Recensione del film "IL CLUB" (di Angela Laugier)
Regia: Pablo Larrain
Principali interpreti: Roberto Farías [I], Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking,Jaime Vadell, Marcelo Alonso – 98 min. – Cile 2015
Un’altura su un tratto di costa deserta del Cile: lì sorge “El Club”, una villetta gialla, priva di pregi architettonici e piuttosto anonima, al cui interno è confinato un gruppo di quattro preti che la Chiesa ha allontanato dal ministero in seguito a gravi scandali. Essi sono sorvegliati da una suora, Monica (Antonia Zegers), ora allo stato laicale forse per qualche colpa, che sconta attraverso il lavoro di cura della casa (la pulizia prima di tutto) e di accudimento degli uomini che la abitano: a quest’ultimo compito si dedica con dolcezza materna, di cui non tarderemo a cogliere gli aspetti prevaricatori e autoritari, abilmente camuffati da un sorriso indulgente e ipocrita. Le immagini iniziali del film indugiano sulle attenzioni di Monica al lindore della casa, presentandoci le sue scrupolose operazioni di pulizia all’ interno e anche all’intorno, quasi per evitare che infezioni sempre in agguato mettano in forse la serenità e l’equilibrio dei suoi quattro abitatori, ormai abituati alla loro condizione di semi-prigionia (possono uscire di lì, ma non avvicinarsi al villaggio circostante, denominato la Boca ) alquanto claustrofobica. Uno dei quattro è padre Vidal (il grande Alfredo Castro), allevatore di levrieri, che egli impegna in gare di velocità, intorno alle quali un gioco di scommesse coinvolge anche gli abitanti del villaggio. La piccola comunità degli ex preti ne ricava qualche guadagno, utile per continuare ad allevare i cani ma anche per soddisfare qualche capriccio, come l’acquisto di qualche ghiottoneria oltre ai super alcolici o al tabacco: alla semi-prigionia fa riscontro, dunque, il persistere di comportamenti che non molto si addicono alla condizione di chi si trova in quel luogo per espiare un passato di colpa e di peccato, ma ampiamente tollerati dalla suora, che è l’unica a mantenere rapporti con la popolazione locale e che è molto interessata a non destare, a La Boca, sospetti o curiosità intorno al Club.
Questa condizione di equilibrio e di tolleranza un po’ complice entra in crisi allorché una quinta persona viene inviata dalla Chiesa a scontare le proprie colpe in quel luogo: è il pedofilo padre Lazcano, il cui arrivo è seguito da quello di una sua vittima, Sandokan (Roberto Farías), che da piccolo aveva subito le sue turpi attenzioni e che ora non gli dà tregua: si piazza infatti di fronte alle finestre del Club, lo chiama a gran voce ricordandogli il suo vergognoso peccato, descrivendone i dettagli più osceni in modo così ostinato da indurre Lazcano a togliersi la vita con un colpo di pistola. Non erano bastate, dunque, le pulizie meticolose per tenere il male lontano da quella casa: ora quel male accuratamente nascosto, era diventato di pubblico dominio.
Era possibile, dunque, almeno dopo che si era finalmente chiarita l’inutilità di celare i mali più gravi del clero, un comportamento diverso da parte della Chiesa cilena? La forza scandalosa della verità si era rivelata davvero capace di spalancare le porte ostinatamente chiuse del club e forse anche di far entrare un po’ d’aria pulita e respirabile al suo interno? La Chiesa aveva risposto allo scandalo inviando sul posto un giovane gesuita, padre Garcia (Marcelo Alonso) che intendeva portare alla luce l’infezione, per quanto estesa, senza timore e senza pietà per nessuno. Naturalmente non volendo anticipare il finale del film, non dirò se e in quale misura questo gli sarebbe riuscito.
Il film, che è di notevole complessità, non è (se non in modo molto mediato) un film politico o religioso. Com’è nello stile del regista, infatti, i modi della narrazione trovano il loro centro e la loro forza espressiva non solo nella più o meno realistica rappresentazione di un gruppo di vecchi e viziosi membri di una Chiesa più che mai corrotta e collusa con il regime di Pinochet, ma soprattutto nell’opposizione luce – tenebre, evocata fin dall’inizio del film, preceduto dal verso famoso della Bibbia (Genesi I-IV):
E Dio vide che la luce era buona, e separò la luce dalle tenebre.
La presenza di questa dicotomia percorre il film, ma le tenebre ben più della luce permeano la vita del Club: gli unici momenti in cui il gruppo degli ospiti della casa vedono le cose in piena luce sono quelli in cui, attraverso il binocolo si godono, da molto lontano, la corsa dei levrieri, ma anche qui l’accomodamento delle lenti non permette una perfetta messa a fuoco. In ogni caso, la luce del luogo, all’interno o all’esterno dell Club, è come offuscata da una nebbia bluastra che non sempre rende percepibili i contorni delle cose e del paesaggio. Tutto il film sembra invitarci a riflettere se davvero le tenebre siano state pienamente separate dalla luce, cioè sembra invitarci a una meditazione sul bene e sul male, sull’imperfezione dei malvagi, cui non manca, talvolta, per quanto gracile, qualche traccia di coscienza tormentata, come nella figura di Padre Vidal, nonché sulla crudeltà spietata del “bene”, impersonata da un inquisitore temibile e fanatico come padre Garcia, unico interprete autorizzato di ogni bene possibile. Film molto bello di questo regista poco conosciuto in Italia, dove sono passati come meteore, lasciando dietro di sé poche tracce, film importanti e magnifici come Tony Manero (di cui non credo sia mai uscito un DVD) e Post Mortem, che gli interessati possono trovare qui recensito. Orso d’argento alla Berlinale dello scorso anno, assegnato per la miglior regia e finalmente visibile anche da noi, al solito con qualche mese di ritardo.
Angela Laugier
P.S.: Metto anche il link alla mia recensione dell'Oscar Il caso Spotlight, ad uso di chi fosse curioso di conoscere il mio parere.
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