Voto contro le divinità di una società ingiusta - Diseguaglianze e iniquità in crescita da anni. Che le classi dirigenti non hanno voluto vedere. Le radici profonde delle scelte elettorali in Europa (di Luigi Vicinanza - l'Espresso)
Ci stiamo avventurando in terre incognite. Elezione dopo elezione. Lo choc provocato dal referendum britannico legittima con il voto popolare quella che possiamo definire la caduta dell'egemonia culturale delle classi dirigenti europee, così come si sono affermate dalla Seconda guerra mondiale in poi. "La fine delle élite", è la sintesi contenuta nel titolo di copertina di questa settimana.
L'Europa si dissolve nelle urne. Con il voto democratico, cioè con lo strumento più popolare e al tempo stesso sofisticato che tre secoli di cultura politica ci hanno tramandato. Paradosso della Storia: lì dove un faticoso e travagliato percorso ebbe inizio, con le rivoluzioni borghesi inglese e francese del XVII e XVIII secolo, proprio lì sembra interrompersi il patto costituente tra rappresentanza politica e rappresentati.
«È la rivolta del popolo contro le élite», così Marine Le Pen raccontò l'insperata massa di voti raccolti nel primo turno delle regionali francesi lo scorso dicembre. È diventato il manifesto del populismo montante. Che ha travolto lo stesso David Cameron: aveva barattato il referendum sull'Europa in cambio di voti per assicurarsi la rielezione appena un anno fa. Apprendista stregone, sarà ricordato come il premier britannico più inadeguato e irresponsabile degli ultimi 70 anni.
Le generazioni del Dopoguerra hanno sempre concepito la democrazia e la pace come beni conquistati per sempre sulle macerie del nazifascismo. Un'epoca durata a lungo, durante la quale le sorti magnifiche e progressive del Vecchio Continente hanno assicurato sviluppo, crescita sociale, welfare e cooperazione a chi aveva avuto la fortuna di vivere dalla parte giusta del Muro di Berlino. Le istituzioni sovranazionali e la moneta comune avrebbero dovuto metterci al riparo dai drammi del passato. Un sogno utopico solo in parte realizzato. Progressivamente scalzato, nella percezione delle grandi masse, da una teocrazia esoterica e intoccabile, dispensatrice di dogmi incomprensibili: «Ce lo chiede l'Europa…» è diventata, non solo in Italia, l'ambigua formula che a tutto obbliga e nulla spiega. Ma di fronte alla guerra asimmetrica condotta dal terrorismo islamico - ultimo attacco a Istanbul - le istituzioni comunitarie latitano (...PENULTIMO attacco a Istanbul. La cronologia dell'orrore ha bisogno di essere aggiornata minuto per minuto...Ultimo - per ora - attacco in Bangladesh. NdR)
Con questo numero dell'"Espresso" proviamo a fornire ai lettori strumenti di comprensione di un processo dagli esiti imprevedibili. Ecco dunque i punti di vista di Zygmunt Bauman, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Roberto Esposito, Marc Lazar, Enrico Letta, Marcello Minenna, Manuel Vilas.
«Il progresso si associa al timore di restare indietro, di perdere la posizione sociale e il benessere guadagnati con fatica» dice Bauman parlando della «forza degli incubi della decadenza di cui è foriero l'avvenire minaccioso». La Grande Crisi, scoppiata nel 2008 e dalla quale non siamo mai usciti, è stata il detonatore di questa incertezza di massa. Tuttavia secondo recenti dati dell'Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), tra il 1975 e il 2012 il 47 per cento circa della crescita totale dei redditi «è andato a beneficio dell'1 per cento dei più ricchi». Insomma le ingiustizie sociali e le diseguaglianze hanno radici profonde che riemergono prepotentemente alimentando le recenti scelte politiche dell'elettorato europeo.
Ma non sono più le tradizionali forze di sinistra a farsi artefici del cambiamento. È il populismo ad alimentarsi del malessere provocato da vaste aree di ineguaglianza. L'interpretazione manichea trova così la sua sintesi: da un lato il popolo vessato, dall'altro le élite privilegiate. E dentro i confini delle élite ritroviamo non solo la City londinese, le banche, i governi e i partiti, il mondo dell'informazione e chi più ne ha, più ne metta. Persino le società di sondaggi patiscono la disistima di massa come dimostrano i penosi flop degli exit poll nel Regno Unito e in Spagna.
