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Scritto il 30 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (0)
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La guerra: scenari - E i parigini si arruolano (Inchiesta de l'Espresso - 2° parte)
I francesi corrono ad arruolarsi e, dopo il 13 novembre, affollano i Cipra (Centro di informazione e reclutamento forze armate) per presentare domanda ed entrare nell'Armée. La carneficina di Parigi ha triplicato il numero di richieste giornaliere, salito da 500 a 1500. Anche i cittadini della capitale, solitamente i più restii ad indossare la divisa, stanno rispondendo come non era mai successo in passato ed è raddoppiato il numero di chi vorrebbe scegliere la vita militare: da 15 a 30 domande al giorno. Tanto da far sembrare inutili i manifesti pubblicitari che erano stati affissi nelle metropolitane per favorire l'arruolamento.
Il presidente François Hollande dopo gli attentati di Charlie Hebdo e Vincennes di gennaio aveva deciso di rinunciare ai tagli alla difesa che erano già stati annunciati tanto che nell'intero 2015 dovrebbero essere in totale 15.000 le nuove reclute. Per l'anno prossimo il numero dovrebbe salire a 16.000 e fino al 2019 è stato deciso di soprassedere a tutti i tagli che erano stati previsti in un piano di spending review ormai obsoleto.
C'è sicuramente un fattore emotivo che incide in questo slancio. Ma anche una voglia di partecipare attivamente alla sicurezza del Paese. il terzo motivo, quello presente non da oggi, è, per le classi più svantaggiate, la ricerca di un impiego fisso. L'età media dei volontari è di 25 anni, alta la percentuale delle ragazze. Nel settore della sicurezza, oltre all'esercito, si aprono anche altre prospettive di lavoro. Hollande ha annunciato la creazione di 5.000 posti supplementari nella polizia e nella Gendarmeria, 2.500 nella giustizia e 1.000 nelle dogane.
Anche i privati sono alla ricerca di personale: le società che forniscono guardie del corpo sono subissate di richieste da parte di vecchi e nuovi clienti. La società "Securitas" ha ammesso: «Dal 13 novembre abbiamo mandato 800 agenti in rinforzo ma dal lunedì successivo non siamo riusciti più a soddisfare tutte le richieste». Dunque altre assunzioni. C'è anche chi, meno militarista, pensa all'aiuto delle persone. La Croce Rossa e la Croce bianca hanno ricevuto il 30 per cento di domande in più.
Il Califfato è ricco, ma non troppo
Le stime che ipotizzano entrate annue oscillanti tra uno e due miliardi di dollari vengono ridimensionate da molti esperti, che ritengono più corretto parlare di importi limitati a qualche centinaio di milioni di dollari. E sono pochi a credere che questo sia frutto delle donazioni di magnati fondamentalisti, del Qatar o di altri emirati. Lo Stato islamico infatti hadimostrato di sapersi autoinanziare.
C’è un documento eccezionale per comprenderlo: il bilancio della provincia creata nella Siria orientale, diffuso dal ito di Aymenn Jawad Al-Tamini. Si tratta del budget relativo al gennaio scorso.
I proventi vengono per il 27 per cento dalla vendita di petrolio. Un altro 4 per cento lo incassano dalle bollette elettriche: garantire la luce in città devastate dalla guerra civile è stata una prova di eficienza dell’Is. Poi c’è un 23 per cento dalle tasse, riscosse in modo inflessibile. Ma i proventi più cospicui vengono dalla voce “conische”: oltre il 44 per cento. Di cosa si tratta? Proprietà di chi è fuggito e dei rivali imprigionati o uccisi; greggi e mandrie sequestrate ai contrabbandieri; sigarette, alcolici e altri prodotti occidentali requisiti per la legge coranica. Insomma, il profitto del Terrore.
LE SPESE - Invece sostengono soprattutto lo sforzo militare. Il 43 per cento va nelle paghe dei miliziani e un altro 20 per mantenere le basi, inclusa la manutenzione di armi e veicoli. Un decimo sovvenziona la polizia islamica, voce che comprende i tribunali che amministrano la giustizia civile e dirimono le controversie commerciali. Il 17,7 per cento sostiene i servizi pubblici: riparazione delle strade, raccolta riiuti, assistenza medica, rete idrica. Poco meno del sei viene destinato agli aiuti: elargizioni per la popolazione oppure contributi per rilanciare l’agricoltura. Inine il tre per cento finanzia l’apparato mediatico di propaganda. Queste informazioni dimostrano però la capacità del Califfato nell’amministrare il territorio, tra paura e consenso. E la scarsa incisività dei raid occidentali, che non hanno scalito il business petrolifero. Solo nelle ultime settimane infatti i bombardamenti hanno preso di mira pozzi e installazioni che forniscono l’oro nero dell’Is.
UN MODELLO replicabile. L’attacco terroristico di Parigi, con le sue modalità inedite, «potrebbe essere ripetuto anche a Roma».
Lo rivelano a “l’Espresso” fonti governative e dell’intelligence che stanno studiando al rallentatore ogni fotogramma, ogni mossa compiuta dal commando di attentatori kamikaze che ha colpito sei volte in 33 minuti nella capitale francese nella tragica notte di venerdì 13 novembre. Un attacco senza precedenti in Francia, si è ripetuto ino alla nausea, ma gli esperti danno corpo alla frase fatta, i loro appunti rivelano che è stata n’azione segnata da tante “prime volte” per l’Europa. La prima volta di un assalto compiuto di venerdì, giorno di preghiera per i musulmani. La prima volta di una cintura esplosiva, indumento tipico del kamikaze che fa il suo debutto in Europa. La prima volta di attentati nella notte, che presuppone una maggiore conoscenza del territorio, per muoversi con agilità al buio. La prima volta, inine, di un commando composto da più gruppi di fuoco, almeno tre, coordinati tra loro, in grado di agire in un tempo relativamente breve, con obiettivi lontani tra loro sette chilometri e a venti minuti di distanza. Tutti elementi che fanno ritenere all’intelligence italiana che un attacco come quello avvenuto nella capitale francese possa essere replicato in Italia, a Roma. Un incubo sul tavolo di Palazzo Chigi, che giustiica il realismo, anzi la prudenza, di approccio di Matteo Renzi alla guerra all’Is. Prudenza che riguarda soprattutto un eventuale ingresso “in guerra” al ianco della Francia in base all’articolo 5 dell’Alleanza Alantica in cui si afferma che un «attacco armato » contro uno o più alleati della Nato va considerato come un attacco contro ogni componente, consentendo a ciascun paese di decidere le azioni che ritiene necessarie a «ristabilire e mantenere la sicurezza», compreso «l’uso delle forze armate».
L’incubo ha un nome. Si chiama eterodirezione. La replica in Italia dello scenario parigino: un commando misto di nativi del luogo e di terroristi arrivati da fuori o rientranti. Diretti dall’esterno. Fino ad ora in Italia si temeva l’attacco di “lupi solitari”, di cani sciolti, com’era successo in Francia il 7 gennaio con la strage a “Charlie Hebdo”, afidata all’azione individuale, lo spontaneismo senza vie di fuga. Senza pianiicare. Ora il pericolo è il piccolo commando organizzato: gruppi in grado di attuare progetti di morte sincronizzati e programmati.
Gli esperti di antiterrorismo ricordano che il 13 novembre di Parigi ricalca la mattanza di Mumbai, quando la città indiana fu scossa da dieci attentati terroristici il 26 novembre 2008. Avvennero simultaneamente nella metropoli centro finanziario dell’India e i morti furono 195. «L’Italia è esposta al pericolo», spiegano i responsabili dell’ordine. Per questo motivo le misure di sicurezza sono state innalzate a livello 2, il più alto prima del livello 1 che presuppone un attacco già in corso, con la reazione degli apparati di sicurezza, i reparti speciali delle forze di polizia da attivare «in chi minuti» e il coinvolgimento delle forze speciali militari. E sono scattati i controlli alle frontiere, senza dichiarare la formale sospensione del trattato di Schengen, come hanno fatto altri paesi.
L’attenzione si è spostata nelle ultime settimane verso i Balcani: «sono stati negli anni Novanta la culla del radicalismo jihadista, da lì arriva un imponente lusso migratorio, la possibilità di iniltrazioni è elevata». Gli spostamenti di soggetti a rischio, o sospettati di essere terroristi, sono segnalati periodicamente dall’Interpol alle forze di polizia. Così si fa rete e si protegge il Paese. Un modo per fare prevenzione è pure il monitoraggio nelle carceri. La sera dell’attentato a Parigi quattro dei 21 terroristi islamici detenuti nella sezione speciale del carcere di Rossano in Calabria hanno esultato al grido di «Viva la Francia libera» dopo aver saputo della strage. Un grido di gioia misto a sida per aver «liberato» la Francia dagli «infedeli».
Alcuni dei 21 detenuti appartengono alla cellula di al Qaeda e sono considerati soggetti attivi del terrorismo. Non ci sono state reazioni in altri istituti di pena, dove la notizia è stata accolta in silenzio. Come in silenzio è rimasto l’unico musulmano sottoposto al 41 bis, il carcere duro. È un libanese di nascita e italiano di adozione, non ha fatto alcun commento quando ha seguito le cronache in tv dei fatti e ha visto le immagini del minuto di raccoglimento. Lo stesso contegno hanno tenuto i boss maiosi.
In vista del Giubileo, che vedrà nella capitale l’aflusso di milioni di pellegrini, viene preso in considerazione il modello di sicurezza utilizzato a Milano per l’Expo, anche se questo si svolgeva in un luogo circoscritto. Ma per Renzi la partita della guerra asimmetrica si gioca soprattutto sul piano politico. Il pomeriggio del 14 novembre, poche ore dopo la strage, è stato convocato a Palazzo Chigi il tavolo nazionale anti-terrorismo, allargato a tutti i capigruppo parlamentari, Lega e M5S compresi. Un inedito clima civile, da unità nazionale, il contrario di quanto si è visto nei talk o in rete, con Matteo Salvini e il ministro Angelino Alfano impegnati in una gara all’insulto più infamante. È la quarta volta che il tavolo si riunisce. Ai presenti Renzi si è mostrato preoccupato: la strage di Parigi avrà conseguenze sull’umore degli italiani, dificile parlare di happy days in mezzo alla paura di essere uccisi, con qualche ricaduta economica negativa. La consultazione delle opposizioni sul terrorismo è una misura politica preventiva: coinvolgere tutti. Nessuno resti escluso. Non si sa mai.
(di Lirio Abbate e Marco Damilano - l'Espresso)
Scritto il 30 novembre 2015 alle 07:59 | Permalink | Commenti (9)
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Scritto il 29 novembre 2015 alle 08:01 | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "LA LEGGE DEL MERCATO" (di Angela Laugier)
Titolo originale: La loi du marché
Regia: Stéphane Brizé
Principali interpreti: Vincent Lindon, Karine de Mirbeck, Matthieu Schaller, Yves Ory, Xavier Mathieu – 92 min. – Francia 2015.
Chiedo scusa ai lettori se ho, contrariamente alle mie abitudini, fatto qualche rivelazione sul finale del film, che in ogni caso è aperto anche a interpretazioni diverse.
Capita sempre più spesso che il continuo bisogno di stare sul mercato in modo competitivo induca le aziende a licenziare personale di mezza età per sostituirlo con giovani lavoratori meno stanchi e più propensi ad accettare contratti di lavoro più flessibili. Questo si sta verificando da parecchi anni dappertutto nel mondo, ed è uno dei risultati dell’imporsi del modello capitalistico e liberistico più duro dapprima nei paesi emergenti e successivamente, per fronteggiare la concorrenza economica di questi, anche nella vecchia Europa dello stato sociale e dei diritti. Questa realtà è quotidianamente sotto i nostri occhi e non è diversa da quella francese di cui si occupa questo film, che ci racconta la storia di un uomo sulla cinquantina, Thierry (Vincent Lindon), che dopo decenni di impiego da tecnico qualificato e di vita serena, si trova senza lavoro ed è costretto non solo a rimettersi in gioco, fra difficoltà di ogni genere, ma a constatare anche la debolezza delle risposte degli organismi istituzionalmente preposti ad aiutarlo. Il film ci introduce immediatamente in questa realtà: gli uffici pubblici, che avrebbero il compito di destinarlo ai corsi più utili alla sua riqualificazione per essere ri-immesso nel mercato del lavoro adeguatamente preparato, si rivelano carrozzoni autoreferenziali incapaci di creare una vera relazione tra la domanda e l’offerta di lavoro, mentre i sindacati, divisi fra loro, stentano a entrare nel merito del problema, e si perdono, accapigliandosi, tra molti discorsi di metodo e di procedura. In questo modo, per Thierry passano mesi senza che egli riesca a chiarire quale sarà la propria sorte, incalzato tuttavia dalla scadenza del mutuo (nessuna proroga da parte della banca, che lo invita anzi a spendere per garantire la propria famiglia attraverso un’assicurazione sulla vita) e dalle esigenze della moglie e di un figlio handicappato. Sarà un supermercato, infine, ad assumerlo come vigilante. Sembra che tutto proceda per il meglio: non si tratta, in fin dei conti, che di far molta attenzione ai taccheggiatori, tentati da un’esposizione delle merci che sembra quasi un invito a impadronirsene. In seguito egli dovrà occuparsi anche dei suoi colleghi cassieri che sono a loro volta tentati di compiere qualche irregolarità mentre maneggiano il denaro.
Qualcosa si inceppa, però, nel nuovo lavoro di Thierry: il meccanismo semplice e ben oliato della segnalazione delle colpe e dei colpevoli è in realtà assai delicato, poiché lascia scorgere casi umani molto dolorosi e drammatici, che pongono problemi e lacerazioni alla sua coscienza, cosicché, alla fine del film, la sua uscita di scena mentre si fa buio lo schermo pare alludere al suo rifiuto di rendersi complice di chi, sull’altare della legge del mercato, è pronto a sacrificare la propria compassione.
Scritto il 29 novembre 2015 alle 07:59 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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È il tempo necessario per vincere la guerra contro lo Stato islamico secondo gli stati maggiori. Che hanno come primo obiettivo Raqqa, la capitale (di Mark Power - l'Espresso)
Da quindici giorni a tre mesi. È il tempo necessario, secondo gli scenari tracciati dagli stati maggiori, per distruggere Daesh, cioè lo Stato islamico. A patto che riesca a nascere una coalizione coesa e determinata. Non come quella, varata nel settembre 2014 a guida americana, che non ha mai profuso il massimo sforzo (eufemismo). La carneficina di Parigi (13 novembre, 130 morti) ha mutato lo scenario. Almeno, sinora, nelle dichiarazioni di intenti. Restano però da superare numerosi ostacoli diplomatici e tecnico-militari. Una matassa che si è aggrovigliata ancor più dopo l'abbattimento di un jet russo, martedì 24 novembre, da parte della Turchia (Paese che fa parte della Nato): due Paesi chiave per il successo della missione. L'attivismo del presidente-itinerante François Hollande segnala la fretta della Francia di «distruggere il nemico» per lavare l'offesa nel cuore della capitale. Altre cancellerie frenano, alcune perché riluttanti, altre perché chiedono tempo. All'Hôtel de Brienne, sede del ministero della Difesa francese, si elaborano piani in attesa della grande offensiva che dovrebbe scattare, grosso modo, a un mese dal massacro al teatro Bataclan, nei ristoranti e allo Stade de France e fanno notare che un arco più o meno analogo servì agli Stati Uniti d'America per organizzare l'attacco all'Afghanistan dopo l'11 settembre di New York e Washington.
LE RICHIESTE FRANCESI - Dopo aver reclamato, e ottenuto all'unanimità, l'applicazione dell'articolo 42.7 del Trattato dell'Unione europea sulla "solidarietà" in caso di aggressione, il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian, ha ordinato ai suoi generali di stilare un elenco completo di richieste ai partner del Vecchio Continente. La lista è stata inviata all'ufficio dell'Alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini. La quale li inoltrerà ai vari Stati e organizzerà incontri bilaterali per valutare le disponibilità. Entro la fine della settimana prossima si avrà il quadro completo. Parigi chiede soprattutto uomini che sostituiscano i propri nei teatri dove è già impegnata («ma i comandi, dove ci spettano, li teniamo noi, non fuggiamo le responsabilità») per poterli ridislocare tra Siria e Iraq. In Mali ci sarebbe una disponibilità olandese e belga. Per il Centrafrica nessuno si è fatto avanti. In Libano potrebbe scattare il soccorso italiano, visto che c'è già un nostro rodato contingente attivo oltre il fiume Litani dal 2006. Sarebbe la nostra unica concessione, Matteo Renzi ha timore di finire nel pantano.
L'Armée è poi carente di aerei per il trasporto truppe, fondamentali per la logistica così come un nutrito apparato di sostegno a terra per l'aviazione che dovrà sostenere il peso maggiore dello sforzo bellico. E ha bisogno di racimolare centinaia di consiglieri militari e istruttori per gli eserciti dell'area che dovranno affrontare i fondamentalisti islamici sul terreno. Grande importanza viene anche attribuita al lavoro di intelligence da coordinare tra gli 007 dei Paesi europei presenti o in arrivo in Medio Oriente. Tranne l'Inghilterra di David Cameron che ha deciso di partecipare ai bombardamenti (ma ha bisogno di un passaggio parlamentare che fu per lui negativo nel 2013) e ha offerto l'uso della base della Raf di Akrotiri (Cipro) nessun altro ha spinto così in avanti il suo livello di partecipazione. Si profila una guida franco-inglese (le due nazioni che avevano disegnato il Medio Oriente così come è dopo la prima guerra mondiale, un secolo fa...) almeno del campo europeo. Perché i francesi tengono a precisare, correggendo un malinteso, di non aver nessuna velleità di capeggiare una coalizione internazionale che resterebbe saldamente nelle mani della potenza egemone: gli Stati Uniti di Barack Obama. Al contempo non escludono, in caso di necessità, di poter impiegare i fanti, di mettere gli scarponi nel deserto, almeno per operazioni mirate di commando, sull'esempio di quanto fanno e, come vedremo faranno ancora di più, gli americani, soprattutto nella zona di Raqqa, l'autoproclamata capitale del sedicente Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.
