produzione rinnovabile sussidiata), nel 2012 la loro “fetta” di mercato si era ridotta del 16%, ad appena 248 TWh (a fronte di una domanda lorda totale di 340 TWh e una produzione rinnovabile sussidiata di circa 92 TWh). In realtà l’area contendibile del mercato, se si considerano impianti essenziali, altre unità sussidiate come le centrali Cip6, i vincoli di rete, ecc., è ancora inferiore.
Dall’altro lato, l’esplosione delle rinnovabili non solo ha abbattuto i volumi: ha pure intaccato i margini. In virtù delle modalità di funzionamento della borsa elettrica, le fonti rinnovabili producono l’effetto di “tagliare” i prezzi di mercato dell’elettricità (in quanto si remunerano attraverso sussidi, e derivano solo una piccola parte dei propri ricavi dal valore dell’energia prodotta). Si tratta del cosiddetto peak shaving. Dal punto di vista dei produttori convenzionali, questo significa che la loro quota di mercato viene erosa proprio nelle ore più remunerative. Il conseguente aumento dei prezzi sulla borsa elettrica nelle ore serali, quando la produzione fotovoltaica crolla rapidamente e gli impianti termoelettrici devono salire con una rampa di produzione molto ripida, non basta a controbilanciarne l’effetto.
“E’ il mercato, bellezza”, in questo caso, è una spiegazione insoddisfacente. Perché non è certo imputabile al mercato lo sviluppo prepotente di un parco rinnovabile sovradimensionato ed extraremunerato. Un parco, per giunta, che produce seri problemi di gestione del sistema a causa della sua intermittenza, e che presuppone l’esistenza di capacità convenzionale in grado di fornire backup in qualunque momento sia necessario, ma con difficoltà sempre maggiori (salvo un’inattesa ripresa della domanda) a coprire i suoi costi fissi.
Il dibattito sul capacity payment va inserito in questo contesto. Con due ulteriori precisazioni. Primo: data l’attuale overcapacity non vi è, oggi e nel futuro prevedibile, particolare necessità di uno schema di remunerazione della capacità non utilizzata a fini di sicurezza del sistema. Secondo, e conseguenza: quello che noi chiamiamo capacity payment è, di fatto, per il modo in cui è congegnato e soprattutto per le sue modalità di finanziamento (a carico dei consumatori) la creazione dell’ennesima voce di stranded cost in bolletta. (Curiosamente, Massari, Rizzo e tanti altri non sembrano essersi accorti di una misura molto più scandalosa e molto più ad personam, perché va a sanare non costi fatti emergere da decisioni politiche, ma da errori nelle strategie di approvvigionamento delle singole aziende: il cosiddetto capacity payment gas).
In questo senso, è vero che si tratta di un parente stretto di un aiuto di Stato, ma è falso – rispetto al ragionamento di Massari-Rizzo – che sia pensato ad hoc per Sorgenia. Si tratta di un aiuto (o, meglio, un risarcimento) a un intero comparto industriale azzoppato da precise, colpevoli e conscie scelte politiche. Scelte politiche che furono esplicitamente finalizzate a regalare una rendita ai produttori rinnovabili e a colpire l’industria elettrica convenzionale. In tutto questo, chi ha recitato una doppia parte in commedia sono le banche: che per un verso sono state protagoniste del lobbying pro-sussidi verdi (essendosi accapparrate una buona fetta degli extraprofitti), per l’altro si trovano oggi nella scomoda posizione di creditori dell’industria tradizionale. Le parole di Giuseppe Mussari, che nel gennaio 2011 da capo dell’Abi parlò di una “bolla speculativa pronta a esplodere” nelle rinnovabili dove le banche “avevano fatto troppo”, sono molto sinistre se lette in retrospettiva.
La riflessione sul capacity payment è (o dovrebbe essere) soprattuto una riflessione sui disastri dell’intervento pubblico e della “politica industriale”. L’unica via d’uscita è imputare correttamente i costi di sistema: facendo in modo che siano le stesse fonti rinnovabili a coprire i costi di sbilanciamento causati dalla loro intermittenza, come peraltro chiede l’Autorità per l’energia. Questo intervento resta molto parziale, perché andrebbe a “tappare” i costi diretti ma non quelli indiretti derivanti dallo spiazzamento dei
produttori convenzionali causato dai sussidi pubblici. Ma, quanto meno, sarebbe una soluzione tecnicamente ragionevole, che darebbe (indirettamente) sollievo anche ai produttori convenzionali.
Ma, tornando al quadro più generale, è importante non leggere le vicende di Sorgenia, E.On e altre che potrebbero aprirsi come storie individuali. Queste parabole sono diverse, ma sono uguali. Sono uguali perché, seppure in modo differente, rendono evidente una criticità pesantissima nel nostro mercato, ossia l’eccesso di capacità produttiva che si è venuto a determinare. “Voi italiani – mi ha detto tempo fa un amico straniero, sintetizzando molto bene la questione – avete il parco di generazione più nuovo, più efficiente, più pulito, e più inutilizzato d’Europa”.
In sostanza, a fronte di un problema di natura in parte macroeconomica, ma soprattutto politica, si è venuta a creare una perversa coalizione di attori che chiedono il ritorno prepotente dell’interventismo pubblico. Ritorno, peraltro, che è già nei fatti dal punto di vista normativo, con le ultime invasioni di campo governative (contenute anche nel decreto Destinazione Italia) ai danni dell’Autorità per l’energia e del mercato. Ritorno, inoltre, che è un dato di fatto pesantissimo negli assetti proprietari: non solo i maggiori operatori di rete sono a trazione pubblica (Terna è controllata dalla Cdp, Enel Distribuzione fa capo a Enel che è controllata dal Tesoro, altre reti locali sono delle ex municipalizzate), ma anche nella parte liberalizzata del mercato il pubblico pesa. Nella generazione, la quota congiunta degli operatori pubblici sta attorno ai due terzi, nei mercati retail ancora sopra. La stessa Strategia energetica nazionale, per quel che vale, lascia poco spazio alla competitione e ritaglia un ruolo sempre più ampio alla pianificazione. Di privatizzare questi operatori, nessuno ne parla neppure nell’ambito della più ampia discussione sulle privatizzazioni che è in corso ormai da tre anni.In questo contesto, ulteriori passi avanti direttamente della Cdp o indirettamente attraverso Fsi o F2i segnerebbero il deciso, e forse decisivo, superamento di una barriera alla presenza pubblica. Un conto, infatti, era il continuo rimpallo di asset tra operatori comunque pubblici (Tesoro, Cdp, ex municipalizzate, ecc.). Altra cosa è il subentro di questi ultimi a operatori privati, quali E.On e Sorgenia.
Sebbene il sistema si trovi oggi in una fase critica e bisognosa di un serio aggiustamento, la soluzione non può venire dalla progressiva rinazionalizzazione. Purtroppo, assillati dai gravi problemi di breve termine, molti operatori stanno mettendo volontariamente la testa sotto la ghigliottina: più spingono per formule di remunerazione tariffaria e contro i rischi di un mercato libero, più si rendono inutili, marginalizzando il senso della competizione come strumento di “scoperta del prezzo”.