Appena un anno fa, più o meno in questi stessi giorni, Angela Merkel e il suo ministro Wolfgang Schaeuble spezzarono le reni alla Grecia dell'incauto Alexis Tsipras. L'euro è salvo (forse), l'Europa no, fu il commento su questo giornale. Nei manuali di economia non si studia l'orgoglio di una nazione. Presi per fame i greci, costretti a umilianti file davanti ai bancomat, la crisi si è riproposta moltiplicata al cubo nella potente Inghilterra. Senza che le classi dirigenti avvertissero il rischio. Così, se è vero che il mercato globale e la finanza internazionale non si candidano mai alle elezioni, abbiamo imparato in modo traumatico che gli elettori se possono votano contro di loro, divinità inique di una società ingiusta.
Luigi Vicinanza - l'Espresso
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Le caste nel mirino.Tutte, non solo quella politica. Per ridare fiducia nelle classi dirigenti bisogna allargarne il perimetro. E limare disuguaglianze che oggi sono diventate insopportabili - Il pensiero di Marc Lazar (di Gigi Riva - l'Espresso)
La Brexit. E a novembre Donald Trump negli Usa. Nella primavera del 2017 Marine Le Pen in Francia. Infine il Movimento 5 Stelle che vince in Italia. Tra il serio e il faceto il professor Marc Lazar, docente di storia e sociologia politica a Sciences Po (Parigi) e alla Luiss di Roma, snocciola il rosario delle sue preoccupazioni. Un filo rosso le tiene insieme: il successo di forze anti-sistema. Sarebbe la prova definitiva della sconfitta delle élite. In Gran Bretagna, sia quelle politiche sia quelle economiche erano per il "remain". In America il miliardario col parrucchino è inviso all'establishment del suo stesso partito eppure si avvia a conquistare la nomination. A Parigi il Front National è avversato da tutte le formazioni tradizionali e cresce. In Italia i grillini sono il vessillo degli anti-sistema. «L'epoca in cui viviamo», ragiona il professore, «è caratterizzata dal rifiuto, anzi addirittura dall'odio verso le classi dirigenti. Non solo della casta politica, anche di quelle social-imprenditoriali, economiche, finanziarie, aziendali, accademiche, intellettuali, mediatiche.
Ci siamo dentro tutti. Un sentimento diffuso che ricorda gli anni '20 e '30». Similitudine da far tremare i polsi, è il periodo che prepara le dittature totalitarie e la Seconda guerra mondiale. Ma naturalmente i paragoni sono per natura zoppi - come Lazar si affretta a spiegare: «Attenzione, non dico che sono la stessa cosa. Ma intendo rappresentare come nella storia ci siamo momenti in cui c'è armonia e convergenza tra élite e popolo e altri in cui c'è divorzio». Non è una novità Oltreoceano «dove anche in passato ci sono state fasi di rigetto di Washington e del potere federale». E da noi, in Europa, è comunque più accentuato il distacco. Secondo la seguente declinazione: «Molto forte in Italia, forte in Francia e, novità chiara solo adesso, anche in Gran Bretagna. A questo si somma la presa di distanza dal progetto europeo proprio perché considerato un prodotto di classi dirigenti in crisi di legittimità e credibilità».
Tocchiamo l'acme, in questo fatale 2016, di un processo iniziato nel nuovo millennio, pur se lo studioso individua qualche segnale premonitore più antico «nell'Italia degli anni '90 con Tangentopoli e la fine della prima Repubblica, nella Francia del referendum su Maastricht che passò per un soffio nonostante François Mitterrand avesse investito tutto il suo prestigio». Ma le tappe cruciali sono: «La bocciatura del referendum sulla Costituzione europea sempre in Francia nel 2005; la crisi economica iniziata nel 2008; la Brexit ora». Procedendo per grandi categorizzazioni Lazar riassume: «L'Ottocento è stato il secolo dei parlamenti e dei nazionalismi; il Novecento quello dei totalitarismi e delle democrazie dei partiti; il Ventunesimo secolo si avvia a diventare quello dei populismi».
