recensione del film "MOMMY" (di Angela Laugier)
Regia: Xavier Dolan
Principali interpreti: Anne Dorval, Suzanne Clément, Antoine-Olivier Pilon – 140 min. – Francia, Canada 2014.
E’ finalmente visibile anche in Italia Mommy, il film di Xavier Dolan che all’ultimo festival di Cannes ha ottenuto il premio speciale della giuria ex aequo con Adieu au Langage di Godard. Il prestigioso riconoscimento, nonché l’abbinamento con Godard sanciscono il riconoscimento della giuria del festival più importante per questo regista canadese, giovanissimo, che ha all’attivo altri precedenti film, che i cinefili italiani per lo più non conoscono, non essendo mai usciti nel nostro paese. Qualche locale eccezione c’è: a Torino il cinema Massimo, in collegamento col Museo del cinema sta facendo vedere un po’ alla volta i film precedenti, tutti molto interessanti, ma la speranza è che entrino a far parte dei normali circuiti della distribuzione. Inutile, sennò, lamentarsi che la gente “scarica”! Che altro può fare?
Mommy è la storia intrecciata, ma anche maledettamente solitaria di tre personaggi che vivono nella periferia di Montréal: una madre, Diane (Anne Dorval, splendida); un figlio, Steve (Antoine-Olivier Pilon, molto bravo) e una vicina di casa, Kyla (eccezionale interpretazione di Suzanne Clément). Diane ha perso il marito, fatto che ha negativamente inciso sul già precario equilibrio mentale e sul comportamento di Steve, che al momento del film è un adolescente in grave difficoltà, turbato, oltre che dai problemi della sua età, dall’impossibilità di controllare la propria esuberanza, di contenere i propri impulsi talvolta violenti e la propria logorrea, nonché dall’incapacità di dedicarsi con costanza a qualsivoglia occupazione. L’istituto al quale era stato affidato aveva dovuto espellerlo, in seguito alle lesioni che aveva causato a un suo compagno, cosicché Diane, piuttosto che affidarlo alle durezze di una struttura correzionale, come la legge canadese del 2015 le avrebbe consentito (l’azione è immaginata in un anno del non lontano futuro), decide di tenerlo con sé, scommettendo che il proprio smisurato amore per lui certamente sarebbe riuscito a trasformarlo, così da “confondere gli scettici” che non ci volevano credere. Con queste parole la donna si era riportata a casa Steve, col sogno di farlo studiare, ricuperandolo alla normalità. I confini della normalità sono sempre molto labili, però (nei film di Dolan lo sono particolarmente). Diane è in realtà una donna di mezza età pericolosamente vicina a quei confini: una bella donna, sciupata dai dolori e dai sacrifici, indurita dalla vita, da cui ha imparato a difendersi con modi assai sbrigativi e rudi, che ora investe su Steve tutto l’amore e la tenerezza profonda di cui è capace, nonché tutte le sue speranze, ma il suo carattere impulsivo, le delusioni continue e l’imprevedibilità delle scenate di questo figlio, a sua volta tenero, petulante e aggressivo, la fanno uscire facilmente dai gangheri, tanto da attirare, per i suoi strilli, l’attenzione di Kyla. Di Kyla il regista non ci dice molto: sappiamo che è un’insegnante in anno sabbatico, che è anche lei in un momento assai difficile della propria vita, ma comprendiamo presto che diventa l’elemento di equilibrio fra madre e figlio e che, accettando senza scomporsi la diversità di Steve, riesce a farlo studiare e a calmarlo almeno un po’. Sono i momenti magici del film, quelli in cui sembrano realizzarsi persino i sogni di “normalità” di Diane. I tre potrebbero farcela solo se i fatti della vita, spesso casuali, non intralciassero i loro propositi virtuosi: la bolla di amicizia e di affetti, che sembra proteggerli, si rivela presto un rifugio troppo fragile in un mondo in cui gli innocenti non trovano spazio. Il primo a soccombere sarà Steve, poi sarà la volta di Kyla, sopraffatta dalla sua stessa famiglia che ne ha sempre ignorato i problemi; toccherà, infine a Diane, apparentemente la meno debole e la più incline a trovare i compromessi col principio di realtà necessari per sopravvivere: il suo pianto sconsolato ci testimonia, infine, la sua tragica sconfitta. Il regista ci racconta, dunque, dall’ottica degli esclusi, una storia simile a molte altre, ma con singolare forza coinvolgente per la potenza espressiva delle immagini che scorrono sullo schermo nell’insolito formato 1 a 1, cioè in un formato quadrato che, occupando solo una piccola parte dello schermo ci obbliga a concentrare la nostra attenzione sui volti, simili a ritratti, dei singoli personaggi, i perdenti della vita. Quando lo schermo si allarga è per sottolineare i momenti di aperta frizione fra la loro soggettività e la realtà, come quando Steve si esibisce nel Karaoke, volutamente ignorando l’ostilità crescente intorno a lui o come quando Diane rivive i momenti sognati, i desideri irrealizzati, le speranze deluse… Tutta la narrazione è poi sottolineata da una colonna sonora che, nel suo notevole eclettismo, diventa parte non separabile dalle immagini stesse, cui imprime ulteriore pathos ed espressività.
Il film potrebbe anche non piacere: infatti ha diviso la critica, soprattutto in Italia, ma è molto interessante e merita certo una visione attenta.
Angela Laugier
1612/1230/1000
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