In un mercato che premia chi conquista clienti, la concorrenza è tutto. In un mercato che premia chi si posiziona meglio rispetto alle partite normative e regolatorie, alla fine qualcuno si chiederà perché mai un gioco del tutto interno al recinto delle decisioni pubbliche debba lasciare spazio ai privati. Le prossime mosse di Cdp & Co. potrebbero segnare l’abbandono – sostanziale, ancorché non formale – della concorrenza nel mercato elettrico. A riprova che non importa quanto bene intenzionate siano le politiche (i sussidi alle rinnovabili servivano a salvare l’orso polare dall’estinzione, no?): lo Stato è sempre un elefante, il mercato è sempre una cristalleria.
Scritto il 05 marzo 2014 alle 00:14 | Permalink | Commenti (2)
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...specchio, specchio delle mie brame...
...chi è il più "imbolsito" del reame?...
Sembra che dovremo tassarci, e regalare al bischero non solo una calcolatrice a pile (...sapete, per mettere i numeretti nel "Giobatta"...), ma anche un buon dizionario della lingua italiana. Come fiòrenzino non dovrebbe averne bisogno, visto che ha in casa le "facilities" per "risciacquare i panni in Arno". Ma parrebbe che da qualche tempo l'Arno sia alquanto inquinato, e non più capace di risciacquare alcunchè, e men che mai gli strafalcioni del suo "italfioringlese".
La mitica Mirta Merlino stamattina, facendo l'imitazione di se stessa, ci ha puntualmente informati sul contenuto del "primo tweet del mattino": "La legge elettorale è irreversibile".
Caro Renzino, si rilassi. Per la sintassi italiana, per l'analisi logica, per il Devoto-Oli, e per la semplice logica di qualsiasi persona alfabetizzata, una "entità" può essere "irreversibile" solo dopo l'inizio della sua esistenza in vita. In particolare, la sua "legge elettorale" (il c.d. "salvavita") potrà essere dichiarata "irreversibile" solo quando, approvata da Camera e Senato - senza modifiche - sarà controfirmata dal Presidente della Repubblica, e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Prima di questi passi, la sua legge salvavita è solo un pietoso cerotto (come il Giobatta). Se vuol parlare italiano, almeno salla. Ci sembrava di essere troppo pignoli, ma poi abbiamo scoperto che TUTTA la stampa online oggi la sua uscita sul salvavita "irreversibile" mette "irreversibile" fra virgolette, per meglio sottolineare lo strafalcione logico-linguistico.
Studi, Renzi, studi. Si applichi. Altrimenti rischia di diventare, da grande, esattamente com'è adesso. Tafanus
Il premier: sarà rivoluzione. Ultima mediazione sull’entrata in vigore dell’Italicum (Fonte: La Stampa)
La legge elettorale è «irreversibile. Ce la facciamo, la portiamo a casa. E sarà una vera rivoluzione». Così su Twitter, il premier Matteo Renzi risponde al direttore di Vanity Fair in merito alla frenata di FI sull’Italicum legato alla riforma del Senato.
Forza Italia frena sulla riforma del Senato vincolata alla legge elettorale: “Io ti salverò” o “Irreversible”?, chiede il direttore di Vanity Fair ponendo come opzioni di risposta i titoli delle due celebri pellicole. «Irreversible», risponde il premier sottolineando che quella delle riforme, «sarà una rivoluzione» per il Paese. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, risponde via Twitter alle domande “cinematografiche” del direttore di Vanity Fair: il rapporto tra Angelino Alfano e Silvio Berlusconi è Quasi amici o 12 anni schiavo? ’’Questa è cattiva, direttore. Diciamo quasi amici dai’’, ha risposto Renzi.
A poche ore dall’inizio delle votazioni in Aula alla Camera sull’Italicum, il premier cerca il punto di caduta che permetta di tenere in piedi l’intesa con Silvio Berlusconi, ma allo stesso tempo rispondere alle preoccupazioni del Nuovo Centrodestra e della minoranza Pd (...il colto senatur direbbe che Renzi "sta cdercando la quadra... NdR). «Siamo alla stretta finale, possiamo davvero portare a casa la legge elettorale entro la settimana», dice in serata ai suoi. E conferma che l’accordo è «alla portata», ma aggiunge che si devono «superare ancora varie difficoltà».
Il nodo attorno a cui ruota l’intera trattativa è ancora quello dell’entrata in vigore della nuova legge elettorale. Alfaniani e il fronte composito della minoranza dem, ma anche gli altri piccoli partiti della maggioranza di governo, chiedono che si vincoli l’entrata in vigore dell’Italicum alla riforma del Senato. E mettono sul piatto diverse soluzioni: il “lodo” D’Attorre (cancellare dall’Italicum le norme sul Senato), il `lodo´ Lauricella (la legge è applicabile solo dopo la riforma del bicameralismo), il `lodo´ Pisicchio (entrata in vigore dopo un anno o 18 mesi), il “lodo” Balduzzi (gennaio 2016). Ma FI non vuole saperne e teme che Renzi «ceda alle pressioni».
I contatti sono intensi. Oggi pomeriggio è previsto in Aula alla Camera l’inizio delle circa 300 votazioni sugli emendamenti al testo dell’Italicum (...ma era uno scherzo... adesso è convocata per le 16 la "capigruppo"... Non hanno ancora "trovato la quadra". NdR).
I tempi sono contingentati, poco più di venti ore: si può chiudere in settimana. Ore cruciali dunque, per la riforma del voto, che sarebbe stata, secondo fonti parlamentari, anche tra i temi al centro del lungo colloquio avuto da Renzi con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al termine dell’inaugurazione dell’anno accademico alla scuola di formazione dei Servizi d’informazione.
(Fine della 1445° puntata della telenovela "Ho fatto in otto giorni quello che gli altri non sono stati capaci di fare in otto anni". Continua)
Scritto il 04 marzo 2014 alle 15:40 | Permalink | Commenti (5)
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Scritto il 04 marzo 2014 alle 08:00 | Permalink | Commenti (10)
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Scritto il 04 marzo 2014 alle 08:00 | Permalink | Commenti (2)
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«Fin dalla prossima settimana arriveranno i primi provvedimenti economici del nuovo Governo». Lo annuncia Matteo Renzi, in una lettera in cui invita gli 8.000 sindaci, che definisce “colleghi”, a segnalare al governo un edificio scolastico da sistemare (Fonte: l'Unità)
Nella lettera il presidente del Consiglio osserva che «stiamo affrontando il momento più duro della crisi economica. Il più difficile dal punto di vista occupazionale». Ma dalla crisi «non usciremo semplicemente con una ricetta economica. No, dalla crisi si esce con una scommessa sul valore più grande che un Paese può incentivare: educazione, educazione, educazione».
Come annunciato nel discorso programmatico alle Camere, il premier muove il primo passo del piano per l'edilizia scolastica: nella lettera invita i primi cittadini a segnalare entro il 15 marzo un edificio scolastico del proprio Comune da ammodernare. Con l'impegno a snellire le procedure burocratiche e a intervenire sul patto di stabilità interno per sbloccare le risorse.
