Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
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Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
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Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
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Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo Levi)
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27 Gennaio 2008: Giornata della Memoria. Oggi migliaia di blogs tratteranno della shoah, e moltissimi apriranno con le pagine introduttive del libro di Primo Levi (Se questo è un uomo). Il Tafanus l’ha già fatto l’anno scorso, e a costo di apparire monotono, lo farà finchè esisterà. Lo farà perché alla perdita della memoria non dev’essere concesso alcun alibi. Un popolo che perde la propria memoria, è pronto a ripetere gli errori del passato. Il Tafanus non farà di questo post una raccolta di dati, che possono essere facilmente reperiti in mille siti (ve ne raccomandiamo a titolo esemplificativo uno che a noi è piaciuto molto, www.Binario21.org, ma la scelta è molto ampia.
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Noi vogliamo piuttosto parlare della “nostra” memoria. La mia famiglia ed io riteniamo che un viaggio nei luoghi in cui l’uomo è diventato peggio delle bestie dovrebbe essere sentito come un dovere civico da tutti, così come, per altre ragioni, gli islamici sentono di dover andare, almeno una volta nella vita, alla Mecca. Noi siamo stati nei luoghi del disonore nel 2005 (nel complesso di Auschwitz-Birkenau); mia figlia è andata a Dachau e a Terezin, campo “specializzato” nel trattamento di bambini. A Terezin sono entrati, vivi, 15.000 bambini. Ne sono usciti vivi 100. L’uomo non dovrà mai più cadere nell’errore di pensare che certi orrori toccheranno sempre e solo gli altri. Una volta infranta la barriera fra umano e sub-umano, può toccare a tutti: agli ebrei e ai palestinesi, ai rom e ai brockers, agli omosessuali e ai comunisti. Ecco come l’indifferenza aiuta l’umanità a precipitare nell’abisso:
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Prima vennero per gli ebrei…
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" Prima vennero per gli ebrei,
e io non dissi nulla perché non ero ebreo.
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Poi vennero per i comunisti,
e io non dissi nulla perché non ero comunista.
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Poi vennero per i sindacalisti,
e io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
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Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa."
Martin Niemoeller - (Pastore evangelico deportato a Dachau)
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Il nostro “viaggio della memoria” era iniziato da una splendente Cracovia, splendente di sole, di bellezza urbanistica, di gioventù, di buone maniere. Il viaggio per il complesso dei lager non è lungo: circa un’ora di bus, attraverso una campagna non da cartolina; non è il Trentino o l’Engadina: davanti ai casolari galline e mucche non servono per fare cartolina, ma per mangiare. Si arriva ad Auschwitz quando inizia a piovigginare. E’ come te lo aspetti, con l’orrendo ingresso dei treni che arrivavano pieni e ripartivano vuoti, la scritta in ferro battuto “Arbeit Macht Frei” che sembra una bestemmia… il primo approccio è persino “deludente” per eccesso di leziosità. Piccole palazzine a due/tre piani, vialetti ordinati e persino qualche albero, niente baracche… insomma, chi non sapesse di trovarsi in uno dei luoghi più sinistri dalla storia della bestialità, potrebbe pensare di trovarsi a Crespi d’Adda, la cittadina – modello costruita dai Crespi per ospitare l’industria tessile dalla culla alla tomba (tutto insieme la fabbrica, le villette degli operai, le ville degli impiegati, le villone dei dirigenti, chiesa – ospedale – cimitero, tutto ordinato, tutto programmato… Poi qualcuno ti spiega che Auschwitz non è nata come campo di sterminio, ma come carcere per gli oppositori politici, poi gradualmente degenerato nel nucleo originario del luogo dell’orrore, il complesso Auschwitz-Birkenau, dove l’uomo ha perso il senso di se e ha trovato e fatto prevalere la bestia che si annida in ciascuno di noi…
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Benvenuti nella prima palazzina: è persino bella, fuori. Ma appena dentro, inizia il viaggio nell’orrore. Il piano terra è occupato dalla mostra (raccolta differenziata) di tutto quello che veniva preso agli ebrei al loro arrivo, o dopo la “doccia” purificatrice; tutto suddiviso in stanze “specializzate”: le scarpe, i capelli, gli spazzolini da denti, le micro-valigette di fibra, gli occhiali da vista, le “protesi” (braccia, gambe artificiali)… montagne di tutto.