ALL'ATTACCO DI RAQQA - Raqqa è il primo obiettivo. Avrebbe un significato simbolico perché lì sono stati progettati gli attentati di Parigi, Beirut e contro l'aereo russo nel Sinai (200 morti) solo per stare ai più recenti. Ed è anche il meno complicato, a patto di sigillare il poroso confine turco da dove passano miliziani e armi per il califfo, si sospetta con la complicità di Ankara. Dicono all'Hôtel de Brienne: «A Washington non piacerà la prospettiva di armare i curdi dell'Unità di protezione popolare (YPG) che sta nella loro lista delle formazioni terroristiche, ma noi dobbiamo considerare che stanno attestati a trenta chilometri da Raqqa, in una posizione molto favorevole, e sono pronti a lanciare l'offensiva». Emanazione del partito dei lavoratori del Kurdistan turco (PKK), nemici giurati di Ankara, hanno anche una brigata femminile (YPJ, Unità di protezione delle donne) e si sono distinti nella gloriosa riconquista di Kobane. Assieme ad alcuni gruppi di ribelli arabi hanno costituito lo scorso 11 ottobre le "Forze democratiche siriane". A loro Le Drian vorrebbe fornire arsenali e consiglieri. Con l'appoggio della portaerei "Charles de Gaulle" e dei 26 velivoli che scorrazza nel Mediterraneo, potrebbero essere in grado nel giro di poche settimane, di arrivare nel cuore del califfato. Negli ultimi 15 giorni hanno strappato allo Stato islamico 1.100 chilometri quadrati di territorio ad est di Raqqa. L'inviato Usa per la coalizione anti-Is Brett McGurk ha annunciato l'imminente arrivo in zona di cinquanta uomini per missioni speciali, in grado di svolgere operazioni ad alto rischio. Nell'ipocrisia diplomatica darebbero un aiuto alle "Forze democratiche" e non al YPG, come se non fosse in pratica la stessa cosa. Finzione benvenuta se utile a conseguire un risultato sul quale gravano però due incognite. Intanto l'ostilità russa. Vladimir Putin ha nel mirino questi alleati dell'Occidente perché sì avversari di al-Baghdadi, ma contemporaneamente nemici del suo protetto Bashar Assad, il presidente di quel che resta della Siria rimasta sotto il controllo del governo centrale. E poi la geografia umana di Raqqa, dove abitano 250 mila persone e dove i miliziani fondamentalisti usano i civili come scudi umani per proteggersi. Un eventuale alto tributo di sangue della popolazione potrebbe alienare il consenso già minato dalla diffidenza nel caso che i "liberatori" delle genti sunnite fossero gli storici avversari curdi. Pur con tutte queste difficoltà, Raqqa è a portata di mano: espugnarla, darebbe un colpo fatale allo Stato terrorista.
POI MOSUL - L'altra "capitale" dello Stato islamico è Mosul, in Iraq, l'antica Ninive. Sarà la "madre di tutte le battaglie". Anche perché quella più difficile e, in prospettiva, finale. La recente conquista di Sinjar da parte dei peshmerga curdi iracheni e degli yazidi che ne furono cacciati (e fu un vero tentativo di genocidio) nell'agosto 2014, ha permesso di interrompere i collegamenti sull'asse Raqqa-Mosul. La coalizione mira anzitutto a isolare completamente l'obiettivo ma al momento incontra difficoltà ad allestire un esercito di terra locale che possa reggere un conflitto tanto impegnativo. Proprio dopo Sinjar sono esplose le rivalità tra due diverse fazioni curdo-irachene che insieme avevano raggiunto l'intento. Il vice-segretario di Stato americano Antony Blinken è volato a Erbil per cercare di risolvere il contenzioso. All'Eliseo minimizzano: «Fosse questo il problema...». Mentre mostrano assai più ansia circa l'esito dello sforzo, a loro avviso doveroso, per costringere sotto lo stesso comando i peshmerga e il disastrato esercito regolare iracheno, ancora fiaccato dalle disastrose sconfitte subite ad opera degli islamisti. «Ricostruire delle unità combattenti efficaci a Baghdad è un compito davvero arduo», riconoscono a Parigi, «dopo la sconcertante fuga di massa dei soldati davanti all'avanzata su Mosul delle truppe del califfo» (era il giugno del 2014). Proprio per questo una delle richieste più pressanti, all'Italia e non solo, è quella di istruttori (già ne abbiamo dislocati da tempo alcuni) che possano addestrare e motivare i militari da impiegare nell'"operazione Mosul". Mentre gli americani insistono sui carabinieri per un analogo lavoro con le forze di polizia delle città sunnite ancora sotto il controllo dell'autorità centrale.
L'ALLEATO SCOMODO - A nessuno piace evocarlo, anche perché sino a ieri faceva parte dell'"asse del male" (copyright, George W. Bush). Ma l'Iran è la carta di riserva sinora fantasma, da usare con cautela e in caso di assoluta necessità. In nome della fratellanza sciita controlla gran parte del sud Iraq e ha un'influenza decisiva sul governo di Baghdad. Dopo l'accordo sul nucleare Teheran è stata sdoganata ma non troppo, rientrata nel consesso internazionale ma non del tutto. I suoi militari sono già stati usati con parsimonia in funzione anti-Is a causa dello storico conflitto sciiti-sunniti che li rende invisi nelle aree da riconquistare. Il loro prepotente ingresso sulla scena segnerebbe il definitivo riconoscimento del regime degli ayatollah come potenza regionale, un incubo per Israele, un calcio ai già precarissimi equilibri. Però e vero che diverse autorità dell'Unione europea sono corse in Iran per saggiarne le intenzioni. E avrebbero strappato un "sì" a mezza bocca all'ipotesi di abbandonare al suo destino il protetto siriano Bashar Assad, in vista di un ridisegno complessivo dell'area più turbolenta del mondo: e in Siria al momento, a fianco del dittatore, si battono almeno duemila iraniani. Ma questo è uno scenario futuribile.
L'ALLEATO POSSIBILE - Chi ancora non molla Assad è la Russia di Vladimir Putin. Il contributo dello zar è considerato talmente prezioso dalla Francia che Hollande ha rinunciato all'idea tanto sbandierata in passato di porre il cambio di regime a Damasco come base di trattativa. Parigi sente Mosca più vicina non solo perché sono i due Stati più colpiti dagli attacchi dei terroristi ma anche perché sono i Paesi da cui è partito il maggior numero di combattenti stranieri per il califfato. Estremisti che potrebbero portare, domani, la guerra in casa. Inoltre gli aerei russi sono fondamentali per farla finita in tempi brevi con al-Baghdadi. Certo sarà difficile, per l'Eliseo, mettere a uno stesso tavolo Obama e Putin per quell'alleanza trasversale mondiale «la più vasta possibile» che si vagheggia. E l'abbattimento del jet russo da parte della Turchia complica le buone intenzioni. Washington non può e non vuole rinunciare ad Ankara che vede materializzarsi, negli sconvolgimenti annunciati, l'incubo di uno Stato curdo trasversale a Siria, Iraq e Turchia che amputerebbe una parte del suo territorio.
LE BOMBE. E DOPO? - La guerra si farà. Al di là di ipotesi di scuola come la successiva nascita di nazioni su base etnica, una sorta di balcanizzazione del Medio Oriente, nessuno ha ad oggi un'idea precisa di come gestire il dopoguerra, tallone d'Achille delle avventure belliche recenti. L'urgenza francese è quella di vendicare la Ville Lumière, togliere agli jihadisti interni, annientandolo, l'idea di potersi immolare in nome di uno Stato di riferimento, un'agghiacciante terra promessa totalitaria e terrorista dove vige la legge della Sharia. All'Hôtel de Brienne le energie sono tutte tese alla costruzione dell'impresa militare «indispensabile». Poi si vedrà: «Intanto liberiamoci di questi assassini».
(Fine prima puntata)
Scritto il 28 novembre 2015 alle 19:57 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 28 novembre 2015 alle 13:19 | Permalink | Commenti (0)
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Questo articolo di Alessandro Gilioli sulla periodica riscoperta della rete come alfa e omega di tutti i mali del mondo merita di essere letto con attenzione. Tanto per non ricadere ancora una volta nella sua colpevolizzazione come causa (o almeno strumento quasi unico) di tutti i mali del mondo. Anche una Panda, se uno si mette d'impegno, può diventare un'arma per compiere una strage. Basta lanciarla a 100 all'ora, nell'ora dello "struscio", nel "corso" di qualsiasi città di provincia italiana. Che facciamo, un editto per togliere dal mercato la Panda?. Meditate, gente, meditate... Tafanus
L’idea di sospendere o limitare alcune forme di comunicazione in Internet è ciclica dopo ogni attentato: se n’è iniziato a parlare negli anni Novanta, poi dopo le Torri Gemelle (2001), quindi a seguito delle mattanze di Madrid e Londra (2004-2005); e poche settimane fa l’ipotesi è stata di nuovo avanzata in Israele per evitare la propaganda degli accoltellamenti. Altrettanto rituale è la tentazione di procedere a controlli digitali di massa, sul modello di quelli messi in atto dalla Nsa americana. Dopo il 13 novembre di Parigi il dibattito è stato arricchito da alcune presunte modalità i contatto fra i terroristi jihadisti in Europa i quali, secondo il ministro belga Jean Jambon, userebbero la Playstation4, «più dificile da tracciare».
L’opzione di controllare di più Internet e di censurare i siti o le pagine social che invitano al terrorismo è immediata e intuitiva, quasi la prima cosa che viene in mente nell’emozione dopo ogni strage. Nel discuterne si potrebbe però tenere conto di alcuni elementi di rilessione che forse sono meno immediati:
1. È STATO PROVATO che il controllo digitale di massa non presenta un rapporto conveniente tra costo e beneficio. In altre parole, è come sparare migliaia di rafiche di cannone in cielo per abbattere un canarino. Lo spionaggio digitale funziona invece se e quando è mirato e se viene collegato a forme di intelligence di altro tipo. E questo al netto di tutte le questioni etiche e le dichiarazioni politiche (Onu compresa) contro la sorveglianza diffusa e il suo costo in termini di diritti civili. Tra l’altro, in Francia era appena stata varata una legge sul controllo digitale di massa tra le più severe del mondo, di cui i terroristi si sono fatti beffe.
2. BUONA PARTE degli spionaggi mirati (cioè su possibili terroristi, all’interno di inchieste della magistratura) avvengono proprio a partire dai siti e dagli account social che ora si ipotizza di oscurare. È possibile che chiudere alcuni speciici siti jihadisti in termini di sicurezza possa determinare un maggior vantaggio (grazie alla riduzione della propaganda) anziché un maggior danno (per la conseguente impossibilità di tracciare chi li frequenta e immette contenuti), ma è utile avere contezza anche della minor fattibilità delle indagini.
3. PER QUANTO RIGUARDA le comunicazioni dirette tra i terroristi, oggi è nel mirino la Playstation, ieri lo era Telegram, l’altro ieri Skype, domani chissà. La verità è che è praticamente impossibile, nella quantità ininita di potenzialità comunicative proposte da Internet, che si riesca a impedire a una o più persone di scambiarsi messaggi, a meno che non si decida di chiudere tutta la Rete. E, per quanto riguarda l’intercettabilità delle conversazioni, non si può ignorare che rendere accessibili alle intelligence i vari sistemi crittograici crea negli stessi una vulnerabilità poi sfruttabile anche per motivi politici e di repressione del dissenso; o da parte di altri soggetti, inclusi i pirati di dati. «Premesso che anche nel volto del nemico vedo rilessa l’immagine di Dio, chi viene a uccidermi deve sapere che saprò difendermi». Ma davvero sapremo e sappiamo difenderci? Il presidente francese Hollande a mezzanotte tra venerdì e sabato sembrava ispirarsi al generale De Gaulle, che però aveva letto Tacito e Giulio Cesare, prima di diventare leader: sapeva quindi cosa fossero la Storia e la Guerra. E Hollande? Dice Dan Diner, professore a Lipsia e Gerusalemme: «Oggi siamo capaci di oscillare tra lutto e bombardamenti dal cielo, ma non sappiamo prendere decisioni vere». Spiega: «Alla generazione dei nostri leader manca quella che possiamo chiamare “esperienza di vita e di storia”. Sono tutti il prodotto di una cultura che non contempla un conlitto vero». E ancora, «sembrano non aver esperienze esistenziali, non aver la capacità di discernimento: inteso come discernimento kantiano o alla Hannah Arendt, cioè nel senso di saper prendere decisioni pur sapendo di sbagliare. Questa mancanza fa sì che non siano capaci di capire che la scelta è sempre e soltanto tra il male assoluto e il male minore». Insomma, Diner, studioso anche della Shoah (e qui una lezione fondamentale per sapere che mai la scelta è tra il Bene e il Male) dice: per poter combattere bisogna avere un rapporto intimo con la storia. Ed è solo a partire da quel rapporto che è possibile assumersi delle responsabilità.
E allora, che fare con l’Is? «Prima di tutto dobbiamo capire che hanno qualcosa di autentico. Non in trmini teologici, ma perché le primavere arabe, cominciate con le barricate e il popolo che voleva decidere e partecipare, hanno inito per trasformare le barricate in conini identitari. L’Is è un esempio». E con questo il problema si riapre. Perché i conini identitari in genere prediligono la morte allo champagne.
(Alessandro Gilioli - l'Espresso)
Scritto il 28 novembre 2015 alle 11:11 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 28 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (0)
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Nella settimana in cui apprendiamo che Ezio Mauro lascia Renzubblica, e che al giornale arriverà Mario Calabresi (figlio del commissario Calabresi), voglio riproporre uno stralcio del post che ho dedicato - nell'ormai lontanissimo agosto 2007 - ad una trasmissione - a mio avviso oscena, condotta da Antonello Piroso su La7, ospite - per l'appunto, Mario Calabresi.
A Mario Calabresi non posso certo imputare la conduzione di quella trasmissione, ma l'ho ritenuto e lo ritengo responsabile di non aver ricordato a Piroso che prima di suo padre, il Commissario Calabresi, era morto tale Pinelli, e che quindi sarebbe stato il caso di esprimere dolore non solo per la morte del padre di Mario, ma anche alla moglie e ai figli dell'innocente Pinelli. Anche lui, aveva dei figli. Comunque si sia "suicidato", quel giorno, terzo giorno di fermo, non doveva essere in questura, ma o libero o in carcere imputato di qualcosa. Il fermo non poteva superare, per legge, le 48 ore.
A Mario Calabresi - al quale auguro di riuscire a fare di Renzubblica nuovamente Repubblica, chiedo però, con petulanza, di "scusarsi" di quella distrazione, anche se vecchia di oltre otto anni. I reati cadono in prescrizione, quasi tutti. I peccati no.
Tafanus
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(Dal "Tafanus" del 31 Agosto 2007)
Caro Piroso, complimenti per la trasmissione! (come ormai è obbligatorio dire). Lei questa sera ha preso una lodevole iniziativa, che è quella di intervistare, senza contraddittorio, il figlio del Commissario Calabresi, ucciso 35 anni fa perchè ritenuto da alcuni il responsabile del "suicidio" di Pinelli.
Particolarmente lodevole l'iniziativa di ricordare con mezzo minuto di silenzio che non tutte le vittime sono uguali, nel senso che mandanti ed assassini, una volta scontata la pena, hanno il diritto di ritornare ad una vita piena e normale, mentre Calabresi padre non c'è più, e il dolore della moglie e dei figli di Calabresi non si estingueranno mai. Fine pena, mai, come si scrive per gli ergastolani.
Bravo, condivido.
Smetto però di condividere quando lei si è scordato (scordato?) di associare, in questo nobile discorso e nel mezzo minuto di silenzio, altre vittime: la moglie e i figli dell'anarchico Pinelli. Perchè vede, tre cose sono emerse, negli anni, per tabulas, in maniera inequivoca:
-1) Pinelli, con la bomba di piazza Fontana, non c'entrava un cazzo.
-2) Pinelli, che veniva fermato ogni volta che c'era da dare rapidamente in pasto ai giornalisti un nome, è entrato in via Fatebenefratelli vivo, e ne è uscito morto.
-3) Pinelli, morto al terzo giorno di fermo, era nelle mani della questura e di Calabresi ILLEGALMENTE: il fermo di polizia aveva una durata massima, per legge, di 48 ore.
Io, vede, non do la colpa al Commissario Calabresi (rispetto le decisioni della magistratura SEMPRE, quando mi piacciono e quando non mi piacciono). Però è un dato di fatto che Pinelli, da quella stanza al quarto piano, sia uscito solo per sfracellarsi nel cortile della questura. E' un dato di fatto che bisogna mostrare "pietas" per i familiari di Calabresi, ma bisogna mostrarne almeno altrettanta per la moglie di Pinelli, alla quale LE ISTITUZIONI hanno portato via di casa un marito vivo, ed hanno restituito un cadavere, dopo esame autoptico.
Un Commissario di Polizia a Milano negli anni di piombo potrebbe anche aver dovuto mettere in conto (anche se questa cosa è crudele) il "rischio professionale" del mestiere. Un ferroviere no. E' anche per questo, e non solo per questo, che lei dovrebbe vergognarsi per l'incipit della sua trasmissione.
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Fine dell'auto-citazione. Caro Calabresi, nel mentre le auguro di riuscire a restituire la dignità perduta a "Repubblica", diventato il tazebao del renzismo, le chiedo ancora, con petulante insistenza, di fare ammenda per aver accettato supinamente l'impostazione data a quella trasmissione dall'inguardabile Antonello Piroso, e di non aver invitato il conduttore ad estendere i sensi della sua alta partecipazione anche alla moglie e ai figli di Pinelli, e non solo a lei, figlio del Commissario Calabresi. Perchè vede, in questa brutta storia, come i fatti - che sono più testardi delle opinioni - si sono occupati di dimostrare, se c'è un morto certamente innocente, questo è l'anarchico Pinelli.
I funerali dell'anarchico Pinelli (di Enrico Baj)
Tafanus
Scritto il 27 novembre 2015 alle 15:29 | Permalink | Commenti (3)
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Per la serie "armiamoci e partite"
Dall'Unirenzità e dai tiggì apprendiamo che mentre i francesi di trastullano coi Mirage, le portaerei, le bombe; i russi coi bombardamenti e - ripresi dai satelliti - cogli "scarponi nel fango", con una formazione di potentissimi carrarmati; gli americani con bombette e droni; i tedeschi con una nave a difesa della portaerei francese, e con i Tornado attrezzati anche per la visione notturna a infrarossi dei movimenti dell'Isis, Renzi (che - come è noto - è sempre il più intelligente di tutti), ha messo in campo l'arma fine-di-mondo: distruggerà l'Isis con la qultura: bombarderà la Siria e l'Iraq con l'ultimo libro di Bruno Vespa, l'opera omnia di Maria De Filippis, l'ultimo film di Panariello, la raccolta delle vignette di Staino, e coi post di Fabrizio Rondolino.