«Caro collega - è l'esordio della lettera - ora la vostra e nostra priorità è l'edilizia scolastica. Non vi propongo un patto istituzionale, ma più semplicemente un metodo di lavoro. Vogliamo che il 2014 segni l'investimento più significativo mai fatto da un Governo centrale sull'edilizia scolastica. Stiamo lavorando per affrontare le assurde ricadute del patto di stabilità interno. Vi chiedo di scegliere all'interno del vostro Comune un edificio scolastico. Di inviarci entro il 15 marzo una nota molto sintetica sullo stato dell'arte. Non vi chiediamo progetti esecutivi o dettagliati: ci occorre - per il momento - l'indicazione della scuola, il valore dell'intervento, le modalità di finanziamento che avete previsto, la tempistica di realizzazione. Semplice e operativo come sanno essere i Sindaci».
Per quanto riguarda il governo, «cercheremo nei successivi quindici giorni di individuare le strade per semplificare le procedure di gara, che come sapete sono spesso causa di lunghe attese burocratiche, e per liberare fondi dal computo del patto di stabilità interna. Ma è fondamentale che nel giro di poche ore arrivino da voi (all'email [email protected] che abbiamo appositamente aperto) una sintetica nota sull'individuazione di un edificio scolastico - uno - che riteniate la priorità del Vostro comune».
Modello di risposta standard, da suggerire al sindaco del vostro paesello: "Caro collega sticazzi, Renzino! Tu sei il primo ministro, nonchè segretario del partito più grande d'Italia. Io invece sono il sindaco di Nerbate sul Membro, e viaggio su una Duna Diesel di terza mano" (segue spazio libero per insulti, vaffanculi ed altre dotte considerazioni).
Una scuola una. Sia per i comuni da 800 abitanti, che per le città sopra il milione di abitanti. Ditemi voi se questo primo-sindaco-cazzuola non è un fenomeno... Ora proviamo ad ipotizzare che di tratti di interventi di media portata (diciamo 100.000 euro per edificio indicato). E "che ccè vo'"... Arriva il sindachino su una slitta di stato blu trainata da renne, direttamente dal suo domicilio di Rovaniemi (Finlandia) con un assegnino da 800.000.000 euro, e intonaca, intonaca, mette a norma, cura i giardini. In 8.000 scuole. Per le altre 80.000, attendere la prossima slitta, che sarà annunciata un mese prima delle prossime elezioni. Tafanus
Scritto il 03 marzo 2014 alle 23:50 nella Renzi, Tafanus | Permalink | Commenti (7)
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La legge domani in aula. Renzi sente sia Alfano che Verdini. L’incognita dell’emendamento Lauricella, chelega il testo alla riforma del Senato (di Claudia Fusani - l'Unità)
Intorno alla legge elettorale ruotano tre scenari.
Il primo: Renzi tiene fede al patto con Berlusconi, fa mandare avanti l’Italicum svincolato dalle altre riforme (Senato e Titolo V).
Il secondo: Renzi salva la faccia ma fa fare il lavoro sporco, chiamiamolo così, al Parlamento, che invece approverà, a scrutinio segreto, l’emendamento Lauricella (deputato della minoranza Pd) che vincola l’una all’altra le riforme, fissando un tempo di legislatura lungo, così come dice l’altro patto stretto però con il socio di maggioranza del Nuovo Centrodestra.
Il terzo: Renzi rompe il patto con Berlusconi perché l’Italicum non può funzionare per eleggere due Camere che hanno, tra l’altro, basi elettorali diverse.
E a quel punto, tutto può succedere. Ma anche nulla. Ieri il Mattinale di Forza Italia ha dato una linea chiara. «Se passa il tragico emendamento Lauricella cade tutto», ha scritto il capogruppo Brunetta. «Votarlo significa disinnescare l’Italicum e non riconoscere l’urgenza dell’approvazione della legge elettorale, una questione su cui pesa una sentenza della Corte Costituzionale, che forse molti hanno dimenticato, magari anche perché significherebbe riconoscere l’illegittimità di tantissimi parlamentari ». «Sostenere e votare l’emendamento Lauricella», prosegue la news letter «significa rischiare di andare al voto con il Consultellum». Ma, soprattutto, da parte di Renzi, significherebbe «non rispettare la parola data».
Alle giornate decisive siamo abituati ormai da qualche mese. Tante, troppe, ce ne sono state. Ma la settimana che si apre oggi lo sarà veramente per capire quanto può durare la legislatura, se e fino a che punto il premier Renzi crede nella scadenza naturale del 2018 così spesso tratteggiata, e quanto siano concreti i patti stretti in queste settimane con le forze di maggioranza e non. Domani la legge elettorale sarà in aula alla Camera. La promessa, l’impegno, è di approvarla entro la settimana (i tempi sono contingentati, 22 ore) e poi mandarla al Senato per il via libera definitivo che, nei piani del governo, deve arrivare entro marzo. Seppure, e qui è la variabile decisiva, il premier abbia detto, anche nel discorso programmatico della scorsa settimana alla Camera e al Senato, che «l’Italicum ha un nesso logico con la riforma del Senato». Una riforma costituzionale costituzionale che deve muovere i suoi passi a palazzo Madama, che ha bisogno di quattro letture e non può quindi essere approvata prima di un anno. Ad essere ottimisti.
Gli emendamenti per l’Italicum scadono oggi alle 12. Berlusconi e Renzi lo hanno blindato, due articoli, uno per la Camera e uno per il Senato, soglia di sbarramento per accedere al premio di maggioranza (37%), soglie di accesso per i partiti (entra in Parlamento chi ha ottenuto il 4,5%) più alcuni correttivi per Lega e Sel (salvataggio del miglior perdente di ogni coalizione). Le due settimane di crisi di governo hanno permesso di dare alla legge quella “benzina” che gli mancava e di cui gli estensori si erano dimenticati (gli algoritmi che permettono di tradurre i voti in seggi).
Mala differenza, in tutta questa storia, la fa l’emendamento Lauricella. E la minoranza Pd, che ha già rinunciato a decine e decine di correzioni, non ha alcuna intenzione di fare passi indietro. Ieri ha alzato la voce anche la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi. «Le debolezze di questa legge elettorale sono tre» - ha detto - intervistata da Maria Latella su SkyTg24, annunciando battaglia in Parlamento. «Non può dare una maggioranza certa anche al Senato, e quindi è necessario vincolarla alla riforma della camera alta; non c’è la parità di genere; non è pensabile ripresentarsi agli italiani senza consentire loro di scegliere i propri parlamentari».