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Il cielo fuori è sempre più plumbeo, ma cominciano ad affiorare tanti occhiali da sole, tanta gente che si soffia il naso… passi dagli oggetti alle presumibili storie sottostanti, e l’orrore diventa insopportabile. Le scarpe… dai uno sguardo, e individui centinaia di scarpine di bambini di due-tre anni, a fiorellini come un campionario di Fiorucci ante-litteram; scarpe piccolissime, quasi da bambola; colorate, graziose… cerchi di immaginare com’era fatta la bambina che le aveva ai piedi, e ti soffi il naso. Poi passi alla stanza successiva, che è piena di capelli: di tutti i colori, di tutte le età; in mezzo a masse informi di capelli, ogni tanto vedi dei “pezzi di umanità”: uno chignon bruno che ti fa immaginare una bella donna elegante, dei capelli grigiastri o bianchi, una lunghissima, integra treccia bionda… chissà se è la stessa bambina di quelle scarpine. E poi la stanza degli spazzolini da denti, quella degli occhiali, quella delle protesi… ma perché toglievano loro persino le protesi? E lo avranno fatto prima della “doccia” o dopo?
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Le “facilities per gli interrogatori e le torture erano nel “basement”, dove fa freddo anche d’estate. Lo strumento-principe, geniale nella sua semplicità, era costituito da una serie di stalli, chiusi da mezze pareti, di un metro quadro; in questo metro ficcavano quattro deportati (da punire o da interrogare) completamente nudi, che potevano stare solo in piedi. Finestre senza vetri. Ogni tanto li bagnavano per affrettare i processi di idrocuzione, fiaccare la resistenza. Chi moriva non aveva lo spazio per accasciarsi al suolo. Un minimo di cibo veniva fornito, per allungare il piacere dell’agonia.
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Facciamo un passo indietro, a quando “Il Treno” arrivava nel piazzale; Auschwitz non era attrezzato per contenere grandi masse, né per uccidere e cremare con grande efficienza. All’arrivo del treno, sul piazzale, c’era la prima brutale separazione: uomini da donne, bambini da adulti, sani da malati. L’80% in media degli arrivati (tutti i malati, gli anziani, gli handicappati, molte donne) venivano inviati direttamente “alle docce”, dove la morte con l’uso del Cyclon B arrivava in media dopo 20 minuti di atroci sofferenze. Poi serviva un certo tempo per “arieggiare” i locali, quindi le docce venivano evacuate da altri deportati, i cadaveri “smontati” per portar via qualsiasi cosa potesse tornare utile (capelli, denti, protesi). Ad Auschwitz non c’erano grandi crematori, quindi i cadaveri venivano ammucchiati in enormi fosse a cielo aperto, buttati dentro e bruciati. I fornetti di Auschwitz erano poco più che dei fornetti domestici, “monouso”. Ma l’allargamento di Birkenau, con le enormi baracche, i quattro grandi crematori che avrebbero mandato fumo acre, giorno e notte, per due anni, era quasi completato.