Inoltre, da vero esperto del ramo, metterà al servizio della coalizione anti-Isis, a spese dell'Italia, le competenze di Alessandro Ajello, campione italiano di playstation, di cui si dice un gran bene. Ecco cosa scrive di lui Renzubblica:
Si chiama Alessandro Ajello, è palermitano, ha 22 anni ed è lui il campione italiano di arti marziali su playstation. Dopo essersi aggiudicato il titolo al torneo italiano di Tekken 6 sbaragliando la concorrenza di 250 avversari, Alessandro ha battuto anche i più agguerriti campioni europei del picchiaduro per eccellenza entrando a far parte della rosa di campioni mondiali che volerà in Giappone per la finalissima del Tekken World Championship. L' avventura di Alessandro è cominciata con l' iscrizione al torneo italiano di Tekken 6, iniziato il 13 novembre. Dopo le eliminatorie di Milano, Torino, Roma, Viareggio e Biella, si sono scontrati a Milano i 16 più esperti conoscitori dei segreti di Tekken e, sbaragliando la concorrenza, il ventiduenne palermitano si è aggiudicato il primo posto.
Renzi terrà invece per se la delega a "wattsup", strumento moderno di lotta cul turale, specialità bellica sulla quale il nostro Persistente del Consiglio non ha rivali al mondo. Ma ecco la notizia dell'Unirenzità, che potete leggere integralmente cliccando sulla foto:
(Enrico Riccardo Montone - l'Unirenzità)
La cultura, la nostra arma contro il terrore - È la nostra unica e più grande forza, di fronte a chi nega i diritti e la dignità dell’uomo
I terroristi, nella loro visione monocroma, chiusa e divisiva nella società, hanno voluto colpire la città simbolo del pensiero liberale, scevro da ogni settarismo, dove ha germogliato il progresso nella sua accezione estesa all’anelito di uguaglianza degli individui.
Le persone uccise negli attentati del 13 novembre non sono solo vittime di una tragedia. Sono molto di più: loro, adesso, sono la nostra paura, la cappa pesante sulla nostra serenità. Sono il tremito che corre lungo la schiena, la fobia che serpeggia fra la gente, il tarlo che rode il nostro placido quotidiano. Sono la morte, il sangue, i proiettili, le scene di guerriglia urbana; sono il pasto degli sciacalli, gli scatti morbosi dei fotografi, la pornografia del dolore in cui tutto scade.
I morti di Parigi, come altre moltitudini prima di loro, vittime non della cieca follia, ma della logica lucida e terribile della violenza e dei suoi strumenti, non avrebbero voluto essere martiri di una guerra che non hanno voluto combattere. Non avrebbero voluto essere usati, estremo spregio, da chi sfrutta i morti per manipolare i vivi. Non esiste risposta militare risolutiva, dinanzi all’uso di uno strumento di violenza terroristica. La nostra unica e più grande forza, di fronte a chi nega i diritti e la dignità dell’uomo e semina terrore, è la cultura, la tranquillità e il coraggio di non cambiare, di restare umani. Non servirà radere al suolo altri villaggi, mandare droni sulle tracce dei tagliagole, perché la violenza lascia tracce profonde e le guerre che abbiamo condotto o che abbiamo fatto condurre da altri per procura, hanno inciso, fra macerie e povertà, cicatrici lente a rimarginarsi.
La risposta più straordinaria che possiamo dare, è che quei morti nella notte di Parigi possano significare, per noi, le porte aperte a chi fugge dalla violenza, il rifiuto di ascoltare chi parla di vendetta, il ripudio di fare dei popoli e delle diverse culture il proprio nemico. Che possiamo noi essere la loro spenta voce, e dire: impariamo a capire e a distinguere, senza che la rabbia ci conduca ancora una volta, anche noi, a falciare vite nel mucchio. Che possano, i morti di Parigi, ammonirci che non ci saranno vincitori né vinti, fra la gente, fra gli arruolati soldati semplici di questa stupida falsa guerra.
Scritto il 27 novembre 2015 alle 13:51 | Permalink | Commenti (1)
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Scritto il 27 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 26 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (5)
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La notizia che non t'aspetti è che Antonio Bassolino, dopo 5 anni di silenzio, e messo di fronte allo sfascio della sinistra a Napoli, torni in campo, e senza chiedere il permesso a nessuno.
La notizia che t'aspetti (ma quando arriva ti procura ugualmente dei leggeri conati di vomito), è che la badante di Renzi, tale Debora Senzacca Serracchiani, proponga nel giro di poche ore di cambiare le regole... Au moins la décence, Madame...
La notizia che non t'aspetti è che tale Umberto Ranieri, il trombato delle primarie del 2011 (sempre per la sindacatura a Napoli) da tale Cozzolino, critichi la scelta di Bassolino.
La notizia che non t'aspetti, e che è addirittura esilarante, è che sotto sotto Ranieri critichi la scelta di Bassolino per ragioni anagrafiche... Bassolino non è in linea con le politiche di rottamazione e di ringiovanimento del partito... (partito??? quale partito???). Già... mosso da qualche dubbio, sono andato a controllare...
Ranieri ha ragione. Ranieri è il nuovo che avanza, Bassolino è il pesce guasto che puzza.
Bassolino è nato addirittura il 20 marzo 1947, mentre Ranieri è molto più ggiovane, essendo nato solo il 24 Novembre... 1947. Quando si dice agire con sprezzo del ridicolo...
Ieri Bassolino è stato intervistato da Floris. Una lezione di stile, di etica politica e - last but not least - di ironia, a Ranieri, Serracchiani e dintorni... Pubblico uno stralcio dell'intervista, sperando che né La7, né youtube, abbiano obiezioni contro l'embedding di 9 minuti di una trasmissione durata alcune ore...
Scritto il 25 novembre 2015 alle 16:19 | Permalink | Commenti (1)
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Scritto il 25 novembre 2015 alle 12:23 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 24 novembre 2015 alle 21:25 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 23 novembre 2015 alle 21:54 | Permalink | Commenti (0)
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I due di cui sopra, non facevano parte di quel gruppo sedicente di sinistra che è il PD renzino? E il PD renzino non è quello che fino all'altro giorno ha scongiurato (e sottobanco continua a farlo) Pisapia di ricandidarsi a Milano?
Ma a sole 48 ore dall'annuncio della candidatura di Bassolino, i due senza-vergogna fanno la geniale scoperta della "norma anti-Bassolino": chi è stato già sindaco, non può presentarsi alle primarie.
E perchè mai? Ma chi è stato Presidente di Provincia, Sindaco, Presidente del Consiglio non eletto, può ripresentarsi alle primarie per la Presidenza del Consiglio? Quindi per la ricandidatura a sindaco Nardella è fuori? E con Pisapia come la mettiamo, gli mandiamo un tweet per dirgli che ha capito male, che nessuno lo ha pregato di ricandidarsi?
PD: la norma anti-sindaci non convince
Speranza e Cuperlo contrari, ma perplessità anche nella maggioranza
Ecco come l'Unirenzità, in un imbarazzato articoletto di oggi Mario Lavia parla della norma ad personam anti-Bassolino (si Lavia, si faccia e ci faccia una cortesia: chiami le cose col loro nome. Qui non stiamo parlando di "norma-antisindaci", stiamo parlando di "norma Anti-Bassolino". Ma davvero questa Serracchiani, portata alla ribalta dai talent-scouts Franceschini & Renzi, non si rede conto della enormità di ciò che dice? E Guerini afferra?
Questo l'articolo odierno di Lavia:
La sinistra interna già protesta. Ma perplessità si sentono anche nella maggioranza del Pd. L’idea prospettata oggi con due interviste da Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini non sembra convincere molto. “La proposta della segreteria, che sarà discussa nelle prossime settimane, prevede che chi è già stato sindaco non potrà candidarsi alle primarie”, aveva detto la Serracchiani a Repubblica. Una norma subito ribattezzata dai media “anti-Bassolino”, uno sbarramento ipotizzato a 48 ore dall’annuncio di Bassolino di candidarsi a sindaco di Napoli correndo ovviamente alle primarie.
“I problemi politici si affrontano con la politica, non cambiando le regole”, dice Roberto Speranza. Gli fa eco Gianno Cuperlo: “Quando si cambiano le regole ad personam non fa mai bene”.
E fuori verbale si registrano contrarietà alla norma anti-sindaci anche da esponenti della maggioranza. Così che – è la previsione che fanno alcuni, qualche minuto prima che inizi la Direzione – l’ipotesi più verosimile è che, alla fine, l’idea affacciata oggi dai due vicesegretari sarà rivista.
Mario Lavia
Ma ecco, per gli immemori, cosa lo stesso Mario Lavia aveva scritto appena ieri:
“Mi candido per unire Napoli”. 22 anni dopo Bassolino torna in campo Pd
Nel vuoto della sinistra di governo partenopea, l’ex sindaco e governatore si fa avanti per le primarie. Gelo dal Pd. Nel vuoto della sinistra di governo napoletana, ecco che Antonio Bassolino rompe gli indugi e si candida a sindaco. Pronto a chiedere il consenso per sé alle primarie. Forte ancora di memorie e consensi, forse più di memorie che di consensi. A tutti è chiaro che Bassolino scende in campo perché a Napoli non c’è nessuno più giovane, nel Pd («non è il nostro candidato», è trapelato ieri sera dal Nazareno) e nell’area del centrosinistra di governo, pronto a scendere in campo e a sfidare un Luigi de Magistris ringalluzzito proprio dall’assenza di alternative. «Fare il sindaco è stato l’impegno più grande della mia vita e sento il dovere di mettermi al servizio della città», spiega Bassolino.
È una buona notizia, non è una buona notizia? Diciamo che almeno si è gettato un sasso nello stagno, almeno se ne parla. A pochi mesi dalle primarie, il Pd non ha ancora scelto nulla e nessuno (e ora ben altre incombenze si affollano nella sua agenda politica, vero anche questo): ma se a Milano c’è una forte ipotesi – Sala – a Torino c’è la certezza-Fassino, nella stessa disastrata Roma, svoltato l’angolo-Marino, piano piano qualcosa si è ricominciato a fare, invece a Napoli tutto tace.
In questo senso, la scesa in campo di Bassolino non è buona notizia: nel senso che sancisce il fatto che in tutti questi anni – appunto, dalla fine del bassolinismo – la sinistra di governo napoletana non ha saputo tirare fuori granché. Un partito, quando il Pd era ancora della “ditta”, incapace persino di arrivare al ballottaggio, dopo quella vicenda confusa e poco commendevole delle primarie, un partito sempre attraversato da personalismi e lotte di vario tipo e perciò sempre più distante dalla società reale e incapace di ritirarsi su.
ll Pd di Renzi finora non ha saputo voltare pagina, a Napoli. Non sono venuti avanti nemmeno “renziani della seconda ora”, per dire, quella immancabile schiera di professionisti della politica vestiti di nuovo che almeno un po’ di politica la sa fare. Ad eccezione ovviamente di un De Luca croce e delizia – più croce che delizia – del Pd . E notizie di giovani emergenti non abbondano certo.
E nel deserto ecco Bassolino farsi avanti. «Napoli prima di tutto, di ogni interesse particolare. La crisi della città è infatti molto grave, è una crisi politica e civile, oltre che economica e sociale», scrive su Facebook. «Politica e civile deve dunque essere la risposta, chiamando a raccolta le forze migliori e valorizzando le energie giovani. Unire Napoli contro le troppe divisioni è la strada maestra per il futuro». Ci prova sul serio, uno come lui – ci sono io, pare dire al mondo – e d’altra parte il bagaglio ce l’ha, nessuno può negarlo, chi conosce Napoli meglio di lui, uno che era segretario della Fgci napoletana negli anni Sessanta figurati come la conosce, “don Antonio” poi gran simbolo della vittoria di 22 (ventidue!) anni fa contro la Giorgia Meloni dell’epoca, Alessandra Mussolini, mentre Rutelli a Roma sconfiggeva addirittura l’allora capo della destra italiana Fini, Bassolino fu un ottimo sindaco, e poi per altri otto lunghi anni un Governatore della Campania con luci e ombre: ma via via il suo interminabile governo finì per impallarsi, stretto fra emergenza rifiuti, disagio sociale, criminalità sempre forte e sistema di potere ossificato.
Non finì bene, il lungo regno bassoliniano, e a poco serve dire che chi venne dopo di lui non migliorò per nulla la situazione all’ombra del Vesuvio. Come in una strana maledizione, negli anni di un grande Presidente della Repubblica napoletano, Napoli è scivolata via dall’orizzonte della sinistra, preda di emergenze e arruffapopoli, clientele e cosentinismi, disoccupati organizzati, Gomorra e menefreghismo. Con Roma sempre più lontana, beninteso. E la sinistra sparita.
Bassolino si ritirò, rimanendo sin qui molto schivo e riservato. Ha superato amarezze, malattie, solitudini. Soprattutto, è stato assolto da tutto. Non molti si sono scusati con lui, forse nessuno, di quelli che lo accusarono di svariati reati. Ha anche scritto un bel libro su questi suoi anni non facili, “Le Dolomiti di Napoli”. Ora questo ritorno, che come tutti i ritorni ha insieme qualcosa di eroico e qualcosa di triste. Come sanno i vecchi attori che ebbero successo ma da tempo sul viale del tramonto.
Un grande sindaco di vent’anni fa – la governava lui la Napoli della grande cultura, la Napoli ripulita per il G8, la Napoli dove si andava col sorriso sulle labbra – può essere ancora vincente? Difficile che la storia si ripeta, molto difficile. Ma tutto ciò ci parla della crisi della politica, se per cercare il futuro non resta altro che voltarsi indietro.
Rutelli è molto attivo a Roma, Bassolino si candida a sindaco di Napoli. Nulla di male. Adesso tocca al Pd rispondere: perché la sfida della generazione dei rottamati è un monito severo, per i rottamatori. (Mario Lavia - 22 novembre)
E per finire, questa la lettera che ho inviato a l'Unirenzità (e che non sarà pubblicata):
a: [email protected]
La Serracchiani e Guerini dovrebbero arrossire, ma non credo che ne siano capaci. La regoletta valeva anche per Pisapia, scongiurato di ricandidarsi? Varrà, a suo tempo, anche per Nardella? E varrà per Renzi la regola che chi è stato presidente di provincia, sindaco, presidente del consiglio non votato da nessuno, non possa e non debba presentarsi alle primarie per la presidenza del consiglio?
Renzi, me lo lasci dire: Serracchiani e Guerini sono due senza-vergogna, e io sono curioso di capire cosa risponderà (se risponderà) lei. Avrà il "comune senso del pudore", o farà il "follower di queste due facce di bronzo?
Con la massima disistima,
Antonio Crea, alias Tafanus
Scritto il 23 novembre 2015 alle 18:53 | Permalink | Commenti (2)
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Scritto il 23 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (0)
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...le vittime della strage hanno, amici parenti, figli. Come il nostro collega Antoine Leiris, giornalista di France Bleu. Sua moglie Helene era al Bataclan, e lì è stata uccisa...
Su Facebook lei ha pubblicato una lettera ai terroristi in cui dice: non avrete il mio odio. Quando ha deciso di scriverla?
"Ho visto finalmente Helene lunedì mattina, rivederla mi ha fatto un bene che non potevo immaginare. Pensavo che era morta ma al tempo stesso sentivo che il nostro nido esiste ancora e che in qualche modo potremo continuare a vivere insieme. Ho preso nostro figlio Melvil che ha 17 mesi all'asilo, siamo tornati a casa per mangiare, mi sono messo al computer e le parole sono uscite da sole. Solo dopo ho scoperto cosa era diventato il mio messaggio. Quando Melvil è andato a dormire ho cominciato a ricevere decine di messaggi dal mondo intero e solo allora mi sono reso conto che quello che avevo scritto aveva toccato il cuore".
Parlando ai terroristi scrive: avete ucciso l'amore della mia vita ma non avrete mai il mio odio. Forse sono proprio queste parole che hanno colpito gli internauti.
"Mi sembrava la miglior risposta: non avranno mai quello che cercano, continuerò a vivere la mia vita, ad amare la musica, ad uscire. Non voglio che mio figlio cresca nell'odio, nella paura e nel risentimento. Gran parte di me è andata via con Helene quel giorno, quello che di resta di me è per Melvil, per lui sono obbligato a dimenticare odio, risentimento e collera. Se lui crescesse così diventerebbe quello che loro sono diventati: gente cieca, violenta che preferisce le scorciatoie al cammino più complesso della riflessione, della cultura. Gente che si rifiuta di vedere il mondo come è: magnifico".
Scrive agli assassini: questo bambino vi farà l'affronto di essere felice.
"Vi racconto un aneddoto. Chiunque vi parlerà di Helene vi racconterà che aveva uno sguardo immenso, occhi grandi che mangiavano letteralmente il volto. Melvil è nato con gli occhi già aperti. L'idea, quello che volevo trasmettere, è che lo aiuterò a tenerli aperti sulla cultura, libri, musica, arte e su tutto quello che fa vedere il mondo come un prisma, l'opposto di come lo vedono i terroristi. Voglio donargli questa apertura perché così avrebbe voluto, e in realtà ha già fatto, Helene: perché Melvil adora le storie e la musica. Continuerò a tenere gli occhi aperti per lui. Spero di dargli armi di carta, di penna, di note e non kalashnikov".
Dice: non sacrificherò la libertà alla sicurezza.
"Sì, non vorrei avere l'aria di essere un superuomo, non lo sono anche perché oggi dico questo, magari dopodomani dubiterò e anche io sarò tentato dall'odio, dalla paura. Helene era stata molto colpita dagli attentati di gennaio, è stata una delle persone che ho visto reagire con più compassione e umanità, per tutti. Penso che bisogna fare lo sforzo di scegliere il cammino più lungo, complesso, duro. Quello della ragione, della riflessione e del perdono, quello di continuare a vivere. Magari domani avrò dubbi, e commetterò degli errori ma almeno avrò questo pensiero a guidarmi".