Ieri ci sono stati contatti, telefonate e sms, tra Alfano e Renzi. E anche tra il premier e Verdini, plenipotenziario di Berlusconi sulle questioni elettorali. Ognuno deve, a suo modo, salvare faccia e sostanza, le parole date e le promesse fatte. La soluzione individuata prevede che il governo non faccia proprio l’emendamento Lauricella, come invece è stato promesso ad Alfano, e dando invece soddisfazione alla parola data a Berlusconi che non vuole vincoli temporali per la legislatura. Al tempo stesso, però, il governo non può imporre alla sua maggioranza parlamentare di ritirare l’emendamento. Che a quel punto sarà votato con voto segreto e passerà a mani basse. Così si salvano le promesse a Berlusconi e ad Alfano. Che poi in fondo neppure il Cavaliere vuole andare a votare a breve (il 10 aprile iniziano i dieci mesi di detenzione). Soprattutto, il premier tutela se stesso. Almeno per un po’.
Claudia Fusani
Scritto il 03 marzo 2014 alle 15:33 nella Berlusconi, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (1)
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Scritto il 03 marzo 2014 alle 01:41 | Permalink | Commenti (6)
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Matteo da Frignano, nominando i ministri, si era vantato di aver fatto il governo più ggiovane di sempre, e più femminile di sempre. E pazienza se l'essere ggiovani, o donne tacco 12, non sia di per se garanzia di competenza e di non-appartenenza alla orrenda "casta" da rottamare in blocco.
Ma ora "quello che il govverno più ggiovane e femminile della Repubblica" si è rifatto coi sottosegretari e coi vice-ministri, ristabilendo le giuste distanze... Vediamo quanto sianno "ggiovani e femmene" i "ministri di complemento:
Sottosegretari di Stato alla Presidenza del Consiglio
Graziano Delrio - Maschio - Anni 54 - Collaterals: Graziano e l'appalto ai parenti - Graziano Delrio è stato sindaco di Reggio Emilia per due mandati consecutivi, dal 2004 al 2013. Nel giugno 2009, pochi giorni dopo la riconferma a primo cittadino(52,5% dei voti al primo turno), il Comune di Reggio Emilia indisse una gara pubblica per la ristrutturazione della scuola d'infanzia "Allende", per lavori pari 152mila euro circa. La gara era ristretta alla partecipazione delle sole società invitate e si basava sul criterio del prezzo più basso. La gara d'appalto partì e il caso volle che a vincere fosse la Delrio Bonfiglio & figli di Delrio Paolo SAS, che presentò un preventivo di 140mila euro. Com'è facilmente intuibile dal nome, la società edilizia faceva capo a Paolo Delrio, cugino di Graziano, il quale deteneva il 99% delle quote societarie, mentre il rimanente 1% era riconducibile a Rita Enrica Montanari, moglie di Paolo, funzionaria dell'ufficio gare e contratti del Comune di Reggio Emilia [...] http://it.ibtimes.com/articles/63267/20140301/delrio-sottosegretario-renzi-reggio-emilia-appalti-governo.htm
Luca Lotti - Maschio - Anni 32
Sandro Gozi - Maschio - Anni 46 - Bel figo, di fatto delegato di Renzi ai talk-show. E' fotogenico
Domenico Minniti - Maschio - Anni 58 - Un uomo per tutte le stagioni
Riforme costituzionali e rapporti con il Parlamento
Maria Teresa Amici - Femmnina - Anni 56
Luciano Pizzetti - Maschio - Anni 55
Ivan Scalfarotto - Maschio per l'anagrafe, autocertificato omosessuale (lotta per l'ammissibilità di variazione anagrafica di sesso anche in assenza di interventi chirurgici) - Anni 49
Semplificazione e Pubblica Amministrazione
Angelo Rughetti - Maschio - Anni 47
Affari Regionali
Gianclaudio Bressa - Maschio - Anni 58
Affari Esteri
Lapo Pistelli - Maschio - Anni 50 - Ex nemico di Matteo Renzi alle primarie per sindaco a Firenze
Mario Giro - Maschio - Anni 56
Benedetto Della Vedova - Maschio - Anni 52 - Ex Radicale, ex parlamentare del Parlamento della Padania di Chignolo Po, ex Forza Italia, ex PdL, ex FLI, ex Scelta Civica, folforato sulla via di Frignano d'Arno
Ministero dell'Interno
Filippo Bubbico - Maschio - Anni 60
Gianpiero Bocci - Maschio - Anni 52 - In politica da 30 anni (con tanti saluti al "massimo due mandati, poi tutti a casa" di renziana memoria)
Domenico Manzione - Maschio - Anni 59
Giustizia
Enrico Costa - Maschio - Anni 45 - Berlusconiano - E' stato relatore per il Governo di norme molto discusse come il Lodo Alfano. Nel 2011 insieme a Manlio Contento (post-fascista) ha chiesto al neo Ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma l'invio di ispettori ministeriali alla Procura di Napoli dove si celebrava un'indagine che vedeva implicato il Presidente del Consiglio Berlusconi. In Commissione Giustizia a ottobre 2011 ha presentato un emendamento molto discusso dalle opposizioni al "ddl Intercettazioni" che ne vieta la pubblicazione prima di una cosiddetta "udienza filtro". Coordinatore provinciale del PDL a Cuneo, nel gennaio 2013 è nominato coordinatore regionale del PDL nel Piemonte. Contestualmente alla sospensione delle attività del Popolo della Libertà e al rilancio di Forza Italia, aderisce al Nuovo Centrodestra guidato da Angelino Alfano. Il 28 febbraio 2014 diviene viceministro alla Giustizia nel governo Renzi.
Cosimo Maria Ferri - Maschio - Anni 43 - Figlio di Enrico Ferri, PSDI, il "Ministro dei 110 k/h".
Difesa
Gioacchino Alfano - Maschio - Anni 51 - Prima berlusconiano, poi Alfaniano (il destino nel nome). Un commercialista prestato alla Difesa (quando si dice la competenza specifica)
Domenico Rossi - Maschio - Anni 63 - Ex Generale (scommettiamo che farà il tifo per gli F-35?)
Economia e Finanze
Luigi Casero - Maschio, anni 56, lunga militanza berlusconiana, poi alfaniano
Enrico Morando - Maschio - Anni 64 - Studi (non completati) di Filosofia all'Università di Genova: quindi adattissimo ad un ministero economico. Ambidestro (perennemente con un piede a sinistra e uno a destra), altro rappresentante del "nuovo che avanza". In politica da 34 anni.
Pier Paolo Baretta - Maschio - Anni 65 - Ragioniere - da ben 43 anni sindacalista (però nella CISL, quindi non appartiene al sindacalismo "rovina dell'Italia" secondo Renzi: fa parte del "sindacalismo accondiscendente", alla Bonanni, quello che piace al PD di Renzi.
Giovanni Legnini - Maschio - Anni 55, in politica attiva da 24 anni
Enrico Zanetti - Maschio - Anni 41
Sviluppo Economico
Carlo Calenda - Maschio - Anni 41 - Provenienza: Confindustria
Claudio De Vincenti - Maschio - Anni 66 - Montiano
Antonello Giacomelli - Maschio - Anni 52 - Margerito
Simona Vicari - Femmina - Anni 47 - PSDI, Forza Italia, PdL, Alfaniana. Architetto.