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Birkenau è un’altra storia, già dal primo impatto visivo: intanto le dimensioni, enormi; baracche allineate per chilometri; chilometri di recinti doppi, elettrificati, con torrette di guardia ad ogni piè sospinto. Birkenau è una macchina per morire, con ordine teutonico; coordinamento con gli orari dei “treni”… man mano che la disfatta tedesca diventa ineluttabile, le esecuzioni aumentano; c’è sempre meno tempo, meno fabbriche in cui lavorare, meno risorse con cui sfamare questi disgraziati; e poi, perché sfamarli? In fondo li hanno portati a Birkenau per ammazzarli, non per sfamarli. Ormai solo pochissime categorie hanno qualche possibilità di allungare la vita (vita?) di qualche giorno; qualche ragazza giovane che possa sfamare gli appetiti sessuali delle bestie tedesche, qualche coppia di gemelli (materiale genetico prezioso, per gli studi comparativi del dottor Morte); per gli altri, una spaventosa catena di montaggio: arrivo – separazione – doccia - smontaggio dei ricambi, e poi via, attraverso i camini sempre fumanti dei quattro crematori.
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A Birkenau tutto sembra studiato perché la gente “duri poco”, e perché quel poco sia vissuto nel massimo della sofferenza. Prendete i cessi. C’è una sola, enorme baracca adibita a cesso (come è fatta all’interno, lo vedrete in fotografia). Ma il problema è che la baracca-cesso non è sistemata a metà fra la prima e l’ultima baracca lager, ma ad una estremità. Quelli delle baracche più lontane, per arrivare ai cessi fanno quasi due chilometri fra la neve, con le scarpe che hanno o non hanno. Si defeca in tanti, alcune centinaia, tutti insieme: a contatto di natica. La gente la fa tenendosi ben stretti i pantaloni e le scarpe, perché se qualcuno ti ruba una di queste cose, sei morto. Altrimenti puoi farcela ancora per qualche giorno. Verso la fine, il nervosismo dei tedeschi, l’incendio continuo di documenti, l’accrescersi parossistico degli arrivi, lasciano intuire che la fine non è lontana. Il Tempo diventa prezioso. Qualcuno, forse, potrà farcela.
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Auschwitz-Birkenau: la fabbrica dello sterminio – Note storiche
Situato al centro dell’Europa, il campo di sterminio di Auschwitz Birkenau divenne operativo nel 1941. Attraverso le ferrovie i nazisti vi deportarono, a partire dal 1942, gli ebrei provenienti dall’Europa occidentale e meridionale, dal 1944 essi venivano fatti scendere dai convogli direttamente all’interno del campo e passavano la “selezione” che determinava chi sarebbe sopravvissuto per il lavoro e chi, circa l’80%, sarebbe stato eliminato dopo poche ore dall’arrivo. I pochi scelti per il lavoro venivano immatricolati con un tatuaggio sull’avambraccio, e subivano ogni giorno appelli e torture. Alloggiavano in baracche, ricevevano poco cibo in attesa di passare loro stessi per le strutture di messa a morte per i motivi più diversi o semplicemente a causa della debolezza. I beni dei deportati venivano sistematicamente predati all’arrivo e smistati in una struttura del campo denominata Canada. L’eliminazione dei cadaveri divenne presto uno dei principali problemi per i nazisti che in principio e nei momenti di massimo “lavoro” bruciarono i cadaveri all’aperto seppellendoli in enormi fosse comuni. Dal 1943 vennero messe in funzione due coppie di edifici gemelli, i Krematorium 2 e 3, e 4 e 5, dove il processo di messa a morte e di smaltimento ed eliminazione dei cadaveri fu organizzato come in una moderna fabbrica a ciclo continuo. Le vittime dovevano spogliarsi in una grande stanza con l’illusione di essere condotte alle docce, poi in migliaia venivano stipati in una stanza con false docce nella quale veniva introdotto il gas che in circa 20 minuti ne provocava la morte tra orribili sofferenze . I cadaveri venivano poi estratti dalle camere a gas e spogliati anche dei capelli e dei denti d’oro. La fase finale avveniva nella sala forni dove i corpi erano ridotti in cenere. Le strutture della morte vennero distrutte dai nazisti in fuga all’arrivo degli Alleati. Rimasero piani costruttivi, macerie ma, soprattutto, testimonianze dei pochissimi sopravvissuti.
...la liberazione...
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