Ecco il post pubblicato su Facebook:
"Venerdì sera avete rubato la vita ad un essere eccezionale, l'amore della mia vita, la madre di mio figlio ma non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale voi uccidete ciecamente ci ha fatto a sua immagine, ogni proiettile nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi volete che io abbia paura, che guardi i miei concittadini con un occhio diffidente, che sacrifichi la mia libertà per la sicurezza.
Ma la vostra è una battaglia persa. L'ho vista stamattina. Finalmente dopo notti e giorni d'attesa. Era tanto bella cosi come quando è uscita venerdì sera,tanto bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di breve durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, io e mio figlio, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo.
Non ho più tempo da dedicarvi, devo raggiungere Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha 17 mesi appena, e farà merenda come tutti i giorni, poi andiamo a giocare insieme e per tutta la sua vita questo piccolo ragazzo vi farà l'affronto di essere felice e libero. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio!".
Fonte: napolimagazine da Repubblica
Scritto il 22 novembre 2015 alle 19:06 | Permalink | Commenti (0)
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Taglio del nastro per la pista ciclopedonale di Nova Milanese, quella scelta e finanziata dalla Regione per raggiungere in maniera ecologica Expo 2015 (Fonte: ilcittadinomb.it)
L’intervento di Nova, insieme a quello gemello di Palazzolo a Paderno Dugnano, è stato pensato proprio per implementare e incentivare gli spostamenti senza auto.
Lungo corsi d’acqua come il Villoresi che ha contribuito a creare le vie d’acqua, uno dei fattori di maggior successo e suggestione della grande esposizione internazionale appena chiusa. E il sindaco Rosaria Longoni, ma anche il vertici del Parco Nord e del Parco del Grugnotorto non sono mancati al taglio del nastro della pista di via Dalmazia. Duecento metri di percorso sul versante sud del Villoresi che conducono direttamente alla Roggia di San Martino, a sua volta recentemente recuperata dopo decenni di abbandono e discariche abusive.
Duecento metri che dopo la chiusura della vicina Nova Ambiente, la fabbrica degli odori e delle irregolarità, assumono un significato anche più importante simbolico per chi da anni si batte contro l’inquinamento prodotto dal sito di smaltimento rifiuti di via Galvani. E mentre le autorità e i cittadini procedevano con l’inaugurazione, decine di sportivi hanno continuato a percorrere entrambi i lati di pista ciclabile che costeggiano il Villoresi. A riprova che opere del genere sono richieste, necessarie e gettonate. Non solo per motivi di recupero e attenzione ambientale.
Pier Mastantuono
Per piacere, niente facili ironie. Le popolazioni di Nova, Palazzolo e Paderno Dugnano saranno eternamente grati a chi ha fortemente voluto l'Expo, e a chi ha completato in tempo (...insomma... in tempo per l'Expo 2040), questa Grande Opera. Glia abtitanti delle tre metropoli che hanno partecipato al progetto stanno pensando di costruire un monumento al Commissario Straordinario Sala, il quale adesso potrà portare come prova del successo dell'Expo non solo le code di dieci ore al padiglione giapponese, ma anche i duecento metri (METRI) della Grande Pista Ciclabile, di fronte alla quale la Grande Muraglia arrossisce per la vergogna.
Sala For President!
Tafanus
Scritto il 22 novembre 2015 alle 16:54 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 22 novembre 2015 alle 13:30 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 22 novembre 2015 alle 08:01 | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "MUSTANG" (di Angela Laugier)
Regia: Deniz Gamze Ergüven
Principali interpreti: Günes Sensoy, Doga Zeynep Doguslu, Elit Iscan, Tugba Sunguroglu, Ilayda Akdogan – 94 min. – Francia 2015.
Dopo i saluti e gli abbracci rituali agli insegnanti, ecco la festosa baraonda degli studenti a conclusione dell’anno scolastico; le vacanze in vista e, ora, in piena libertà, tutti al mare, a ridere, a scherzare, a spruzzarsi, a giocare con l’acqua, a immergersi e a riemergere! Così, gioiosamente, i ragazzi e le ragazze vivono il loro presente, allontanando, per una volta, i problemi del futuro, come i cavalli selvaggi e indomiti delle praterie richiamati nel titolo del film. Siamo sulle sponde del Mar Nero, in Turchia, lontani da Instanbul, la capitale, dove andrà a vivere l’ insegnante più amata da Lela, la giovanissima (è poco più di una bambina) e inquieta sorellina di altre quattro ragazze orfane, che si apprestano a tornare a casa dalla nonna e dallo zio che si prendono cura di loro. Quale ambiente le attenda si vede subito: accolte a ceffoni, una dopo l’altra, prima ancora di entrare in casa, per la grave colpa di aver giocato e scherzato con i maschi, ponendosi addirittura a cavalcioni sulle loro spalle, sia pure vestite di tutto punto. Qualche pettegolo aveva visto e raccontato alla nonna dei loro comportamenti scandalosi, facendo balenare il rischio che nessuno se la sentisse più di sposare ragazze così pubblicamente compromesse! Alle botte, si era aggiunta perciò la visita per certificare, con tanto di timbro, la condizione di verginità della più “vecchia” delle sorelle, la prima che se ne sarebbe andata di casa, dopo la rituale trattativa fra le famiglie, che a quanto pare non intendevano mettere in discussione il carattere puramente contrattuale del matrimonio, adeguandosi alle tradizioni che non prevedono né il parere degli sposi, né, tantomeno, quello delle donne. In Turchia, paese che chiede l’ingresso in Europa, non va dappertutto così, per fortuna, ma va così nelle campagne, legate alla proprietà ancora feudale della terra e delle donne, come ci aveva ben detto, dietro le immagini simboliche, il bel film di Nuri Ceylan, Il regno d’inverno, che degli abitanti ricchi e acculturati di quelle terre remote e isolate ci aveva presentato la mentalità retriva, dura a morire, condizionata da un controllo sociale tanto stretto quanto ipocrita. Di fronte alla ottusa e violenta repressione familiare, che tenta di imbrigliare l’incantevole esuberanza delle giovinette, riducendone gli spazi vitali dentro una rete di muri e reticolati, nonché di mortificare la sensualità dei loro corpi giovani dentro orribili abiti senza grazia, la ribellione non si farà attendere: sarà la piccola e indomabile Lela la protagonista della fuga rischiosa verso Instanbul alla ricerca dell’amata insegnante che l’aveva educata alla libertà e anche della conferma, come nel Medioevo feudale, che la città rende liberi!
* La scuola è oggi un ente pubblico sotto la responsabilità del Ministero della cultura e della comunicazione.
Angela Laugier
Scritto il 22 novembre 2015 alle 07:59 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 21 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (0)
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L'Espresso in edicola oggi raccoglie i pareri di molti esperti francesi sulla questione Isis. Come finirà? Questo articolo va letto con attenzione, perchè dice cose di assoluto buonsenso, spesso in contrasto col pensiero dominante. Noi siamo d'accordo su molti punti dell'articolo.
Di mio aggiungo un ricordo... La Milano degli anni di piombo ha vinto quando la gente ha smesso di aver paura di uscire dopo le otto di sera, ed ha ricominciato a vivere normalmente, a ricreare da "movida", a non vedere in ogni auto affiancata al semaforo un potenziale assassino armato di P38. Nel mondo il terrorismo non ha MAI vinto. Non hanno vinto i NAR, le BR, l'IRA... Il mondo civile vince quando smette di aver paura del terrorismo. Il terrorismo si nutre del terrore delle persone normali. Se una telefonata di un qualsiasi scalzacani basta a fermare due aerei, un treno, a svuotare uno stadio, il terrorismo ha già vinto. Dobbiamo riconquistare la capacità di avere il senso delle proporzioni: nel mondo c'è un miliardo e mezzo di musulmani, ma i banditi Daesh sono 40/50.000. Allora i musulmani normali ci dimostrino di avere le palle, e di riuscire ad emarginare, denunciare, spiare coloro che rappresentano lo 0,003% degli appartenenti alla loro religione. La vera rivoluzione contro il terrorismo islamico deve cominciare da loro. Tafanus
Lacrime sui morti del Bataclan
La Francia si sta già rialzando, con il suo orgoglio di sempre. Ma sa che altro sangue scorrerà. E che per scacciare l'incubo ci vorranno anni. Forse decenni. E bombardare dal cielo non basta. Ai tempi di Bin Laden, il mondo arabo guardava ad Al Qaeda con simpatia. Oggi è diverso. E anche tra i musulmani sta crescendo una classe media stanca di guerra. L'opinione di un grande intellettuale francese (di Paolo Pellegrin - l'Espresso)
Sotto il peso di essere diventata, ancora di più, il simbolo universale dell'Occidente, Parigi si rialza per essere all'altezza delle aspettative e della sua storia. Sui social si rincorrono inviti che sono quasi ordini: «Uscite di casa». La casa è diventata, soprattutto nel weekend dopo Bataclan, l'ultima trincea, l'ultimo luogo in cui sentirsi sicuri dopo che erano stati violentati gli spazi pubblici: caffè, ristoranti, strade, teatro, stadio del calcio. Si misurano le differenze col gennaio di "Charlie Hebdo". Allora c'era stata una risposta immediata che aveva una valenza politica, pubblica, la grande manifestazione, i valori della libertà di stampa da difendere, l'orrore di toccare con mano dove può arrivare l'antisemitismo con l'assalto all'ipermercato kosher. Oggi i "citoyen" tutti, indiscriminatamente, si sono rivelati target e la reazione istintiva è stata intima, individuale. Come se i boulevard fossero ostili, i locali delle trappole, i luoghi dei grandi assembramenti una provocazione per i jihadisti.
Non poteva durare. I parigini hanno visto la loro città piegata e ci hanno messo poco a concludere che non ha senso, la metropoli, senza il sangue che le scorre nelle vene, la gioia di vivere, gli appuntamenti, la socialità. Hanno ripreso a scendere per strada convalescenti, ammaccati, ma in piedi. E con quella ferita sulla carta geografica, la mappa degli attentati (venerdì 13 novembre, 129 morti, 352 feriti), che taglia in verticale da nord a sud la riva destra della Senna, quasi ricalcando il gennaio, come se ci fosse stata, da parte dei basisti, la cattiveria aggiuntiva di infierire sulla stessa area di dolore. Ci si affeziona però alle proprie ferite, così come si ha una maggiore attenzione verso un figlio più debole. Meno gridata, meno spettacolare dell'altra volta, ma la processione per onorare i morti è incessante, persino più sentita perché l'identificazione è più facile e provoca empatia profonda: potevo esserci io a quel concerto, al tavolo di quel ristorante. Mentre non potevo essere ebreo o un vignettista di "Charlie Hebdo".
La prima volta, non in assoluto: la prima del terrore urbano ai tempi del sedicente Stato islamico, atterrisce ma può essere catalogata come una (relativa) sorpresa, ci si può affidare al caro slogan del "mai più". La seconda uccide l'illusione, annuncia la terza, la quarta... Autorizza la politica, fraternamente abbracciata per "Charlie", a rompere subito l'unità nazionale e a rinfacciare colpe, peccati di omissione, soprattutto se ci sono scadenze elettorali (le regionali a inizio dicembre) e sullo sfondo l'appuntamento delle presidenziali (2017) per cui si fanno i calcoli. I cadaveri per strada favoriscono Marine Le Pen, già in vetta ai sondaggi? Ridanno speranza a uno sfiatato François Hollande ora comandante in capo? Rilanciano le ambizioni di un Nicolas Sarkozy da subito critico nei confronti dell'Eliseo? Domande che si rincorrono nell'eterno sciovinismo francese di credersi ombelico del mondo. Mitigate però stavolta dalla necessità di pensare globale.
Nessuno rimprovera a Hollande la fuga in avanti sulla Siria, l'esporsi e l'esporre il Paese alle ritorsioni di Daesh (nome arabo dell'Is), non fosse altro perché erano largamente condivise dall'opinione pubblica, nella riedizione in salsa socialista di una grandeur che sta nel dna transalpino anche quando non è più corroborata dal peso specifico sullo scacchiere internazionale. Forse, implicitamente, se lo è rimproverato lo stesso presidente, nel suo discorso di lunedì 16 novembre a Camere riunite nella maestosa cornice di Versailles. Ha chiesto che l'Unione europea lo affianchi nella "guerra" e annunciato che renderà visita a Barack Obama e Vladimir Putin per costruire una coalizione in grado di annientare l'autoproclamato califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Non ha mai pronunciato l'espressione tabù "truppe sul terreno" secondo molti analisti militari la via più rapida per annientare quell'entità totalitaria nel nome di Allah.
Del resto Obama aveva messo le mani avanti per negare il ritorno di soldati Usa nell'inospitale terra tra il Tigri e l'Eufrate. Stando ai consiglieri dello stesso Hollande la strategia, sebbene sibillinamente esposta e con molti omissis, è chiara. L'esercito "nostro" è quello dei peshmerga curdo-iracheni, da noi armato, rifornito e foraggiato. Oltre che appoggiato dall'alto dai bombardamenti aerei (saranno intensificati). La sinergia cielo-terra, dopo qualche problema iniziale, è stata raffinata e sta funzionando sempre meglio. Non a caso al Califfo è stata appena strappata la fondamentale Sinjar. Lo stesso schema, è la novità, sarà ora ripetuto coi curdi-siriani e altre formazioni anti-Daesh che, opportunamente addestrate, sarebbero in grado a breve di scatenare un'offensiva contro Raqqa, la capitale dello pseudo-Stato.
Dunque niente scarponi nel deserto nemmeno dei militari d'Europa. Hollande chiede (anche a noi italiani) l'aviazione per dividere i rischi: da Renzi ha ottenuto una risposta fumosa e dilatoria. Il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian, il più amato dai soldati tra quelli che si sono succeduti alla carica, ha chiesto e ottenuto da Bruxelles martedì 17 novembre l'applicazione dell'articolo 42.7 del Trattato dell'Unione Europea sulla solidarietà in caso di aggressione. È la prima volta che viene invocato ed ha un valore simbolico: questa è una guerra europea mentre gli americani si defilano sempre più dal Medio Oriente. Sugli effetti pratici c'è da dubitare. Su un sostegno convinto dei partner sono scettici persino all'hotel de Brienne la sede del dicastero. Come Renzi, anche gli altri leader del Vecchio Continente sono dei "bombardieri riluttanti". Ma ai francesi basterebbe l'impegno a sostenerli nella logistica, soprattutto a sostituirli nelle missioni in Centrafrica e Mali per permettere loro di spostare uomini e mezzi in Siria. Ne avranno bisogno. Al ministero fanno notare: «Finora abbiamo colpito in modo debole. Ora lo faremo in maniera molto più massiccia ed efficace». Ci vorrà tempo ma vorrebbero aprire, dal cielo, la strada per la riconquista di Mosul alle truppe dei peshmerga e dell'esercito iracheno ancora in formazione. «Sappiamo che non sono propriamente amici, ma vedremo di farli andare d'accordo».
MAI PIÙ NEL PANTANO - Si può vincere la guerra così? Forse, ma serve molto più tempo rispetto a un intervento diretto. E comunque pare non esserci alternativa, nemmeno dopo Parigi. Le democrazie non possono permettersi bare coperte con la bandiera nazionale, pena la fine del consenso. Hugues Portelli, professore di studi politici e senatore della destra sarkozysta: «È fuori di discussione l'invio di soldati. Useremo le forze armate dei Paesi limitrofi. Cercando nel contempo di troncare le incredibili complicità di cui Daesh dispone in Medio Oriente e non solo. Tra noi europei dobbiamo invece aumentare la cooperazione a livello di intelligence. Non può essere così poroso il confine col Belgio dove i fondamentalisti passano indisturbati. Infine dobbiamo rafforzare il sistema giudiziario dando certezza alle pene. Uno degli attentatori del 13 novembre era stato riconosciuto responsabile di otto reati e non si era fatto un giorno di prigione».
Nel ragionamento complessivo Portelli unisce due questioni comunicanti e diverse. Racchiuse dal duplice interrogativo: che fare in Siria? Che fare in casa? Torniamo al primo e all'ipotesi senza piano B di vincere con gli eserciti-taxi appoggiati dai nostri caccia. Al ministero della Difesa francese stimano che i combattenti del Califfo siano tra i 30 e i 40 mila, compresi i miliziani della brigata internazionale convenuti da ogni dove. Sotto il dominio dell'Is vivono circa 10 milioni di persone, centomila dei quali possono essere mobilitati in caso di emergenza e comunque non sono efficaci in battaglia come i fanatici superaddestrati. Non proprio una superpotenza dunque.
Jean Jacques Roche, direttore dell'Istituto di alti studi di difesa nazionale, uno dei più apprezzati analisti di questioni belliche, osserva: «Pesa il precedente del Golfo quando l'Occidente inviò 150 mila uomini e si ritrovò nel pantano. E allora c'era almeno un mandato delle Nazioni Unite che qui non è in vista. Soprattutto dopo l'esperienza libica, Cina e Russia non saranno mai d'accordo. Non è ancora chiaro, inoltre, quale sarebbe il mandato, la strategia per il dopo. Contro lo Stato islamico, a oggi, c'è una coalizione eterogenea di alleati alcuni dei quali ambigui come Arabia Saudita e Qatar che al terrorismo sunnita hanno spesso strizzato l'occhio».
La diplomazia si occupi dunque di queste incongruenze, della Turchia che attacca più i nostri partner curdi del Califfato, al quale permette di commerciare il petrolio sul mercato nero per gonfiare le casse e pagare i miliziani. Tempi comunque medio-lunghi: e nel frattempo lo Stato islamico continuerà a essere la patria di riferimento per cui immolarsi agli occhi dei jihadisti europei. Roche ascolta e mette le mani avanti: «Capisco che possa sembrare molto cinico ciò che dirò, ma bisogna pur dire la verità». Che sarebbe? «Adesso c'è un'emozione molto forte ed è comprensibile. Però io da studioso devo analizzare freddamente i dati che dicono questo: il numero di vittime per terrorismo in Europa non è superiore a quello degli anni Settanta. Noi francesi abbiamo già avuto esperienza in passato sia con la guerra d'Algeria sia con il Gruppo Islamico Armato algerino (Gia) degli anni Novanta. È vero che nel 2015 tra "Charlie" e il 13 novembre c'è stata un'impennata, ma non tale da mutare le statistiche. E non è vero che le nostre intelligence non funzionano: solo nel 2015 hanno sventato 152 attacchi». Professore, sarà statistica ma è ben poco rassicurante e non consolerà i parenti delle vittime del teatro Bataclan... «Certo è stato terribile. Ma non esiste il rischio zero. E si va avanti, come hanno fatto i madrileni dopo i 200 morti della stazione di Atocha, nel 2004».