Infrastrutture e trasporti
Riccardo Nencini - Maschio - Anni 55 - Una vita nel PSI - In linea con le tradizioni del partito, il 4 giugno 2013 il Tribunale della Corte di giustizia della Unione Europea lo condanna a restituire al Parlamento europeo la somma di 455.903,04 Euro di spese di viaggio e di assistenza di segreteria indebitamente accreditate durante il mandato 1994-1999. Il 28 febbraio 2014 viene nominato viceministro dei Trasporti nel Governo Renzi.
Umberto Del Basso de Caro - Maschio - Anni 61 - indagato per peculato in qualità di Consigliere regionale prima di entrare in parlamento nell'ambito dell' inchiesta della Procura di Napoli sull'uso privatistico del " Fondo per il funzionamento dei gruppi regionali" della Regione Campania - Ovviamente uno così Renzi non può lasciarselo sfuggire.
Antonio Gentile - Maschio - Anni 64 - Italo-forzuto, quindi alfaniano. A lui abbiamo dedicato il post precedente. Proposto da Berlusconi come successorre di Nicola Cosentino.
Politiche agricole alimentari e forestali
Giuseppe Castiglione - Maschio - Anni 51 - Percorso netto: DC > CDU > UdEur > Forza Italia > NCD. Nella "castina" da trent'anni
Andrea Olivero - Maschio - Anni 44 - Una vita per le ACLI - Professore di lettere. Si nutrono seri dubbi sulle sue competenze in materia di carciofi e fagioli borlotti.
Ambiente, tutela del territorio e del mare
Silvia Velo - Femmina - Anni 47 - Sa tutto sulla chimica del farmaco, quind Renzi l'ha presa per un ministero nel quale magari un geologo...
Barbara Degani - Femmina - Anni 48 - Da 20 anni (ne aveva 28) campa di politica, prima con Forza Italia, poi con Alfano & Renzi. Niente bsappiamo dei suoi (eventuali) studi ed esperienze di lavoro.
Lavoro e Politiche sociali
Franca Biondelli - Femmina - Anni 57
Teresa Bellanova - Femmina - Anni 56 - Da 36 anni nel sindacato dei braccianti
Luigi Bobba - Maschio - Anni 59 - Piddino d'area democrista. Aclino - Buon amico del Card. Bertone
Massimo Cassano - Maschio - Anni 49 - Già da trent'anni in politica. Solito percorso: CD, Forza Italia, PdL, Alfano
Istruzione, Università e ricerca
Roberto Reggi - Maschio - Anni 54 - Coordinatore, insieme a Giorgio Gori, della fallimentare campagna per le primarie di Renzi vinte da Bersani
Angela D’Onghia - Femmina - Anni 52 - Scelta Civica. Un genio dell'imprenditoria. A soli 25 anni diventa Amministratore delegato di un'azienda: qualla di mammà
Gabriele Toccafondi - Maschio - Anni 42 - Provenienza: italoforzuto
Beni e attività culturali e turismo
Francesca Barracciu - Femmina - Anni 48, in politica da trent'anni - Indagata per le spese personali messe in nota-spese alla regione Sardegna, viene estromessa dal partito per la gara a Presidente di Regione, ma riceve il premio di consolazione. Forse il reato per cui è indagata è meno infamante della evasione IMU (sanata) di Josefa Idem. Chi può dirlo?
Ilaria Borletti Buitoni - Femmina - Anni 59 - Arrivata da Scelta Civica, porta in dote due cognomi importanti al prezzo di uno.
Salute
Vito De Filippo - Maschio - Anni 51 - Laurea in filosofia, giornalista, esperienza in "Telenorba", Presidente del non meglio identificato "Centro di Drammaturgia", Margherito. Come si deve, un curriculum formidale per la cariuca di sottosefretario alla Salute.
Il Governo più ggiovane e più femmino di tutti i tempi
Così di era "lodato e imbrodato" il bischero. Adesso, regardless gli aspetti giudiziari ed etici poco edificanti, abbiamo sette femminucce e 29 maschietti. Alla faccia delle pari opportunità. Sette è il 19% di 36. E quanto al governo ggiovane ggiovane, che dire? Che coi sottosegretari Renzi si è affrettato a rimediare, inserendo qualche ggiovane vecchio. Tanto per farci ricordare che la rottamazione è un termine che andrebbe rottamato, e il suo uso punito con 10 anni di galera.
Un'età media di 54 anni abbondanti per dei sottosegretari sono li, a testimoniare della esibizione di false credenziali. O no?
Tafanus
Scritto il 02 marzo 2014 alle 19:33 | Permalink | Commenti (2)
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Voci critiche nel Pd contro la nomina di Antonio Gentile a sottosegretario alle infrastrutture. Due deputati, D'Attorre e Ginefra, e il senatore Mineo chiedono a Renzi di annullare la nomina e mandarlo via. E intanto dal web spunta un'iniziativa del neo sottosegretario: nel 2002, in veste di senatore di Forza Italia, propose che Berlusconi fosse candidato al premio Nobel per la pace (Fonte: l'Unità)
Il deputato del Pd, Alfredo D'Attorre, a margine del congresso Pse commenta: «La vicenda di Gentile non mi sembra edificante e mi sembra inopportuna la sua permanenza al governo. Il quadro di pressioni che emerge sull'editore dell'Ora della Calabria è inquietante» (secondo il quotidiano il politico ha fatto pressioni, risultate vane, affinché non uscisse un articolo su suo figlio, e pochi giorni dopo le rotative del giornale si sono misteriosamente rotte). «Sono indotto a pensare che nè il presidente del consiglio nè i vertici Ncd erano a conoscenza pienamente della vicenda – sostiene D'Attorre - altrimenti avrebbero dovuto soprassedere da questa scelta. A me sembra inopportuna la permanenza di Gentile al governo, mi auguro sia indotto, dal residente del consiglio e dal suo partito a rassegnare le dimissioni».
«Ncd e il suo segretario Angelino Alfano liberino il Governo Renzi dall'imbarazzo determinato dal 'caso Gentile' ieri nominato sottosegretario alle Infrastrutture», dichiara in una nota il deputato del Pd Dario Ginefra. «Questo Governo, per poter portare a termine il suo complesso mandato, non può permettersi alcuna crepa nella sua credibilità pubblica. Si eviti di riproporre le esitazioni talvolta manifestate dal precedente Governo Letta».
E in un editoriale sul sito www.articolo21.org il senatore del Pd Corradino Mineo rincara: «Badiamo al sodo, d'accordo. Il lavoro, innanzitutto, e la legge elettorale e la rivoluzione che rimetterà in moto la macchina burocratica. Condivido. Ma perché, fra i tanti in fila per una casacca da sotto segretario, Renzi doveva proprio caricarsi questo Antonio Gentile da Cosenza, già scelto da Berlusconi per sostituire Cosentino dopo i noti guai giudiziari?».
Il caso di Gentile, in pressing su "L'Ora" (Di Claudia Fusani)
Certo, si occuperà di Infrastrutture nella squadra con il suo, del suo stesso partito, ministro Maurizio Lupi. Non avrà a che fare con editoria o cultura. Ma non è il dove che pesa. È il chi. Se è vero, come è vero, che Antonio Gentile, senatore calabrese del Nuovo Centrodestra e nominato ieri sottosegretario alle Infrastrutture, è il signore che una decina di giorni fa è stato al centro, sfiorato ma senza alcuna responsabilità diretta, di un giallo giornalistico-editoriale.
Succedeva infatti, una decina di giorni fa, che il quotidiano L’Ora di Calabria stesse per pubblicare un articolo in cui si parlava del figlio del senatore Gentile coinvolto in un’indagine della procura di Cosenza per falso ideologico e associazione a delinquere. Il quotidiano veniva messo sotto pressione per non pubblicare la notizia (che ovviamente veniva pubblicata). Solo che qualche giorno dopo L’Ora di Calabria è stata colpita da una delle peggiori sciagure che possano capitare a un quotidiano: lo stop delle rotative per un improvviso quanto inspiegabile guasto alle macchine.
Una faccenda stranissima di cui infatti si sta occupando la procura di Cosenza. Le coincidenze possono essere maledette e i retroscena sono un genere giornalistico assai diffuso. Ma è chiaro che la nomina di Gentile costringerà il premier Renzi ad assumere qualche informazione in più. Visto che il nome di Gentile è da giorni blindato nel toto-sottosegretari, non ne è mai uscito e ieri mattina è stato confermato nella squadra di governo. Di fronte a tanti altri nomi, come abbiamo visto, che sono invece spariti. Appena uscito il suo nome, Articolo 21 e Iniziativa dei Cittadini Europei per il pluralismo dei media, hanno provveduto a ricordare a Renzi rischi ed ombre di Gentile.
«La sua nomina dopo il caso Ora di Calabria è inopportuna» ha twittato Giuseppe Giulietti. «Solo dieci giorni fa, a Cosenza - si legge nella nota di Media Initiative - accadeva un episodio inverosimile ai danni della libertà di stampa: l’Ora della Calabria veniva messo sotto pressione per non pubblicare la notizia dell’indagine giudiziaria (falso ideologico, associazione a delinquere) che riguarda il figlio di Antonio Gentile». Media Initiative ricorda che alla direzione del giornale erano arrivate «pressioni minacciose dai toni così allarmanti da aver spinto la Procura ad intervenire proprio in questi giorni, per capire come mai, dopo aver toccato gli interessi della famiglia Gentile, il quotidiano di Cosenza abbia subìto un improvviso e inspiegabile guasto meccanico alla tipografia che ne ha impedito stampa e distribuzione».
Non la vede così il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti che tace i fatti de L’Ora di Calabria e guarda invece al nome di Gentile come «il giusto riconoscimento per tutti i calabresi che potranno avere un valido interlocutore in un ministero chiave come quello delle Infrastrutture». Sappiamo quanto i sei senatori calabresi siano stati decisivi per la nascita di Ncd. E come i 31 voti al Senato siano, almeno per ora e al netto di eventuali future maggioranze diverse, determinanti per il governo Renzi. La nomina di Gentile è solo un piccolo prezzo da pagare in nome della maggioranza.
...insomma, una "marchetta" di Renzi ad Alfano. Due politici senza pudore. Alfano che impone, Renzi che si cala le mutande e si lascia imporre questo impresentabile. Non perchè abbia un figlio inquisito per gravi reati, ma perchè - se ciò che emerso dalle pagine de "L'Ora" fosse vero - ci troveremmo di fronte ad un caso che non sarebbe improprio definire "di stampo mafioso": la politica (mi vergogno a definirla così) che cerca di imbavagliare la stampa, in un caso di presunta delinquenza in famiglia. Uno spirito libero, questo Gentile: è lui che nel 2002 aveva promosso la vergognosa candidatura di Silvio Berlusconi a Premio Nobel per la Pace (?).
Sfortunato, Gentile, perchè ha promosso - fra le risate generali - Silvio Berlusconi al Nobel, per trovarsi oggi di fronte alla triste realtà di aver candidato al Nobel colui che oggi, pregiudicato, non può candidarsi neanche a fare l'assessore al Comune di Roncofritto, insieme al Cangemi.
Nella criminalità politica che c'è in filo che tiene tutto insieme. Antonio Gentile è lo stesso che il pregiudicato Berlusconi aveva voluto al posto di Nicola Cosentino da Casal di Principe. Vergognosa la protervia di Angelino Alfano (quello del "Nuovo" Centro Destra) nel pretendere questa nomina, ma ancor più vergognosa la calata di braghe del bischero di frignano, cioè di colui che doveva "rottamare" la vecchia politica, e che invece sta rottamando se stesso, a velocità supersonica.
Aveva delle alternative, Alfano, di fronte al ricatto "o Gentile o crisi"? Si l'aveva. Dire ad Angeklino: "Gentile NO. C'è un limite a tutto. Vuoi fare la crisi, Falla pure, e poi vai davanti all'opinione pubblica a spiegare che il governo è caduto perchè non è stata accolta la vergognosa richiesta di portare al governo questo personaggio"
Tafanus
Scritto il 02 marzo 2014 alle 16:29 nella Berlusconi, Criminalità dei politici, Media , Politica, Renzi, Tafanus | Permalink | Commenti (5)
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Scritto il 02 marzo 2014 alle 08:01 | Permalink | Commenti (4)
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Recensione del film "I SEGRETI DI OSAGE COUNTY" (di Angela Laugier)
Titolo originale: August: Osage County
Regia: John Wells
Meryl Streep, Julia Roberts, Ewan McGregor, Chris Cooper, Abigail Breslin, Benedict Cumberbatch, Juliette Lewis, Margo Martindale, Dermot Mulroney, Julianne Nicholson, Sam Shepard, Misty Upham, Will Coffey – 119 min. – USA 2013.
Principali interpreti: E’ lontano dalle grandi e inquietanti città americane lo scenario di questo film non meno inquietante, ambientato nella profonda provincia delle campagne sterminate del Mid-West, quella dell’individualismo sfrenato e delle grandi solitudini, evocate da Kerouac e anche dalle opere narrative e teatrali di Tennessee Williams, che di quei luoghi ha lasciato descrizioni durissime e indimenticabili. Questo bel film, che ha molto diviso il pubblico e la critica, mi ha ricordato quell’altro, magnifico, che tutti, credo, abbiamo presente: La gatta sul tetto che scotta , ovvero la versione cinematografica, alquanto censurata, della pièce teatrale dello stesso Williams: Cat on a Hot Tin Roof. Naturalmente il film di oggi è assai diverso e ha una sua peculiare originalità, ma l’accostamento fra le due pellicole mi pare non sia del tutto improprio, essendo molte le affinità, a cominciare dalle origini teatrali di entrambe*. Anche qui, inoltre, sono al centro degli eventi sia il gioco al massacro, nato nel corso di una riunione di famiglia nella quale l’odio è il sentimento prevalente, sia la ricerca spasmodica della verità, che non aiuta a risolvere i problemi, così come, anche in questo caso, la grande calura diventa metafora di insostenibili tensioni accumulate all’interno di famiglie assai disfunzionali, di modo che ci rendiamo presto conto che mai fu così stolta la traduzione italiana del titolo che in originale è: August: Osage County).