UNA COMUNITÀ COMPATTA - Il problema per ora è "come" andare avanti. Il realismo cinico di Roche è estremo. Con formule diverse e meno urticanti nessuna autorità pubblica (compreso il premier Manuel Valls) può promettere il "mai più". I parigini lo hanno capito e corrono ai ripari. Olivier Duran, il portavoce del sindacato delle imprese di sicurezza, valuta un più 30 per cento di richieste di guardie da parte di imprese e associazioni che non rientrano nel piano di protezione varato dal governo. Hollande chiede di cambiare la Costituzione, allungare lo Stato di emergenza di tre mesi e promette l'assunzione di cinquemila agenti. E il deputato della destra Eric Ciotti gli fa notare almeno l'incongruenza tra le dichiarazioni di principio e il fatto che il budget sicurezza per il 2016 è stato aumentato di un misero 0,96 per cento, in cifra assoluta 117 milioni di euro.
Se il rischio zero non esiste, compito dello Stato è tuttavia quello di mettere in campo tutti gli sforzi possibili per abbassare al massimo il pericolo. E un forte contributo ci si aspetta da una comunità musulmana moderata (cinque milioni di persone) stavolta compatta nel condannare la carneficina senza se e senza ma, a differenza del dopo "Charlie", quando in taluni resisteva l'alibi dell'offesa al Profeta. Nella rabbia immediata alcune moschee sono state devastate, ma nel complesso in Francia non è scattata alcuna caccia all'islamico e i rappresentanti di un "Movimento sunnita mondiale" possono marciare in place de la République a fianco dei parigini con lo slogan: «Bisogna salvare ogni vita umana».
RICOMINCIARE DALLE PERIFERIE - Uno scenario di scontri interfrancesi era proprio quello più temuto da Jean Pierre Filiu, professore a Sciences Po e tra i maggiori esperti internazionali dell'Islam: «Quello che vogliono gli autori degli attentati sono le rappresaglie, che si uccidano i musulmani per le strade. Vogliono la guerra civile in Francia». E sarebbe un'apocalisse solo minore all'altra pure temuta dall'esperto: «Soprattutto non mandiamo truppe. Sarebbe la replica di Bush 2003 e con gli stessi effetti nefasti. Intanto non sarebbe efficace e inoltre cadremmo nel tranello. Il secondo scopo del Califfato è di attirarci lì per la resa dei conti». Il Medio Oriente alimenta l'odio in banlieue dove, secondo lo storico Andrew Hussey esattamente dieci anni fa ci fu il preludio di oggi con la rivolta che le devastò. Spiega Roche che quelle periferie «esistevano anche negli anni Settanta-Ottanta, abitate da gente pacifica poi sostituita dagli attuali inquilini che si sono organizzati in modo "communitario" e hanno cominciato a radicalizzarsi». Da lì deve partire qualunque progetto di riconciliazione tra vecchi e nuovi francesi.
Quanto al resto, il 13 novembre è stato la cartina di tornasole di una Francia che voleva tornare iperpotenza, come durante la grandeur coloniale, e non ce la fa a sostenere il peso di tanta responsabilità. In Libia (Sarkozy), Mali (Hollande), Siria (ancora Hollande) il comandante in capo ha avuto una tattica del breve periodo, del dividendo di prestigio iniziale. Poi è calata la nebbia.
Ci diciamo tutto o quasi. Da quando vado in quel negozietto di alimentari tunisino, a tarda ora, a prendere il pacchetto del caffè che mi è finito o la bottiglia di scotch che mi aiuterà a portare a termine l'articolo, siamo diventati amici, e sabato sera era un vulcano in eruzione. «Quei tipi, quei bastardi, quei coglioni, quegli assassini che ci coprono di vergogna, li farei a pezzi! Ah, parola mia, se Hollande volesse ristabilire la tortura e la pena di morte, io lo appoggerei!». I figli approvano con lo sguardo. Tutte le generazioni d'accordo, in questa famiglia conservatrice e religiosa che alle elezioni tunisine del 2011 aveva votato per gli islamisti di al-Nahda e adesso vuole "ammazzarli tutti e subito". Una bella differenza dal gennaio scorso.
Quando c'è stato l'attentato a "Charlie Hebdo", pochissimi musulmani di Francia avevano approvato gli omicidi ma… non lo dicevano, o comunque lo dicevano di rado. "Charlie" aveva fatto la caricatura del Profeta, insultato la fede, sbeffeggiato l'Islam. Probabilmente i suoi vignettisti non meritavano la morte, no, ma di qui a dire "Je suis Charlie", di qui a condannare i loro assassini, c'era un passo che molti non si sentivano di fare perché - come si leggeva sui giornali e si sentiva all'uscita dei licei dei sobborghi - la religione è sacra.
Da venerdì, su Internet non si vede niente del genere. Lo Stade de France, il decimo e undicesimo arrondissement di Parigi, il mitico Bataclan dove suonano i gruppi più moderni, si possono anche non frequentare. Troppo cari, troppo lontani, troppo parigini per un ragazzino dei sobborghi, ma non per questo fanno parte dei luoghi di cui i profiler scartano i giovani arabi. Al contrario, sono luoghi di aggregazione mista, dove si mescolano giovani di ogni estrazione, tutti vestiti allo stesso modo e tutti che condividono lo spirito del tempo.
Gli attentatori di venerdì se la sono presa molto esplicitamente con questi "luoghi di depravazione", mescolando la loro conoscenza di Parigi con la missione di uccidere, e questo no, non è più accettabile per i musulmani di Francia che per il resto della popolazione. Questo è ripugnante per tutti, musulmani compresi, e quei bersagli troppo ampi, troppo giovani, troppo innocenti di tutto, troppo rappresentativi di una Francia mista dove l'odio razziale è, di fatto, profondamente assente; è un grosso errore da parte di Daesh.
La Francia ha paura, certo. Non c'è bisogno di essere esperti di terrorismo o di relazioni internazionali per sapere che potrebbero seguire altri attentati e che quelli di venerdì sarebbero potuti essere dieci volte peggio se quello allo Stade de France non fosse andato storto. Impossibile, in queste condizioni, ritrovare la spensieratezza di un paese dove la sicurezza tra i tavolini all'aperto dei caffè era data per scontata come l'acqua corrente. La Francia è segnata. Anche nelle terre dell'Islam la gente è sconvolta per la sua ferita, ma questi attentati significano che il jihadismo potrebbe essere in fase ascendente e il pericolo starebbe aumentando?
La risposta è no. Al di là dell'orrore e dello sgomento del momento, per poco che si riesca a salire di quota e guardare oltre, la realtà è che il jihadismo non può andare da nessuna parte se non contro un muro.
DAI "FRATELLI" A OSAMA - Niente fraintendimenti, però! Ancora per un po', e certo troppo a lungo, continuerà a reclutare, a colpire e a uccidere. La sua morte non è in programma per domani. Ma risaliamo indietro negli anni. L'islamismo nasce all'inizio degli anni Trenta con la creazione dei Fratelli Musulmani in Egitto, un movimento il cui successo folgorante si sarebbe presto diffuso in tutto il Medio Oriente, allora dominato dalle potenze coloniali. Per i suoi promotori, lo scopo non era certo di uccidere tutti e dichiarare guerra all'Occidente, bensì di riaffermare l'identità delle nazioni arabe e di rafforzarne i legami nella religione, la loro identità comune.
I Fratelli non volevano saperne del comunismo, del socialismo o del liberalismo e di nessuna di quelle ideologie occidentali. Volevano ritemprare lo spirito del mondo arabo nell'Islam per restituirgli la forza e lo splendore dei primi secoli musulmani. Ed è così che sono diventati la maggiore forza politica del Medio Oriente, perseguitati da tutte le dittature arabe, prosovietiche o proamericane, e hanno beneficiato sia dello sradicamento dei democratici e dei comunisti da parte dei governi al potere, sia dell'aura che gli conferiva la repressione di cui erano oggetto. Il movimento dei Fratelli musulmani sarebbe potuto restare così com'era alla nascita, religioso e lontano dalla violenza, se i sovietici non avessero invaso l'Afghanistan e se gli americani non avessero allora deciso di opporgli delle brigate musulmane reclutate in tutto il mondo arabo con le finanze dei sauditi.
Battuta l'Urss, i combattenti sono rientrati nei loro paesi, ebbri per la vittoria e convinti che a vincere "il piccolo Satana" fosse stata la "vera fede" di cui avevano portato lo stendardo e ben decisi a rovesciare ora i regimi arabi "corrotti" e "il grande Satana", cioè gli Stati Uniti. Arrivarono Bin Laden, al Qaeda e l'11 settembre. Arrivò l'apogeo di quello che oggi chiamiamo "islamismo" perché l'abbattimento delle Torri gemelle aveva profondamente affascinato tutta una parte del mondo arabo. Era la rivincita su otto secoli di eclissi, un'anticipazione della rinascita islamica e dell'ascesa di una multinazionale terrorista la cui impresa ideologica era paragonabile, per vastità, a quella avuta dal comunismo, ma al Qaeda ha fallito. Al Qaeda è stata vinta perché ha suscitato, contro di sé, la più ampia cooperazione tra servizi segreti della storia. Al Qaeda è stata seppellita con Bin Laden, anche se in realtà la sua morte ha preceduto quella del suo fondatore perché la follia delle reclute le aveva spinte a fare più vittime tra i musulmani "apostati" o tiepidi che tra i "giudeo-cristiani".
L'INIZIO DEL DECLINO - Il mondo arabo ci ha messo qualche anno a ripudiare la follia sanguinaria di al Qaeda. Le rivoluzioni arabe del 2011 sono state democratiche e per niente islamiste. Quelli tra gli islamisti che hanno portato al potere erano i Fratelli di una volta, dei conservatori reazionari e non dei jihadisti, sempre più influenzati, oltretutto, dalla strategia democratica e dal successo dei cugini turchi. Si stava voltando pagina ma, per contrastare l'insurrezione democratica che lo minacciava, nell'estate del 2011 Bashar al-Assad ha pensato bene di scarcerare i più fanatici tra gli islamisti siriani. E il calcolo era giusto. Appena usciti di prigione, quegli uomini, cui l'esercito siriano lasciava completa libertà d'azione, si sono scagliati contro l'insurrezione, contro quei miscredenti, contro quegli apostati sostenuti dai "crociati" occidentali. Peggio ancora, si sono velocemente alleati con i vecchi ufficiali di Saddam Hussein, sunniti come loro e cacciati via dall'esercito, in quanto sunniti, dalla maggioranza sciita che l'intervento americano aveva messo al comando a Baghdad. Nacque così lo "Stato islamico dell'Iraq e del Levante", Daesh, la cui ambizione è di creare un nuovo Stato sunnita a cavallo tra l'Iraq e la Siria e che recluta nelle periferie europee, e soprattutto francesi, dei giovani smarriti alla ricerca di una ragione di vita per farne dei kamikaze. Daesh si è diffuso in Libia, nel Sahel e fino al Sud-Est asiatico. Con una crudeltà ancora più dissennata di Al Qaeda, Daesh è una minaccia spaventosa ma - oltre a non aver mai affascinato il mondo arabo quanto Al Qaeda, oltre ad avere ambizioni non messianiche ma territoriali, oltre al fatto che il mondo arabo è stanco della violenza jihadista e che le sue classi medie aspirano a uno Stato di diritto - ormai ha raggiunto i suoi limiti.
VERSO LA RESA DEI CONTI - Con il sostegno da terra dei combattenti curdi, gli aerei della coalizione arabo-occidentale di cui ha suscitato la formazione ormai gli provocano perdite significative. Non solo farà sempre più fatica a conservare le posizioni militari, ma gli attentati di Parigi gli si stanno ritorcendo contro. Perpetrati alla vigilia di due grandi riunioni internazionali, gli attentati hanno fatto precipitare il riavvicinamento sulla questione siriana accennato dalle grandi potenze in quest'ultimo mese. Non è più impossibile che si finisca per raggiungere un compromesso internazionale e regionale sulla Siria e, se questo si avverasse, presto Daesh potrebbe ritrovarsi solo davanti al resto del mondo. Espansione e lento declino, la storia di Daesh ripete quella di al Qaeda mentre la massa dei musulmani d'Europa continua a europeizzarsi, a integrarsi in un mondo che, di generazione in generazione, come per tutti gli immigrati di tutte le epoche, diventa sempre più il loro, lontano dalle convulsioni dei mondi arabi. Tolta la tortura - e non è detto… - la reazione del negoziante tunisino è quella della Francia, della nazione a cui appartengono i suoi figli.
Scritto il 20 novembre 2015 alle 22:24 | Permalink | Commenti (1)
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Oggi l'attenzione è puntata sul fatto (ovviamento osceno) che un giornale di partito come l'Unità, fallito, rinato coi soldi di palazzinari, sparito dai Dati Accertamento Diffusione (si vergognano?), diventato un tazebao di Renzi più che un giornale di partito, possa far pagare il conto del proprio fallimento allo stato (cioè a noi) piuttosto che al partito che di questo disastro è responsabile.
Indignazione giusta, ma mirata. La legge che regola il finanziamento dei giornali di partito (e le procedure fallimentari eventuali) non riguarda solo l'Unità (meglio noto come "l'Unirenzità"), ma TUTTI i giornali che fanno riferimento a partiti, a volte esistenti solo nel percorso stamperia-macero. Come tutti sanno, infatti, i contributi ai giornali di partito venivano erogati non già in base alla diffusione reale, ma al numero di copie stampate. Avete capito bene. Un giornaletto poteva stampare 50.000 copie, venderne 1000, regalarne 2000, portarne al macero 47.000, e prendeva i contributi su 50.000 copie.
Così fan tutti. Ma ovviamente in termini assoluti il vantaggio maggiore lo traevano i giornali più grandi, ma quello proporzionalmente più truffaldino era quello dei giornaletti introvabili... Qualcuno ha mai visto in edicola l'Avanti di Lavitola? E quanto copi vendeva l'Europa di Sergio Menichini, strafallito primo organetto del renzismo? E qualcuno sa che i soldi li prendeva anche "Libbbero" del fustigatore Feltri, come organo di un fantomatico Movimento Monarchico?
Dopo il pregevole servizio di Report (che ha denunciato il fatto che i debiti dell'Unità morta li pagherà la Presidenza del Consiglio - e cioè il nuovo padrone di fatto del tazebao), si parla solo dei debiti e dei contributi all'Unità. Ebbene, ad euro 2015, il danno fatto dall'Unità è di circa l'11% del danno totale fatto dai c.d. "giornali di partito". Apprezzo l'opera di Milena Gabanelli, ma l'avrei apprezzata molto di più se avesse dato a TUTTI i giornali la giusta dose di legnate.
Oggi, cercando sui motori di ricerca, si trova quasi solo la storia dei debiti dell'Unità. Tanto più meritevole, quindi, l'opera di Elio Veltri e Francesco Paola, che hanno dedicato un libro-inchiesta sui danni prodotti da TUTTI i giornali di partito. Questa la recensione che del libro potete leggere sul corriere.it/cultura:
In un libro di Elio Veltri e Francesco Paola le opacità dei finanziamenti dal '90 a oggi. I 21 milioni andati all'«Avanti» di Lavitola
ROMA - Nelle statistiche del finanziamento pubblico della politica manca una voce importante: i soldi che ogni anno vanno ai giornali. Un libro che esce oggi per i tipi di Marsilio prova adesso a fare qualche conto. Dal 1990, anno in cui è stata approvata la legge che stabilisce quei contributi, al 2009, ultimo anno per cui le cifre sono disponibili, sono andati ai giornali di partito, o che si sono presentati come organi di movimenti politici, 697 milioni 182.863 euro. Ma se rivalutiamo questa somma in base all'inflazione si arriva allora a 850.851.746 euro.
Titolo del libro è: «I soldi dei partiti - Tutta la verità sul finanziamento alla politica in Italia». Gli autori sono Francesco Paola ed Elio Veltri. Il primo, avvocato e saggista. Il secondo, medico e politico di lungo corso.
Sono tanti soldi, 850 milioni. E a sentire gli autori del volume non sono nemmeno tutti: «I contributi complessivi a quotidiani, periodici, radio e televisioni di partito o contigui ai partiti sono molti di più. Nel 2009, ultimo anno di erogazione dei contributi, lo Stato ha distribuito 178 milioni 657.891 euro per mezzi di comunicazione di partito, vicini ai partiti e indipendenti, come lo si può essere in questo Paese. Orientarsi è difficile, perché la legislazione è complicata e sovrabbondante». Il capitolo dei soldi ai giornali politici rispecchia in pieno l'opacità che qui circonda il finanziamento pubblico dei partiti. Norme che non impongono il necessario e doveroso rigore nei bilanci.
Trasparenza inesistente, come dimostra il fatto che per legge i contributi privati di importo inferiore a 50 mila euro possono restare anonimi. E disposizioni ipocrite, al pari di quella sui rimborsi elettorali. Basta dire che per le politiche 2008 i partiti hanno avuto diritto a 503 milioni di euro pur avendo documentato spese per 136 milioni. E hanno il coraggio di chiamarli rimborsi.
Nati con il motivo di garantire il pluralismo democratico si sono trasformati in alcuni casi in rendite di posizione, andando ad alimentare surrettiziamente anche organi d'informazione che con i partiti avevano poco o nulla a che fare. Raccontano per esempio Paola e Veltri che l'Avanti edito da Valter Lavitola, che Bobo Craxi definì «un foglio di spionaggio politico», ha ottenuto dal 2003 al 2009, «stando al sito del governo», 21 milioni di euro. Una somma enorme, anche in rapporto ai contributi, non proprio esigui, ottenuti dagli altri giornali. In cima alla lista dei maggiori beneficiari l'Unità, quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci: 169 milioni, attualizzati al 2010. Segue il Secolo d'Italia: 76,4 milioni. Quindi Liberazione: 63,6 milioni. La Padania: 63,6 milioni. Il Foglio, giornale diretto da Giuliano Ferrara, che figura come organo del movimento politico Convenzione per la giustizia: 44,6 milioni. Il Popolo: 41,8 milioni. L'Opinione: 30,5 milioni. Il Roma: 29,4. Europa: 26,6. La Voce Repubblicana: 31,3. Notizie Verdi: 24,3. E Libero: 24,9.