Scotta, infatti, ad agosto, almeno quanto il tetto su cui cerca di sopravvivere la gatta, anche la casa dell’Hoklahoma in cui si svolge il dramma diretto da John Wells e del quale subito cogliamo le durissime avvisaglie: Violet (Meryl Streep) è una malata di cancro che cerca di rimuovere la coscienza della propria infermità stordendosi con quintali di calmanti e tranquillanti, fumando come una ciminiera e bevendo come una spugna. Ha sempre esercitato sui componenti della famiglia un controllo tirannico, per sottrarsi al quale due figlie se ne sono andate; ora che è malata ha oscurato le finestre della vecchia casa in piena campagna, dove continua a vivere col marito Beverly (Sam Shepard), uomo colto e gentile, innamorato della letteratura e di Thomas Stern Eliot, che ha progettato il suicidio, perché non ne può più, ma che, per evitare che le manchino in futuro le cure e la protezione necessarie, ha assunto una domestica di origine cheyenne, paziente e decisa. Condivide la casa con loro anche Ivy (Julianne Nicholson), l’unica delle tre figlie rimasta lì, forse per caso, più probabilmente per pigra abitudine, ma senza averlo scelto. Un inatteso perdurare dell’assenza di Beverly, allontanatosi improvvisamente, aveva convinto Violet a convocare le altre due figlie, Barbara, la più grande (Julia Roberts), subito accorsa insieme alla propria figlia adolescente Jean (Abigail Breslin) e Karen (Juliette Lewis). Dopo il ritrovamento del corpo dell’uomo, la cerchia dei parenti convenuti si allargherà: le figlie saranno raggiunte dai loro compagni, e arriverà anche Mattie, sorella di Violet, col marito Charles e il figlio Charlie, che ama, segretamente ricambiato, Ivy. Le tensioni si arroventeranno al calor bianco attorno al tavolo della cena funebre, che fa riemergere vecchie ruggini, antichi veleni, tenaci rancori mai sopiti, in un tremendo rimbalzare di rinfacci e rivelazioni, terribile gioco al massacro, da cui tutti, Violet per la prima, che la cena aveva voluto e organizzato, coll’intento di ristabilire una verità abbastanza apertamente ricattatoria che ne riaffermasse il dominio, usciranno distrutti e sconfitti, senza possibilità di scampo.
Il finale amarissimo e cupamente pessimistico, quasi tragico, ci dice, forse, che non esiste spazio in quel luogo (forse non solo in quello) per gli innocenti che paiono quasi predestinati a subire e a soccombere: così è stato per Beverly, tiranneggiato da Violet; così sarà, forse, per l’incolpevole Charlie, che sembra, fin dalla sua prima apparizione, destinato a pagare responsabilità non sue, così sarà, probabilmente, per Charles, che verrà messo al corrente delle dolorose verità che la moglie Mattie spietatamente ha in animo di rivelargli, per precludere a lui e al figlio qualsiasi ipotesi di futuro. Questa famiglia matriarcale è anche il ritratto dell’America più profondamente conservatrice e individualistica, che si chiude in sé, quella degli eroi solitari che, cercando esclusivamente la propria individuale affermazione, si condannano all’inevitabile fallimento. Eccezionale recitazione di Meryl Streep, assolutamente perfetta, e di Julia Roberts, che pare quasi impegnata in una gara di bravura con lei.
*In questo caso la sceneggiatura del film è condotta dallo scrittore, premio Pulitzer, Tracy Letts, autore della pièce teatrale da cui il film è tratto, che ha avuto grandissimo successo sui palcoscenici di Broadway.
Angela Laugier
Scritto il 02 marzo 2014 alle 07:59 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (12)
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Come tutti coloro che da Renzi si aspettavano il governo dei fuoriclasse – se non Baricco Guerra e Farinetti, almeno Gratteri – ero rimasto un po’ deluso dalla lista dei ministri. Ma mi sbagliavo.
Quella lista aveva un suo fascino, se paragonata a quella dei sottosegretari. Dai, mi dicevo, vorrai mica che alla Giustizia rimettano un berlusconiano di ferro? Infatti ne hanno messo uno di Ferri. Cosimo Maria Ferri, affiancato da un’altra figura neutrale: il relatore del lodo Alfano.
Però il senatore Tonino Gentile, no. Si deve trattare di un refuso. Mai e poi mai il Renzi che conosco farebbe salire a bordo un signore accusato, non più tardi del 19 febbraio scorso, di avere impedito l’uscita di un giornale. Il direttore e l’editore dell’Ora della Calabria sostengono di avere ricevuto pressioni per interposta persona affinché fosse estirpata la notizia di un’indagine che riguardava il figlio del senatore. Il «mediatore» avrebbe spiegato ai giornalisti riottosi che «il cinghiale quando viene ferito, ammazza tutti». Un linguaggio che, più che i documentari di Quark, richiama i dialoghi del Padrino.
Il giornale non uscì, a causa di una misteriosa rottura della rotativa. Cose che capitano. Mentre non può capitare che, appena dieci giorni dopo, la persona su cui aleggia un sospetto simile venga nominata sottosegretario. E nemmeno all’Editoria, settore col quale parrebbe avere una certa dimestichezza.
Alle Infrastrutture, pozzo senza fondo di appalti pubblici. Dottor Renzi, sia gentile con Gentile e lo accompagni all’uscita. Ci ha promesso che con lei l’Italia cambierà verso. Non che ci andrà di traverso.
Massimo Gramellini
Scritto il 01 marzo 2014 alle 09:42 nella Criminalità dei politici, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (4)
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Ex berlusconiani di ferro, inquisiti, incompetenti. Fra i 44 sottosegretari e i 9 vice-ministri spunta di tutto. Col rischio che, per accontentare partiti e correnti, l’esecutivo si dimostri una truppa allo sbaraglio (di Paolo Fantauzzi e Michele Sasso - l'Espresso)
Il Nuovo che Avanza
QUANTO COSTA LA GIUSTIZIA - Argomento sensibile per eccellenza per il centrodestra, Angelino Alfano è riuscito a piazzare due fedelissimi alla Giustizia, dopo aver già ottenuto la nomina a Guardasigilli del “garantista” Andrea Orlando al posto del magistrato anti-‘ndrangheta Nicola Gratteri. Il primo è Enrico Costa, capogruppo in commissione Giustizia alla Camera nella scorsa legislatura, dove si distinse per la fedeltà al leader Berlusconi: relatore per il lodo Alfano (la sospensione del processo penale per le alte cariche dello Stato, poi dichiarato incostituzionale) e il legittimo impedimento, che prevedeva la sospensione dei processi giudiziari a carico del premier fino al mantenimento della carica elettiva.
A settembre 2011, mentre il Paese pativa gli effetti dello spread, lui con un’interrogazione parlamentare chiedeva al neo-Guardasigilli Francesco Nitto Palma l'invio di ispettori ministeriali alla Procura di Napoli. Motivo: l’indagine che vedeva Berlusconi vittima di un ricatto ma che, secondo Costa, rischiava di diventare l’accusato. «Si rende lecito il dubbio che in concreto le indagini siano orientate contro il presidente del Consiglio» affermò. A luglio 2012, quando il compagno di partito e governatore lombardo Roberto Formigoni era indagato per le presunte tangenti, si scagliò contro la carcerazione preventiva che teneva tra le sbarre il suo grande accusatore Antonio Simone: «Questa vicenda riapre un’urgente riflessione sul tema più ampio sull'effettivo utilizzo e sulla opportunità della detenzione preventiva ai fini dell’inchiesta giudiziaria». Per la cronaca: a dicembre scorso Costa ancora prendeva in giro Renzi, sostenendo che “da rottamatore rischia di trasformarsi in rianimatore”. Chissà se lo pensa ancora.
L’altro sottosegretario, Cosimo Ferri (confermato dal precedente governo), è un ex consigliere del Csm ed ex commissario Figc, finito in passato nelle intercettazioni dello scandalo Calciopoli. Gli veniva imputato di “non aver adempiuto all’obbligo di informare senza indugio i competenti organi federali di essere venuto a conoscenza che terzi avevano posto o stavano per porre in essere atti diretti ad alterare lo svolgimento e il risultato della gara Chievo Verona-Lazio del 20 febbraio 2005”. Secondo una informativa dei carabinieri l’allora vicepresidente della Fgci, Innocenzo Mazzini, cercava attraverso Ferri “un adeguato e riservato contatto con Lotito (presidente della Lazio, ndr) soprattutto per la questione di maggiore interesse ovvero quella del favore arbitrale”. Dimessosi da commissario, ha ottenuto la uscita definitiva dal processo per un difetto di giurisdizione.
Nel 2009, quando Silvio Berlusconi cercò di bloccare la trasmissione tv “Annozero” di Michele Santoro che stava preparando una puntata sul processo Mills, fu tirato in ballo al telefono dal commissario dell’Agcom, Giancarlo Innocenzi. Per calmare il premier, infatti, Innocenzi rassicurava Berlusconi di “aver già fatto una riunione” con Alessio Gorla, nel cda Rai ed ex manager Fininvest, Paolo Romani, vice-ministro alle Comunicazioni e appunto Ferri. Non si è mai capito se Innocenzi millantasse e l’attuale sottosegretario ha sempre negato di aver suggerito come togliere di mezzo “Annozero”. Anche il Csm non ravvisò alcun comportamento da censurare. E anche se ben 15 membri volevano aprire una pratica sui rapporti tra Ferri e Innocenzi, la richiesta fu “cestinata” dal Comitato. Nel 2010 il nome di Ferri (che non è mai stato indagato) è spuntato anche nelle intercettazioni della cosiddetta P3.
PRECARIE INFRASTRUTTURE - Nella squadra di Matteo Renzo non mancano gli inquisiti. Come la sottosegretaria alla Cultura Francesca Barracciu, indagata per peculato per l'utilizzo (ritenuto illecito dalla Procura di Cagliari) di 33 mila euro destinati al gruppo del Pd alla Regione Sardegna. Stessa accusa che interessa anche il sottosegretario alle Infrastrutture Umberto Del Basso De Caro (Pd), indagato in Campania nell’ambito della cosiddetta inchiesta su “Rimborsopoli”, risalente a quando era capogruppo alla Regione. L’accusa di peculato riguarda 11.300 euro. Il vice ministro, il socialista Riccardo Nencini, nei mesi scorsi è invece stato condannato a restituire 456 mila euro al Parlamento europeo per dei rimborsi spese irregolari. A chiudere la triade c’è il senatore cosentino Antonio Gentile, coordinatore del Nuovo centrodestra in Calabria, il cui sistema di potere è al centro di un ampio e approfondito servizio sul numero dell’Espresso in edicola.
Protagonista nei giorni scorsi di un caso di cronaca per il tentativo di evitare la pubblicazione di un articolo giornalistico relativo a una indagine nei confronti del figlio, Gentile era già stato sottosegretario all’Economia con Berlusconi. Adesso ha ottenuto le Infrastrutture, proprio come il fratello Giuseppe, assessore in Calabria della giunta guidata da Giuseppe Scopelliti e altro fedelissimo di Alfano.
AGRICOLTURA CON DANNO - Burrascosi trascorsi giudiziari ha anche il (riconfermato) sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione. Nel 1999 fu arrestato assieme al suocero (il senatore Pino Firrarello) nell’inchiesta sul nuovo ospedale Garibaldi di Catania. L’accusa: aver favorito imprese vicine a Cosa nostra. Condannato in primo grado per tentativo di turbativa d’asta a dieci mesi, Castiglione è stato assolto in Appello a fine 2004. Pochi mesi prima, nel frattempo, era stato eletto europarlamentare con Forza Italia. Secondo un’inchiesta della Dda di Caltanissetta, grazie anche all’appoggio della cosca Rinzivillo di Gela. «A Gela non sono andato nemmeno per far campagna elettorale, queste persone non le conosco» la replica dell’onorevole. Adesso la Corte dei conti gli contesta 44 mila euro di danno erariale per una nomina illegittima quando era presidente della Provincia di Catania. «La normativa è stata rispettata scrupolosamente» ha affermato lui.
L’IMPRENDITRICE D’ABBIGLIAMENTO ALL’ISTRUZIONE - Lenin voleva una cuoca al governo del Paese. Renzi ci è andato vicino, portando un’imprenditrice di abbigliamento all’Istruzione. Difficile, infatti, spiegare perché sia stata scelta Angela D’Onghia, senatrice dei Popolari per l’Italia, per la carica di sottosegretario al Miur. Nel 2008 fu nominata Cavaliere del lavoro da Giorgio Napolitano in quanto “attiva nell'abbigliamento maschile e nei tessuti per la casa” e perché “con il marchio Harry & Sons è presente in 60 punti vendita monomarca in Italia e in Europa con 50 i dipendenti diretti e 250 nell'indotto”. Alla parlamentare va comunque riconosciuto un primato: quello di essere stata una dei principali finanziatori della campagna elettorale di Scelta Civica con oltre 120 mila euro. Nemmeno l’altro sottosegretario Roberto Reggi, ex sindaco di Piacenza e coordinatore delle primarie perse da Renzi nel 2012, pare brillare per competenza: infatti è laureato in Ingegneria elettronica.
ALFANIANI FOREVER - Luigi Casero (Ncd) si conferma uomo per tutte le stagioni strappando il terzo incarico negli ultimi quattro governi. Passano i ministri, le legislature e le maggioranze, ma lui trova sempre spazio. Era sottosegretario all’Economia nel Berlusconi quater, ha saltato un turno con Monti, poi è rientrato con le larghe intese di Letta e ora che è diventato alfaniano è tornato a essere sottosegretario all’Economia. Altra riconfermata (allo Sviluppo economico) è Simona Vicari, ex sindaco di Cefalù e amica intima di Renato Schifani.
Scritto il 01 marzo 2014 alle 07:59 nella Berlusconi, Criminalità dei politici, Politica, Renzi | Permalink | Commenti (4)
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