Sergio Rizzo
Scritto il 20 novembre 2015 alle 15:27 | Permalink | Commenti (9)
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Scritto il 20 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (0)
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Siria. Trincee e tunnel per difendersi da un'eventuale offensiva terrestre. I leader riparano a Mosul, i miliziani si confondono tra i civili. Il timore degli islamisti è un'azione kurda da nord (Fonte: Chiara Cruciati - Il Manifesto)
L’intensità della reazione congiunta di Francia e Russia cambia i piani dello Stato Islamico. Ieri l’Osservatorio Siriano per i diritti umani riportava del trasferimento di molti miliziani e delle loro famiglie dalla “capitale” Raqqa verso l’irachena Mosul. Tra loro anche leader del gruppo, in fuga dopo l’uccisione di 33 islamisti negli ultimi bombardamenti.
Non si pensi ad una ritirata: chi resta a Raqqa si sta organizzando. Avrebbero lasciato le postazioni note, campi di addestramento, quartier generali, più volte target dell’aviazione francese, per nascondersi tra i 350mila civili rimasti, nei quartieri abitati, nelle case abbandonate da chi fuggì un anno fa. Una mossa che si accompagna al controllo delle strade in uscita da Raqqa: ai residenti, che nei giorni scorsi hanno cercato riparo nelle campagne, ora viene impedito di andarsene.
A raccontare ai media la vita a Raqqa sono i rifugiati all’estero, in costante contatto telefonico con amici e parenti rimasti in Siria, visto che internet è stato bloccato dagli uomini di al-Baghdadi: il califfato si attenderebbe un’invasione via terra da parte di forze kurde (la nuova formazione Forze Democratiche sostenute dalla coalizione) e non meglio definite forze arabe, forse le milizie anti-Assad da anni finanziate dall’Occidente.
Di certo Raqqa è nel mirino e l’Isis ne è consapevole: le forze kurde siriane hanno strappato agli islamisti la città di Hol e stanno ora marciando verso Shaddadeh, a sud di Hasakah e 150 km a est di Raqqa, speculare a Sinjar in Iraq. Se presa, i kurdi delle Ypg e i peshmerga assumerebbero il controllo di entrambe le zone di confine, irachena e siriana, il corridoio di territorio prima usato dallo Stato Islamico per muovere uomini, armi, petrolio di contrabbando. Si aprirebbero di fronte ai kurdi siriani le montagne di Abdul-Aziz, primo passo verso la “capitale” islamista.
Lo Stato Islamico non può attendere oltre: si starebbe preparando ad un eventuale scontro diretto, ponendo difese intorno alla città e impedendo la fuga ai civili, potenziali scudi umani. Si mescolano alla gente, evitano di utilizzare i veicoli militari durante le ore notturne, si muovono a piedi nei vicoli di Raqqa per non essere localizzati. Scavano tunnel e trincee, raccontano gli attivisti presenti in città, e hanno posto contenitori pieni di carburante lungo il perimetro esterno, da incendiare in caso di un attacco da fuori.
Prendono precauzioni: dopotutto 33 miliziani uccisi in tre giorni non sono molti e confondersi ai civili potrebbe in parte frenare la risposta aerea occidentale, che in questi giorni si è concentrata su zone non abitate e su centinaia di camion di greggio. I leader hanno preferito spostarsi a Mosul, meno seguita dalla coalizione internazionale, ma che ora potrebbe tornare nel mirino. La seconda città irachena è quasi del tutto circondata: Sinjar a ovest, Erbil a est, e la via verso la Siria tagliata a metà dalla presenza peshmerga.
I limiti nella reazione, però, sono di nuovo dettati dalle frizioni interne al fronte anti-Isis: ieri il ministro degli Esteri russo Lavrov è tornato a criticare la strategia Usa, definendola contradditoria: «Vogliono pescare un pesce senza bagnarsi i piedi». Al centro resta il presidente siriano Assad, che gli Stati uniti non intendono facilitare con i raid, mentre i russi lo sostengono bombardando le zone delle controffensive.
Ma, raid o meno, il problema resta la limitatezza della risposta globale al califfato. In un anno e mezzo non sono state prese misure concrete per scalfire le sue ingenti entrate finanziarie, a partire dalle vendita di petrolio sottobanco e dalle ricche donazioni di simpatizzanti privati nel Golfo: secondo uno studio della Reuters, l’Isis gode di un patrimonio di 2mila miliardi di dollari, derivanti da contrabbando di greggio, controllo delle risorse naturali e minerali, estorsioni, tasse. Troppo denaro per restare fuori dal sistema finanziario mondiale.
Allo stesso modo non si è mai lavorato seriamente al controllo dei movimenti dei nuovi adepti che entrano dalla Turchia senza ostacoli di sorta. Per far fronte al problema, Ankara ha annunciato un’operazione congiunta con gli Usa per il monitoraggio della frontiera con la Siria, in ritardo di un anno e mezzo. Per lungo tempo le autorità turche, con il sostegno di servizi segreti, esercito e gendarmeria, hanno permesso agli islamisti di entrare in Siria con armi e veicoli. Erano necessari a demolire il progetto di confederalismo democratico kurdo teorizzato dal Pkk e concretizzato da Rojava.
Adesso che l’Isis, novello Frankestein, si è reso incontrollabile, anche la Turchia dice di voler fare la sua parte: chiuderà tutto il confine e potrebbe lanciare un’operazione militare, ha detto il ministro degli Esteri turco Sinirlioglu.
Chiara Cruciati
Scritto il 19 novembre 2015 alle 18:46 | Permalink | Commenti (3)
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...da qualche tempo, empiricamente, ho appreso una cosa molto importante: quando qualcosa che non posso controllare mi genera ansia, l'ansiolitico migliore non è da ricercare in qualche filmetto allegro, o in qualche musichetta travolgente, ma esattamente in antidoti opposti...
Prendete questo bellissimo "standard" di Thelonius Monk... Fino a ieri, la più bella interpretazione che ne conoscessi era quella di Carmen MacRae. Poi di recente ho scoperto Roberta Gambarini, famosa dappertutto, tranne che in Italia. Un mito negli USA, nell'Europa centrale, in Asia, persino nei paesi baltici... Dappertutto tranne che in Italia. Quella di Roberta Gambarini è una interpretazione superba.
Questo pezzo è il tema dell'omonimo film (bellissimo) di Tavernier, al quale ha dato anche il titolo. Tutto, in questo standard, contribuirebbe a farne un film ansiogeno. Ebbene... non ci crederete, ma su di me produce l'effetto opposto: mi distende, mi toglie ansia, calma la mia impazienza... Provare per credere. Anche le parole, in questa bellissima canzone, non sono propriamente un inno all'ottimismo. Eppure... funziona...
Tafanus
Scritto il 19 novembre 2015 alle 18:17 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 18 novembre 2015 alle 22:42 | Permalink | Commenti (7)
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(Fonte: Anna Zippel - Repubblica.it)
Si chiama Captagon, costa dai 5 ai 20 dollari a dose ed è considerata "la droga della Jihad": si tratta di un mix di anfetamina (cloridrato di fenetillina) e caffeina che - miscelato anche ad altre sostanze - inibisce totalmente la paura e il dolore, provocando forte euforia. Nata inizialmente per essere utilizzata nei droga-party "borghesi" nei Paesi del Golfo (in primis in Arabia Saudita) e prodotta da decenni soprattutto in Medio Oriente, ha trovato da tempo la sua nuova patria in Siria, che ne è diventata il primo paese produttore, e dove si è diffusa capillarmente tra i militanti della 'Guerra santa".
Ad aiutare i jihadisti a compiere le loro carneficine, c'è dunque anche questa molecola, che viene assunta più che altro oralmente ma anche per iniezione: per fare due esempi, i medici che hanno eseguito l'autopsia ne hanno trovato tracce nel corpo di Seifeddine Rezgui, il 24enne terrorista tunisino che nel giugno scorso ha ucciso 38 persone sulla spiaggia di Sousse, e grandi quantità erano contenute nelle tasche dei combattenti dell'Isis uccisi dai curdi a Kobane durante gli scontri per liberare la città.
Sintetizzato negli anni '60 come psicofarmaco, il Captagon è stato proibito negli anni '80 dall'OMS perché crea dipendenza ma, come riporta un articolo di Libération, stando all'Organizzazione mondiale della dogane (Omd) i sequestri in Medio Oriente tra 2012 e 2013 sono passati da quattro a undici tonnellate. Secondo un report dell'Onu pubblicato nel 2013, è in Medio Oriente che avviene il 63% dei sequestri di anfetamine a livello mondiale. E giusto un mese fa, la polizia aeroportuale di Beirut ha sequestrato due tonnellate di pasticche di Captagon nascoste nell'aereo privato di un principe saudita.
Adesso, dopo gli attentati di Parigi, si indaga per capire se le siringhe trovate nella stanza occupata da Salah Abdeslam nell'Appart'City Hotel di Alfortville, nell'Ile de France, siano servite per fabbricare le cinture esplosive dei kamilaze o per iniettarsi, appunto, la droga.
Scritto il 18 novembre 2015 alle 19:35 | Permalink | Commenti (0)
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Apprendiamo dal sito ufficiale del renzino che dall'anno prossimo (parliamo sempre del futuro, mai del presente), gli insegnanti, con 100.000 nuove assunzioni (di vecchi precari) saranno 1.350.000, ed avranno a disposizione un mare di soldi per la propria crescita professionale... Ecco lo screen-shot della notiziona:
Bando alle ciance! Impugnate la macchinetta calcolatride da due euro del cinese (funziona benissimo!) Se 100.000 insegnanti rappresentano un incremento dell'8%, l'anno venturo il parco-insegnanti de #labuona scuola conterà 1.350.000 addetti.
Se la macchinetta del cinese non imbroglia, questa gente dall'anno prossimo si dividerà (per la formazione che diventerà strutturale e basata su priorità nazionali), la bellezza di 40 milioni di euri.
Fatti i conticini? 40.000.000 / 1.350.000 / 12 = 2,47 euri al mese pro-capite.
Tremate, ignorantoni della mitteleuropa! dall'anno prossimo sarà l'Italia - e solo l'Italia - a fare incetta di Premi Ignobel
Tafanus
Scritto il 18 novembre 2015 alle 19:17 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 18 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (0)
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Il Renzino ci aveva raccontato che in Europa si stavano spellando le mani per plaudire alle intelligentissime e coraggiosissime riforme renzine. La verità è molto più modesta, e molto più democristiana... L'Europa ci informa che gli sforamenti scippati "per fare le riforme" non potranno essere usati per coprire l'ammanco derivante dall'abbattimento delle tasse sulla casa. Afferrato il concetto? Questo l'articolo del Fatto Quotidiano:
Le clausole sulla flessibilità per le riforme strutturali e gli investimenti “non possono essere usate per compensare i tagli della tassazione sulla proprietà immobiliare“
Il vice presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha così commentato i giudizi dell’esecutivo Ue sulle bozze di bilancio 2016, che ha visto Bruxelles dare il via libera condizionato alla manovra italiana. L’ultima parola arriverà la prossima primavera. “Dovremo discutere con le autorità italiane – ha aggiunto – su quali riforme strutturali aggiuntive l’Italia ha intenzione di attuare” per giustificare la richiesta di maggiore spazio di manovra sui conti pubblici. Con cui il governo intende finanziare più di metà della sua legge di Stabilità per il 2016.
Come ventilato nei giorni scorsi, martedì 17 novembre la Commissione europea ha dato un ok a metà alla manovra “espansiva” di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan: secondo Bruxelles è a “rischio di non conformità” con le regole del patto di Stabilità e Crescita e di “una deviazione significativa dal percorso di aggiustamento richiesto” per raggiungere gli obiettivi di bilancio di medio termine per il 2016. L’ammissibilità della flessibilità richiesta dall’Italia sugli investimenti, le riforme e i migranti sarà valutata in primavera. Ci sarà “particolare attenzione” nel verificare se la deviazione dal percorso di aggiustamento sarà effettivamente utilizzata per aumentare gli investimenti, se ci saranno “piani credibili” per la ripresa del percorso di aggiustamento verso gli obiettivi di medio termine e ai progressi sul programma di riforme strutturali. Tanto più che “le recenti decisioni sulla tassazione della casa non appaiono in linea con l’obiettivo di raggiungere una struttura fiscale più efficiente spostando il peso della tassazione dai fattori produttivi ad altre basi di reddito”.
Il giudizio arriva proprio mentre in commissione Bilancio al Senato le relatrici del ddl Magda Zanoni (Pd) e Federica Chiavaroli (Ap) presentano un emendamento che prevede l’abolizione della Tasi anche per le case date in comodato d’uso ai parenti in linea diretta di primo grado, se questi la usano come abitazione principale e non possiedono altri immobili in Italia. L’Italia, nota inoltre Bruxelles, “ha fatto dei passi per ridurre il cuneo fiscale e per riformare il fisco, ma i decreti attuativi per rendere il sistema fiscale più efficiente e giusto sono stati solo parzialmente attuati e la raccomandata riforma dei valori catastali e tutte le incluse revisioni delle spese fiscali nonché la razionalizzazione delle tasse ambientali, non sono state attuate”.
Non a caso è stata proprio la mancata revisione delle cosiddette tax expenditures la goccia che ha indotto Roberto Perotti, ex consulente di Palazzo Chigi per la revisione della spesa a dare le dimissioni. E ora è la Commissione a chiedere a Roma “più sforzi” per rendere la spending review “parte integrante del processo di bilancio a tutti i livelli del governo”, avvertendo che “continuerà a monitorare da vicino” il rispetto da parte dell’Italia degli obblighi del Patto e un nuovo giudizio sarà dato nella valutazione del prossimo Programma di stabilità. La Commissione invita nel frattempo le autorità a prendere le misure necessarie all’interno del processo di bilancio nazionale per garantire che il bilancio 2016 sia compatibile con il Patto.
Il commissario Ue agli Affari economici, Pierre Moscovici, riconoscendo che le riforme fatte da Roma sono “importanti e di qualità” e la crescita economica “sta tornando”, ha sottolineato che la Penisola è “potenzialmente l’unico Paese” dell’area euro a poter beneficiare di tutte e tre le clausole di flessibilità richieste al Patto di Stabilità e Crescita. Tuttavia, ha avvertito, “verificheremo precisamente in che misura le riforme strutturali sono realizzate per giustificare le richieste di flessibilità”. Il deficit strutturale italiano, ha invece commentato Dombrovskis, “devia in modo sostanziale dal cammino raccomandato: avrebbe dovuto migliorare di 0,1 e invece peggiora di 0,5″.
La flessibilità all’Italia non può essere accordata per ora perché “andrebbe in contraddizione” con il percorso raccomandato a maggio. Il vicepresidente della Commissione ha anche citato la Penisola come il Paese dell’Eurozona che ha il rapporto debito/Pil più alto tra quelli sotto esame (sono esclusi il Portogallo, che non ha ancora presentato la propria legge di Stabilità, e la Grecia che è sottoposta a un programma di aiuti).
Anche lo scorso anno l’Italia era stata inserita fra i Paesi a rischio di non conformità e quest’anno si trova in compagnia di Austria e Lituania. Quella di “rischio di non conformità” è una delle quattro categorie utilizzate dall’esecutivo di Bruxelles per valutare le bozze di manovra dei Paesi dell’area euro, mentre le altre sono “conforme”, “ampiamente conforme” e “non conforme”.
Scritto il 17 novembre 2015 alle 22:22 | Permalink | Commenti (0)
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Le 13 novembre 2015, une série de fusillades et d’explosions ont endeuillé Paris et Saint-Denis, provoquant la mort d’au moins 130 personnes. Les auteurs de ces attentats, souvent des jeunes Français musulmans, ont motivé leur acte en invoquant l’intervention militaire de leur pays en Syrie contre l’Organisation de l’Etat islamique (OEI). Deux jours plus tard, Paris a procédé à de nouveaux bombardements contre les positions de l’OEI en Syrie, principalement dans la «capitale» de l’organisation, à Rakka. Et, dorénavant, le gouvernement français comme l’opposition de droite s’accordent sur la nécessité de multiplier les «frappes» en Syrie. L’urgence de mener sur le front intérieur une « guerre » implacable ne les distingue pas davantage.
La seule question qui semble faire débat entre eux tient à la composition de la coalition internationale combattant l’OEI. Avec ou sans la Russie ? Avec ou sans l’Iran ? Avec ou sans le gouvernement syrien ? La politique étrangère française, dont le crédit a été largement atteint par une succession d’hypocrisies et de maladresses, paraît à présent se rallier à l’idée d’une alliance aussi large que possible. Une telle position est déjà celle que défendent l’ancien président de la République Nicolas Sarkozy, l’ancien premier ministre François Fillon et l’ancien ministre des affaires étrangères Alain Juppé. Tous exigeaient il y a encore quelques mois, ou quelques semaines, le départ préalable du président syrien Bachar Al-Assad ; tous y ont dorénavant renoncé.
Décidée de manière solitaire, sans débat public, sans participation autre que purement décorative du Parlement, dans un alignement médiatique conforme aux habitudes du journalisme de guerre, l’intervention militaire française soulève néanmoins plusieurs questions de fond.
L’existence d’une « coalition », tout d’abord : celle-ci est d’autant plus large que les buts de guerre de ses principaux membres diffèrent, parfois très sensiblement. Certains participants (Russie, Iran, Hezbollah libanais, etc.) veulent avant tout maintenir au pouvoir le régime de M. Al-Assad, bien que celui-ci soit détesté par une large partie de la population. D’autres (Turquie et Arabie saoudite en particulier), qui ont manifesté de la complaisance envers l’OEI jusqu’à ce que celle-ci se retourne contre eux, aimeraient s’assurer que M. Al-Assad va tomber. Comment imaginer que ce malentendu fondamental ne débouche pas sur de nouvelles convulsions dans l’hypothèse d’une victoire des alliés de circonstance contre l’OEI ? Faudra-t-il alors imaginer une nouvelle intervention pour séparer (ou pour détruire) certains des ex-coalisés ? Les atrocités de l’OEI sont largement documentées, y compris par l’organisation elle-même. Malgré cela, elle a été bien accueillie dans des régions sunnites d’Irak et de Syrie dont les habitants avaient été exploités ou tyrannisés par des milices chiites. Aussi éprouvés soient-ils par la férule qu’ils subissent en ce moment, ces habitants ne se sentiront pas forcément libérés par leurs anciens persécuteurs.
L’autre question fondamentale tient à la légitimité et à l’efficacité des interventions militaires occidentales par rapport même aux buts qu’elles s’assignent. L’OEI n’est que l’avatar un peu plus sanglant d’un salafisme djihadiste encouragé par le wahabbisme d’Arabie saoudite, une monarchie obscurantiste que les capitales occidentales n’ont cessé de dorloter. Au demeurant, à moins d’imaginer que l’objectif que visent à présent les Etats-Unis, la France, le Royaume-Uni, etc., soit simplement de s’assurer que le Proche-Orient et les monarchies obscurantistes du Golfe demeureront un marché dynamique pour leurs industries de l’armement, comment ne pas avoir à l’esprit le bilan proprement calamiteux des dernières expéditions militaires auxquelles Washington, Paris, Londres, etc. ont participé, ou que ces capitales ont appuyées ?
Entre 1980 et 1988, lors de la guerre entre l’Iran et l’Irak, les pays du Golfe et les puissances occidentales ont largement aidé le régime de Saddam Hussein, en espérant ainsi affaiblir l’Iran. Objectif atteint au prix d’un million de victimes. Quinze ans plus tard, en 2003, une coalition emmenée par les Etats-Unis et le Royaume-Uni (mais sans la France) détruisait l’Irak de Saddam Hussein. Résultat, ce pays, ou ce qu’il en reste, est devenu un allié très proche… de l’Iran. Et plusieurs centaines de milliers de ses habitants ont péri, principalement des suites d’affrontements confessionnels entre sunnites et chiites. Pour que le désastre soit tout à fait complet, l’OEI contrôle une partie du territoire irakien.
Même scénario en 2011 quand, outrepassant le mandat d’une résolution de l’Organisation des Nations unies, les Occidentaux ont provoqué la chute de Mouammar Kadhafi. Ils prétendaient ainsi rétablir la démocratie en Libye, comme si ce souci avait jamais déterminé la conduite de leur politique étrangère dans la région. Aujourd’hui, la Libye n’est plus un pays, mais un territoire où s’affrontent militairement deux gouvernements. Elle sert d’arsenal, de refuge aux groupes terroristes les plus divers, dont l’OEI, et de facteur de déstabilisation régionale. Serait-il insolent de réfléchir quelques secondes — voire davantage — au bilan de ces dernières interventions occidentales avant d’en engager une nouvelle, dans l’enthousiasme général évidemment ? L’année dernière, à West Point, le président américain Barack Obama admettait lui-même : « Depuis la seconde guerre mondiale, quelques-unes de nos erreurs les plus coûteuses sont venues non pas de notre retenue, mais de notre tendance à nous précipiter dans des aventures militaires, sans réfléchir à leurs conséquences. »
Comme toujours, le discours de « guerre » se double d’un dispositif sécuritaire et policier renforcé. On sait à quels excès cela a donné lieu aux Etats-Unis. En France, il est déjà question de rétablissement des contrôles aux frontières, de déchéances de nationalité et de modification de la Constitution afin, comme vient de l’expliquer le président de la République, de « permettre aux pouvoirs publics d’agir contre le terrorisme de guerre ».
A l’évidence, nul ne saurait nier la nécessité d’une protection des lieux publics contre des actes de terreur, d’autant que les attentats coordonnés du 13 novembre viennent de témoigner d’une défaillance évidente des services de sécurité. Doit-on pour autant bricoler dans la hâte un nouvel arsenal de restriction des libertés individuelles, alors même que des lois « antiterroristes » n’ont cessé de se succéder, souvent durcies avant même d’entrer en application ? L’actuel climat d’affolement et de surenchère sécuritaire favorise par ailleurs les suggestions les plus inquiétantes. Ainsi celle d’incarcérer les « suspects » de djihadisme, ou de radicalisation, ce qui reviendrait à confier à la police et à l’administration le droit de rendre la justice, y compris pour décider unilatéralement des mesures privatives de liberté.
Après une série de crimes prémédités ciblant des lieux de loisirs et de sociabilité un vendredi soir, l’émotion de la population française est compréhensible. Mais les responsables politiques ont pour responsabilité de réfléchir aux motivations de leurs adversaires et aux dynamiques qu’ils engagent plutôt que d’enchaîner les rodomontades dans l’espoir éphémère de conforter leur popularité flageolante.
On en est loin.
(Source: Le Monde Diplomatique)
Scritto il 17 novembre 2015 alle 14:19 | Permalink | Commenti (8)
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Scritto il 16 novembre 2015 alle 23:02 | Permalink | Commenti (0)
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Je suis Tafanus. Prima di diventare Charlie Hebdo o Paris (ma perchè non anche Bagdhad, o Casale Monferrato, o l'Aquila, o... o... o...)... Devo riflettere bene. Voglio aspettare qualche giorno, giusto il tempo di verificare che - dopo che tutti siamo diventati tutto - spariranno le centinaia di chilometri di muri e di filo spinato che stanno sconciando la c.d. "Europa Unita", e che stanno gridando a gran voce che qui nessuno è nessun altro, e ognuno è se stesso, e pensa ai cazzi propri.
In Italia - come abbiamo documentato in altro post - il più rapido a tirar fuori la stronzata sgrammaticata del "Je Suis Paris" è stato il Tempo di Roma. Non poteva essere diversamente. Noto giornale progressista, fondato da Renato Angiolillo, che come prima, grande operazione editoriale si è affrettato a pubblicare i diari di Galeazzo Ciano. Dopo Angiolillo, una serie, senza soluzione di continuità, di "editori impuri". L'armatore genovese Fassio, poi il petroliere Monti (proprietario di tutti i giornaletti toscani di destra distribuiti dalla Chil srl di Tiziano Renzi), poi i palazzinari romani (prima il Caltagirone suocero di Pierferdi, poi il palazzinaro Bonifaci...)
Anche i "direttori" sono affetti dallo stesso patromonio cromosomico. Basti ricordare (in ordine di entrata in scena), i nomi di Gianni Letta, Gian Paolo Cresci, Franco Bechis, Roberto Arditti, Mario Sechi... tutta gente che non ha mai avuto la nomination al premio Pulitzer, ma nessuno di loro sospettabile di sia pur vaghe simpatie di sinistra...
Ma se Il Tempo è stato il capostipite italiano del Je Suis Paris, chi ha fatto di più e di meglio è stata l'Unirenzità, giornaletto fondato da Matteo Renzi coi soldi dei costruttori Pessina, che dedica addirittura una "Gallery" di nove patetiche vignette di tale Cadei al tema del "Je Suis Paris". Patetiche per qualità (parere personale) e patetiche perchè infarcite di riferimenti allegorici grondanti retorica. Insomma, vignette che fanno piangere. E non per la commozione... Un esempio? prendiamo la vignetta che "chiude" la gallery":
In questa "vignetta" non manca niente... C'è la Tour Eiffel piegata dal dolore, col tricolore francese pendulo, e un "Abbracciatore Universale" (notare la raffinata testa dotata di paralleli e meridiani a rappresentare il mondo intero... mancano solo il Tropico del Cancro e quello del Capricorno).
Più banale la vignetta che potrebbe fungere da "logo" della gallery renziana...
Anche nel logo, il geniale Cadei non ha saputo resistere alla tentazione della torretta Eiffel.
E ora che siamo tutti Parigi (niente Baghdad, niente Aleppo, niente stazione di Bologna), aspettiamo con ansia la vignetta che Cadei partorirà non appena (ad horas) l'Europa rinsavita inizierà a smantellare le centinaia di chilometri di rotoli di filo spinato che "uniscono" un paese europeo all'altro.
Scommettiamo che Cadei farà sbocciare petali di rose da ogni nodo dei rotoloni? E che ficcherà nell'allegoria un renzino dotato di forbici, che taglia i rotoloni, mentre un accenno di aureola comincerà timidamente ad apparire intorno al suo cranio?
P.S.: Per non dimenticare... Dopo la foto del bambino siriano trovato annegato a faccia in giù sulla battigia, sono morti annegati allo stesso modo altri 70 bambini (settanta) ma nessuno ne ha parlato. Va bene la commozione, a patto che non diventi una malsana consuetudine!
Tafanus
Scritto il 16 novembre 2015 alle 14:42 | Permalink | Commenti (5)
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Scritto il 15 novembre 2015 alle 23:36 | Permalink | Commenti (0)
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Il ministero della Difesa di Parigi conferma le azioni in corso sulla capitale del califfato in Siria. Dagli Stati Uniti supporto logistico a sostegno dei raid (Fonte: corriere.it)
L’aviazione francese ha compiuto poche ore fa attacchi contro posizioni dell’Isis a Raqqa, la capitale dello Stato Islamico. Lo ha reso noto il Ministero della Difesa di Parigi. La Francia era già da tempo impegnata in attività militari in Siria - e questo è stato tra l'altro indicato come il principale motivo alla base degli attentati di venerdì sera - ma i nuovi raid vengono visti come una risposta diretta alle ultime azioni dei terroristi, che hanno provocato 129 morti e circa 300 feriti. Lo stesso presidente François Hollande, nel suo intervento a caldo dopo le stragi, aveva fatto sapere che la risposta dell’Eliseo sarebbe stata «determinata e spietata». E pure il primo ministro Manuel Valls aveva lasciato intendere che una reazione non avrebbe tardato ad arrivare parlando di una «guerra che intendiamo vincere».
Il supporto degli Usa - Secondo le prime informazioni, almeno dieci cacciabombardieri avrebbero sganciato una ventina di bombe su un centro di comando e su un campo di addestramento dell’Isis.Gli aerei sarebbero partiti dagli Emirati Arabi Uniti e dalla Giordania e questo lascerebbe pensare ad un coinvolgimento dell’intera coalizione anti-califfato. Il Wall Street Journal ha fatto sapere che gli Stati Uniti stanno fornendo alla Francia dati di intelligence per i raid in Siria.
Nel pomeriggio di domenica Washington e Parigi avevano annunciato di avere trovato, dopo una telefonata tra il segretario alla Difesa americano Ash Carter e il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian, un accordo sui «passi concreti che le forze militari americane e francesi debbono intraprendere di qui in avanti per intensificare la loro azione contro l’Isis». E più o meno in contemporanea ad Antalya, in Turchia, il presidente americano Barack Obama e quello russo Vladimir Putin, a margine del vertice del G20 hanno avuto un confronto al termine del quale, pur con le rispettive divisioni, hanno definito «imperativo» il raggiungimento di un’intesa sulla conclusione della guerra in Siria.
Gli obiettivi dei raid - Gli attivisti anti-Isis di Raqqa affermano che la gran parte dei centri nevralgici dello Stato islamico «sono stati bombardati» e che la città si ritrova senza corrente elettrica. Ad essere stati colpiti, sempre stando alle informazioni diffuse dai gruppi che si oppongono al Califfato, sarebbero stati in particolare lo stadio, un edificio politico, un museo e un ospedale. Non si ha ancora notizia di eventuali vittime.
Scritto il 15 novembre 2015 alle 23:23 | Permalink | Commenti (4)
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Scarpe rialzate, capelli bituminati. Secondo alcune improbabili ipotesi, sarebbe un politico che veniva esposto ai comizi anche dopo la sua morte (di Michele Serra - l'Espresso)
Milano, Novembre 2715 - Il mondo scientifico è in subbuglio dopo il ritrovamento, in un magazzino abbandonato del quartiere cinese, del cosiddetto Uomo Impagliato. Dopo la Mummia di Similaun, siamo probabilmente di fronte al più importante reperto a disposizione della paleoantropologia.
L'ASPETTO - Si tratta di un maschio caucasico di età imprecisabile (potrebbe avere dai 30 ai 95 anni), di statura modesta nonostante gli strani calzari rinforzati, perfettamente conservato grazie a una raffinata impagliatura interna, l'accurata bitumazione della calotta cranica e la ceramizzazione del volto e delle parti visibili di epidermide. È vestito con un doppiopetto blu scuro tipico della classe dirigente occidentale del ventunesimo secolo: un abbigliamento oggi considerato ridicolo ma allora molto in auge, accoppiato a un laccio colorato stretto al collo detto "cravatta", che oggi figura nei musei dell'abbigliamento accanto al corsetto costrittivo delle dame del 1700 e alle ossa foranaso delle popolazioni precolombiane. La postura è eretta. Il braccio destro è levato in alto, secondo alcuni in un gesto di saluto, secondo altri per chiamare un taxi. Ma questa seconda ipotesi è smentita dal sorriso che l'Uomo Impagliato ha stampato sul volto: nel ventunesimo secolo, in Italia, chiunque volesse chiamare un taxi avrebbe avuto un'espressione furibonda perché era impossibile trovarne uno.
L'ENIGMA - Ma chi era davvero l'Uomo Impagliato? Che ruolo sociale ricopriva? Per quali funzioni rituali veniva impiegato? La sola certezza degli scienziati è che la ceramizzazione del volto è avvenuta quando il soggetto era ancora in vita. Al momento del ritrovamento i lineamenti molto stilizzati avevano fatto pensare a una maschera funebre, simile a quelle applicate sulle mummie egiziane. Un successivo esame permetteva di scoprire che quel volto, contro ogni evidenza, apparteneva a un vivente. Il sorriso non era frutto del rigor mortis. Pare che all'epoca la ceramizzazione della faccia, ma anche di altre parti del corpo, fosse una pratica abbastanza usuale. Raggiungere la fissità definitiva dell'espressione era considerato un segno di grande autodisciplina, come per il fachiro sdraiarsi sui chiodi e per Giorgia Meloni non parlare in romanesco. Ma perché non è stato deposto, dopo la morte, su un feretro? Nel caso (probabile) sia stato un dignitario o un uomo importante, perché impagliarlo in piedi, come se la sua funzione gli imponesse di rimanere eretto, sorridente, con la mano che saluta gli astanti? Chi è davvero l'Uomo Impagliato, quale mistero nasconde, perché non ha potuto trovare riposo nemmeno dopo la morte?
LE IPOTESI VEROSIMILI - In quel periodo erano molto in voga le installazioni artistiche. Venivano esposti cavalli in formalina e massaie americane con il carrello della spesa. L'Uomo Impagliato potrebbe essere una di queste opere iperrealiste, forse la donazione di un miliardario eccentrico, forse lo stesso miliardario eccentrico che si sarebbe fatto impagliare per potersi mettere in mostra anche dopo il decesso. Secondo altri si tratterebbe - molto più banalmente - di un reperto del Museo Egizio di Torino, una mummia come tante altre, rivestita con giacca e cravatta per fare uno scherzo alla sovrintendente e poi smarrita durante un trasloco.
L'IPOTESI INVEROSIMILE - È avanzata solamente da pochissimi studiosi: l'Uomo Impagliato sarebbe un importante leader politico dell'epoca che veniva esposto durante i comizi anche molti anni dopo la sua scomparsa dalla scena, e addirittura dopo la sua morte, avvenuta in età avanzatissima. Ma è un'ipotesi priva di qualunque ragionevolezza scientifica, che non regge a nessuna delle controdeduzioni possibili: se era caduto da tempo in disgrazia, perché esibirlo nei comizi, con il rischio di contrariare la folla? Chi avrebbe avuto interesse a mostrarsi al fianco dell'Uomo Impagliato, oramai solo un feticcio del passato? E perché leader politici sicuramente molto più giovani e energici di lui avrebbero dovuto subire, nella loro stessa piazza e sul loro stesso palco, la presenza di un così malinconico reperto, tornato utile solo oggi, sette secoli dopo, per gli studiosi di antropologia?
Michele Serra
Scritto il 15 novembre 2015 alle 15:29 | Permalink | Commenti (4)
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Scritto il 15 novembre 2015 alle 01:16 | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "45 Anni" (di Angela Laugier)
Titolo originale: 45 Years
Regia: Andrew Haigh
Principali interpreti: Charlotte Rampling, Tom Courtenay, Geraldine James, Dolly Wells, David Sibley – 95 min. – Gran Bretagna 2015.
Una tranquilla coppia anziana vive serenamente in un villino nella campagna inglese tra i fiumi e gli stagni della contea del Norfolk. Lei è Kate (Charlotte Rampling), insegnante in pensione; lui è Geoff (Tom Courtenay), molto più anziano di lei, con qualche bypass e un passato nell’industria e nel sindacato. Non hanno figli, ma il loro matrimonio, ricco di relazioni sociali e di amicizie, non sembra averne risentito, essendo arrivato, senza grandi scosse e senza crisi, alla vigilia del quarantacinquesimo anniversario: quando inizia il film (lunedì) manca meno di una settimana a quella data (sabato). I due stanno progettando una grande festa con molti invitati e hanno affittato, per l’occasione, una sala grandiosa in una storica magione. Tocca a lei, che è più giovane e ancora relativamente in buona salute, il compito di organizzare tutto: dalla scelta della sala, a quella dei cibi, dei vini e anche delle musiche che ricorderanno i momenti più importanti della loro storia: entrambi vorrebbero risentire i mitici Platters nel disco che ha accompagnato anche il loro primo ballo, Smoke gets in your Eyes, col quale dovrebbe romanticamente concludersi la loro serata.
In questa atmosfera tranquilla, riaffiora, con forza dirompente, il passato di Geoff, al quale una lettera inaspettata dalla Svizzera annuncia il ritrovamento, dopo cinquant’anni, del corpo di Katya, la sua fidanzata di allora, il primo suo grande amore, che i ghiacci della montagna stavano riportando alla luce, intatto e incorrotto, cosicché, egli, ancora vivo, forse potrebbe riconoscerlo. Katya era precipitata in un crepaccio durante un’escursione a tre, poiché una guida accompagnava la coppia degli innamorati in vacanza, ciò che aveva infastidito Geoff e anche un po’ ingelosito, quando, attardandosi lungo il sentiero, aveva udito le loro conversazioni, le risate e purtroppo, infine, l’urlo di lei, caduta in quella trappola terribile, nonché il silenzio spaventoso che ne era seguito.
Questo, almeno, era stato il racconto di lui a Kate, ora molto ansiosa per l’effetto che avevano prodotto quelle notizie inaspettate: da buona moglie non potevano sfuggirle il turbamento imbarazzato, il ritorno al fumo, le notti insonni nel solaio della loro casa nel quale, forse, egli aveva celato segreti del proprio passato, a lei sconosciuti.
Il regista segue il momento delicato per questa coppia, scrutando, giorno dopo giorno, dal lunedì al sabato, con la macchina da presa, il progressivo mutare delle abitudini di entrambi, l’incupirsi e lo sfuggirsi dei rispettivi sguardi, la difficoltà nel trovare le parole giuste per chiarire e, soprattutto, lo spaesamento di Kate davanti alle carte ingiallite che furtivamente aveva voluto vedere in quel solaio e che, come in un flashback, sembrano svelarle la vita di Geoff, ai tempi in cui lei, giovanissima, ne ignorava addirittura l’esistenza. Le vecchie fotografie, ormai quasi illeggibili e le diapositive le cui sbiadite immagini rimandavano incerti contorni avevano indotto nella sua mente l’inquietante sospetto, forse ingiusto, che in tutta la storia che li aveva riguardati nel corso di quei quarantacinque anni, le scelte di lui fossero avvenute quasi obbedendo alla volontà silenziosa di Katya, sempre presente nei suoi pensieri e nella sua vita: di ciò era diventata convinta.
Il film, a mio avviso molto bello e da vedere, scruta profondamente i fragili equilibri sui quali si costruisce un rapporto di coppia e pone al contempo alcuni problemi, di non poca importanza, sul ruolo del caso nella nostra vita, sulla reale libertà delle nostre scelte, sul peso del passato nelle nostre decisioni, sull’impossibilità di tornare sui nostri passi, quando prendiamo coscienza delle possibili alternative che ci siamo lasciati sfuggire allorché sarebbe stato ancora possibile scegliere, forse, diversamente. Non a caso, oltre alle numerose citazioni cinefile, il film contiene alcune allusioni a Kierkegaard, il filosofo danese che Geoff sta leggendo e sul quale evidentemente sta riflettendo nel corso del film.
Fatto di sguardi, di parole dette e di silenzi impacciati, di pensieri e di espressioni, il film poggia sulla grandissima e sensibilissima interpretazione degli attori protagonisti, giustamente premiata a Berlino col Leone d’argento, che nel febbraio di quest’anno è stato assegnato salomonicamente sia a Charlotte Rampling, sia a Tom Courtenay.
Se siete interessati, QUI potete leggere una bella intervista a Tom Courtenay a proposito del film.
Angela Laugier
Scritto il 15 novembre 2015 alle 01:08 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Ai tempi dell'attentato alla redazione di "Charlie Hebdo", sui "social" (che abolirei per legge) c'era stata la fioritura di nick-names, avatar, condivisioni del cartello "Je Suis Charlie".
Con tutto il rispetto per i vari "Charlie" di complemento, ho sempre guardato con estremo sospetto alle trovate della rete che in un attimo diventano virali. Lo hastag #jesuischarlie su twitter in pochi giorni aveva superato 5.000.000 di condivisioni. E pazienza se su 5 milioni di condivisori seriali almeno 4.995.000 non avessero mai sentito nominare, e ancor meno avessero sfogliato una volta nella vita, il settimanale c.d. "satirico" CHARLIE HEBDO. In tal caso, avrebbero saputo che Charlie Hebdo non era "Le Canard Enchainé", ma un giornaletto che tirava poche migliaia di copie, e che come "posizionamento" di marketing ne aveva scelto uno facile facile: in un paese sostanzialmente di destra, aveva fatto del razzismo latente (ma non troppo latente) il tema centrale, e della volgarità dell'insulto alle altrui religioni la cifra stilistica. Insomma, un "calderolismo al quadrato".
Fatto salvo il mio odio per chi uccide gente inerme, e la umana pietas dovuta a chi muore morto ammazzato, oltre non riuscivo ad andare. "Je Suis Charlie"??? Neanche per sogno. Io, ateo, rivendico il merito di non aver MAI insultato i credenti di alcuna religione. Ma rivendico anche la libertà di distinguere la satira intelligente, e persino cattiva, da volgarità gratuite "marketing oriented" etichettate come "satira".
Forse per questo ho sfidato l'ira potenziale dei 5 milioni di "Charlie 'de noantri", con una presa di posizione - illustrata dal cartello in calce - che andava in direzione opposta:
Insensibilità umana? Niente affatto. Semplicemente la voglia di uscire da un coro che non mi piaceva. No, non sono mai stato Charlie. E la mia presa di posizione ha suscitato molti insulti, ma anche molti commenti profondi, e persino molte condivisioni.
E VENIAMO ALLA PARIGI DI IERI
Ieri a Parigi il terrorismo dell'IS ha cambiato marcia. Non siamo più al tagliagole isolato in favore di telecamera, ma all'azione militare organizzata, clamorosa, nel cuore di una delle più grandi metropoli occidentali. Ieri (ma di quanto tempo hanno ancora bisogno, i paesi occidentali e i paesi arabi moderati e ricchi?) si è capito - spero - che la guerriglia "mordi e fuggi" sta diventando guerra organizzata. Ma dai proclami dei politici occidentali, emerge chiaramente che non tutti hanno capito, e che non tutti hanno afferrato il concetto che la guerra al terrorismo dell'IS è una guerra "asimmetrica": noi tracciamo la lista degli "obiettivi sensibili", così diamo stupidamente in mano all'IS - per esclusione - la lista degli obiettivi facili. Noi siamo vittime consapevoli della Convenzione di Ginevra? Loro se ne sbattono i coglioni. Noi non ci faremmo mai saltare in aria in un ristorante o in un teatro, loro si.
Ieri un noto, storico giornale della destra romana. ha provato a rilanciare il tormentone "Je suis", con un patetico, sgrammaticato, "Je suis Paris". Ancora una volta: mettiamo in circolo, sperando che "tiri", un tentativo di tormentone, e con questo ci mettiamo l'anima in pace, e andiamo a dormire tranquilli? Riempiamo gli androni delle ambasciate francesi nel mondo di fiori e di "Je Suis Paris", e con questo possiamo andare a dormire il sonno del giusto, con la coscienza di aver fatto tutto ciò che dovevamo e potevamo fare?
Purtroppo le cose sono meno semplici. Dopo aver mandato i fiori alle ambasciate ci richiuderemo in quell'inestricabile labirinto di muri fisici che sta diventando, fotografata dall'alto, l'Europa? Ognuno per se e Dio (o Allah) per tutti?
Credo che ormai si debba prendere atto che una guerra asimmetrica come quella ormai esplosa si debba combattere TUTTI insieme, anche con mezzi a-convenzionali. Questa guerra è destinata ad innalzarsi di livello, anche perchè cresce e si sviluppa la competizione per la leadership fra il vecchio (Al Kaeda) e in nuovo (l'IS). E' iniziato il gioco a chi la fa meglio, a chi la fa più grossa.
Organizzazioni definite "non strutturate". Niente di più sbagliato e sottovalutato. Organizzazioni strutturatissime, ma secondo patterns che ci sfuggono. Non possiamo definire destrutturato tutto ciò di cui ignoriamo nei dettagli la struttura. Ma alcune certezze ci sono. Organizzazioni costosissime, e spesso conosciamo le loro fonti di approvvigionamento del danaro: campi petroliferi occupati, rapimenti con riscatti miliardari, compiacenti finanziamenti da paesi (arabi e non) che vogliono vivere tranquilli...
Cominciamo da li. E, a costo di farmi insultare dai "Garantisti Uniti di Tutto il Mondo", cominciamo col mettere in un cassetto la Convenzione di Ginevra, che se rispettata da una sola delle parti in causa, porta a fare una guerra finta, nella quale una delle fazioni spara con armi vere, e l'altra usa le armi-giocattolo che sparano i tappi di sughero.
Tafanus
Scritto il 14 novembre 2015 alle 15:34 | Permalink | Commenti (15)
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Scritto il 14 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (0)
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Scritto il 12 novembre 2015 alle 22:08 | Permalink | Commenti (5)
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Ricerca&sviluppo. Dietro il plauso alla «boutade» di Renzi sul futuro dell’area, l’eterno gioco della speculazione fondiaria (Fonte: Paolo Berdini - Il Manifesto)
A parte gli estensori del discorso di Matteo Renzi, tutti sanno che il nome Silicon Valley arrivò dopo decenni dall’inizio di produzioni industriali innovative che hanno segnato la storia tecnologica mondiale. Hewlett & Packard, ad esempio, inaugurò in quell’area il primo stabilimento nella metà degli anni Trenta del secolo scorso.
Milano, una città importante nella storia produttiva italiana ha dismesso negli ultimi trenta anni tutti gli stabilimenti industriali più importanti: la follia dell’urbanistica contrattata milanese ha permesso di realizzare anonimi quartieri al posto delle produzioni. La rendita fondiaria ha guadagnato somme imponenti rinunciando al difficile percorso dell’innovazione produttiva e della creazione di tecnologie avanzate.
La Silicon valley alla milanese non potrà nascere soltanto creando nuove strutture di ricerca ma solo se ci sarà un progetto industriale per l’intero paese in grado di orientare, incentivare, di favorire le sperimentazioni specialmente delle imprese innovative e soltanto se ci saranno investimenti adeguati per l’istruzione universitaria.
Del resto, è noto che la ricerca nelle nostre università è stata pressochè azzerata dai tagli di bilancio e le università languono. La somma di 150 milioni all’anno per l’ipotetico polo milanese è una piccola goccia per il paese che finanzia l’istruzione superiore e la ricerca con le risorse più modeste d’Europa.
Ciononostante, a parte qualche marginale critica, la boutade di Renzi è stata accolta con molto favore dal grande circo mediatico. Sono tre i motivi profondi di questo consenso.
Il primo è l’eterno gioco della speculazione fondiaria.
Sulle aree Expo arriverà un fiume di cemento: con l’urbanistica a la carte in voga a Milano, infatti, si è consolidata la prassi di attribuire ad ogni metro quadrato di proprietà fondiaria una edificazione di 0,2 metri quadrati. L’area Expo misura 105 ettari e si potranno realizzare almeno 210 mila metri quadrati di edifici. Il progetto renziano riguarda 70 mila metri quadrati. Restano dunque 140 mila metri cubi su cui costruire abitazioni o ipermercati, l’unica attività in cui eccelle la struttura d’impresa milanese.
Il Corriere della Sera ha proposto la realizzazione di case dello studente. La recente esperienza di Tor Vergata a Roma non fa dormire sonni tranquilli: nel grande campus universitario sono stati di recente inaugurati alloggi per studenti ma non con i soldi pubblici, bensì finanziati attraverso un apposito fondo immobiliare. Quegli alloggi ospitano chiunque, non solo studenti. E’ questo il modello anche per Milano: altre case in una città soffocata?
Il secondo motivo è l’ulteriore colpo alle autonomie comunali.
E’ stato il primo ministro ad annunciare in conferenza stampa un progetto non discusso con i sindaci di Milano e dei comuni limitrofi: Giuliano Pisapia ascoltava come tutti gli altri le esternazioni del presidente del consiglio, Questa prassi comincia a preoccupare perché fa il paio con lo scioglimento coatto di Roma.
Le due più grandi città d’Italia, insomma, non possono godere del normale corso amministrativo: grandi progetti come il futuro delle aree expo o grandi eventi come il Giubileo sono terreno esclusivo di caccia del primo ministro o di un prefetto. I comuni italiani sono stati portati sull’orlo della bancarotta per i tagli di bilancio e il governo dimostra che non ha alcun interesse a risolvere il problema. Anzi, rincara la dose comprimendo la democrazia.
Il terzo motivo riguarda l’affidamento del futuro delle città a manager spesso inesistenti.
L’esperienza Expo depurata dalla retorica imperante è stata infatti un disastro senza precedenti. Dal 2007 all’aprile 2015 non si è stati in grado di realizzare nella sua interezza il progetto, eppure sono stati spesi 14 miliardi di euro. Gli scandali e le malversazioni hanno riempito le cronache giudiziarie e le galere.
Eppure il commissario Sala viene dipinto come l’unico in grado di guidare Milano. E qui il risvolto più amaro riguarda l’inerzia dimostrata dal comune di Milano nel progettare il futuro: è in questo vuoto di prospettiva che hanno avuto buon gioco le improvvisazioni di Renzi e l’eterna tentazione della ricerca del manager demiurgo.
Paolo Berdini
ITALIAN STYLE: ciò che resta delle "Grandi ed Epocali Opere"
(Ciò che resta di Torino 2006, del G8 alla Maddalena, dei Mondiali di Nuoto)
Scritto il 12 novembre 2015 alle 20:49 | Permalink | Commenti (0)
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L’ultima tegola sull’ampliamento dell’aeroporto di Firenze presieduto da Marco Carrai arriva dalla Regione Toscana che, secondo i consiglieri cinquestelle, all’interno della procedura di Valutazione di Impatto Ambientale ha bocciato il master plan della nuova pista voluta dai poteri forti fiorentini. Di seguito l’analisi del laboratorio per Unaltracittà che sul tema, il 20 novembre prossimo, ha organizzato una serata informativa intitolata “Il cielo sopra Firenze. Trafficato e fuori legge” (Fonte: Il Fatto del 12/11/2015)
Marco Carrai, il "cuore destro" di Matteo Renzi
L’aeroporto Amerigo Vespucci di Firenze è praticamente dentro la città, fra l’autostrada, il polo universitario e il quartiere di Novoli. Una posizione in cui un aeroporto non dovrebbe stare. Per chi non lo sapesse il vicino aeroporto intercontinentale Galileo Galilei di Pisa ha un accesso diretto della ferrovia e potrebbe essere collegato con la stazione centrale di Firenze in 30-40 minuti.
Ma si sa, quando si sente profumo di “grande opera” i grandi interessi si mettono in moto. Così la Regione Toscana vende le proprie quote della società di gestione dell’aeroporto, che finisce nelle mani del magnate argentino Ernesto Eurnekian, coinvolto tra l’altro nel processo per bancarotta fraudolenta della compagnia Volare, si mette alla presidenza della nuova società Toscana Aeroporti Marco Carrai, fedelissimo a Renzi, e si dà il via all’ampliamento dell’aeroporto con annessi e connessi milionari. Che ci sia intorno un pezzo di città, che sia prevista la costruzione proprio lì vicino un inceneritore, che si stravolga l’equilibrio idrogeologico di una Piana che solo un secolare lavoro di bonifica e regimazione idraulica ha sottratto all’impaludamento, poco importa: il dado è tratto, l’opera (grande, naturalmente) s’ha da fare.
O meglio, tutti quei fattori, e molti altri, in realtà importerebbero, perché un aeroporto, lo vuole la legge, è opera da sottoporre a Valutazione di Impatto Ambientale. Ed è notizia di queste ore che, proprio all’interno della procedura di V.I.A. gli organi tecnici della Regione Toscana avrebbero preso posizione sulla nuova pista dell’aeroporto e detto due cose:
Tutto questo equivale ad una bocciatura senza possibilità di appello del progetto, che poi progetto non è: in contrasto con la normativa che richiede un progetto definitivo, è stato infatti presentato un “master plan”, un progetto di massima.
Che succede ora? Il compito di esprimere il parere conclusivo sulla compatibilità ambientale dell’opera spetta al Ministero dell’Ambiente tramite il Nucleo V.I.A. nazionale, ma la Regione Toscana ha il compito di fornire gli esiti della propria valutazione in tale sede. Quindi la Giunta presieduta da Enrico Rossi dovrà esprimersi a breve. Parrebbe ovvio che la delibera di una Giunta regionale non possa che fare proprio il parere delle sue strutture tecniche. Ma il Presidente Rossi sembra abbia già scelto una strada per dribblare la bocciatura: parla di una valutazione più complessiva, di tener conto di altre condizioni al contorno, di altri interventi contermini.
Si dà il caso però che uno degli interventi contermini sia proprio l’inceneritore, opera che difficilmente potrà avere un effetto di mitigazione nei confronti dell’aeroporto. La Giunta, e il Consiglio, si sono inoltre già espressi sulla sistemazione complessiva dell’area, con la variante al Pit, in sede propria, cioè di pianificazione territoriale di area vasta. Ma la Valutazione di Impatto Ambientale di una specifica opera è altra cosa: viene effettuata appunto nello specifico, sul progetto definitivo, entrando nel merito tecnico scientifico degli effetti ambientali di quella soluzione progettuale, e sono in ballo dati, numeri, quantità, elementi chimici e fisici, non infiorettamenti dialettici o bei discorsi sulla sostenibilità o quant’altro.
Anche se per la retorica dei dominanti ormai tutto diventa sostenibile, anche l’opera più invasiva, sarebbe l’ora di cominciare a chiamare le cose con il loro nome e finirla con gli ossimori tipo i missili intelligenti o la guerra umanitaria e prendere quindi atto che il progetto di espansione dell’aeroporto non è ambientalmente compatibile. Lo dicono i tecnici regionali, sarebbe il caso di non sacrificare per calcoli politici anche la loro professionalità.
Scritto il 12 novembre 2015 alle 14:09 | Permalink | Commenti (3)
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Scritto il 12 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (0)
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Crediamo di far cosa gradita proponendo la lettura di questo articolo di Fabio Martini su "La Stampa", che potrebbe costringere il premierino serial twitter a farci capire, una volta per tutte, se i suoi concetti di etica giudiziaria cambino a seconda che interessino De Luca o Marino, Lupi ed altri. Così... tanto perchè possiamo capire da chi siamo sgovernati...
Tafanus
Giustizia, la “dottrina Renzi” alla prova del caso Campania
L’inchiesta della Procura di Roma sul governatore De Luca chiama in causa il presidente del Consiglio e la sua “dottrina” su indagati e condannati
ANSA -Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca
Nella ricerca di un criterio unificante è stato ipotizzato da più parti che a muovere il premier sia il livello di popolarità, in quel preciso frangente, del politico sotto la lente di ingrandimento: De Luca sembrava proiettato verso una vittoria alle Regionali, aumentando lo score del Pd? “Assolto” da palazzo Chigi. Marino sembrava diminuire il potenziale consenso al Pd? “Condannato”. Davanti alla nuova intricata vicenda giudiziaria, il presidente del Consiglio non potrà sottrarsi ad un giudizio e potrebbe essere l’occasione per una definizione più puntuale della sua “dottrina” in fatto di giustizia per i politici.
Fabio Martini
Scritto il 12 novembre 2015 alle 08:00 | Permalink | Commenti (2)
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Scritto il 10 novembre 2015 alle 23:41 | Permalink | Commenti (0)
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