Seppur sconfitte, le élite sono «indispensabili, non c'è alternativa». Per riesumarle bisogna però prima ricomporre una serie di fratture profonde: «Tra chi ha un certo grado di istruzione, ed è favorevole a una società aperta, e chi no; tra i giovani e gli anziani; tra le periferie e i centri delle città». Già ma come? «L'unica strada è modificare la composizione della classe dirigente. Si tratta di allargarla ai giovani e alle donne, tenere conto della diversità della popolazione. E naturalmente deve essere privilegiato il merito». Cita l'esempio di Sciences Po «dove abbiamo lanciato una selezione specifica per giovani delle aree disagiate. Non per fare delle élite lo specchio della società ma per dare a tutti le opportunità di integrarle». Non arriva dunque , Lazar, al punto da suggerire le "quote" rosa o per immigrati, «però dobbiamo uscire da questa oligarchia che si riproduce in continuazione e ristabilire quella uguaglianza dei punti di partenza», quella "égalité" fondante nel suo Paese.
Perché adesso invece succede più o meno questo: «Un francese di buona famiglia va in un bel liceo classico o scientifico, quindi si iscrive in una "grande école" e a 23-24 anni si ritrova in un posto di responsabilità che manterrà per sempre senza mai essersi confrontato con nulla di diverso dal suo ambiente». Quando invece bisognerebbe includere, nel momento di crescita, esperienze dirette con il mondo reale che non è quello del gruppo in cui si nasce.
Vengono in mente due esempi opposti. Gli Agnelli che mandavano i figli in fabbrica sotto falso nome perché fossero coscienti delle fasi della produzione. E il Pci che obbligava i dirigenti alla gavetta in periferia prima di assumere incarichi nazionali. «Cose che oggi non si fanno più», riconosce Lazar il quale rilancia: «Il mestiere della politica non deve essere una carriera a vita e in questo caso limitare il numero dei mandati può essere una soluzione. Si fa un turno in panchina, si accumulano altre esperienze e poi si torna. Noi passiamo il tempo a spiegare alla gente comune che viviamo in un'epoca in cui è assurdo pensare a un mestiere che copra l'intero arco dell'esistenza e poi le classi dirigenti non fanno altro fino alla morte. E la mobilità prescritta agli altri non vale per loro». Dalla distanza tra proclami e realtà, tra dire e fare, nasce la rabbia degli esclusi «e se guardo i risultati della Raggi o della Appendino nelle periferie di Roma o di Torino mi rendo conto che i 5 Stelle sono riusciti meglio degli altri a cavalcare la frustrazione sociale».
La forbice della disuguaglianza si è talmente allargata da risultare insopportabile. «Io capisco che chi si trova in posizioni di responsabilità deve avere redditi importanti, ma certe cifre sono diventate inaccettabili in società come le nostre che hanno la passione dell'uguaglianza, per citare Tocqueville. Da qui parte l'odio». Fino ad assumere gli aspetti di una rivoluzione politica di ampiezza storica che supera gli steccati della distinzione classica tra destra e sinistra per proporne una nuova tra forze "nel sistema" e forze "anti-sistema". Lazar non condivide fino in fondo. Crede ancora che esista «una differenza ideale, filosofica tra una sinistra che pensa che le disuguaglianze vadano corrette con intervento pubblico e una destra per la quale si correggono solo con l'azione del singolo».
Il professor Lazar, molto pessimista sul breve periodo, pensa che ragionando su tempi più lunghi siano dunque due le priorità: «Fabbricare la nuova classe dirigente puntando sulla diversificazione; ricostruirne la fiducia e la legittimità». Dove un ruolo fondamentale dovrebbe essere ricoperto dalla scuola, istituzione che, se fatta ben funzionare, è in grado di livellare i punti di partenza e promuovere la meritocrazia. Se deve però lanciare un segno di speranza, e sempre usando il paragone con gli anni tra le due guerre mondiali, così ragiona: «Oggi siamo in una situazione di crisi della democrazia, non di minaccia della democrazia. Le formazioni populiste non vogliono la dittatura a differenza degli anni '30 quando Hitler sosteneva esplicitamente di odiare la democrazia e di volere un regime autoritario o Stalin voleva la dittatura del proletariato».
È vero tuttavia che la fine delle élite significa la crisi della democrazia della rappresentanza, mentre gode di favori la democrazia diretta. E il professore, partito pessimista, si lascia andare al secondo sussulto di ottimismo: «I populismi sono una febbre, non sono la malattia. Pongono il problema del funzionamento della democrazia e questo potrebbe costringerci a migliorare le nostre procedure democratiche. Potremmo, in definitiva, considerarla un'opportunità».
Marc Lazar e Gigi Riva per l'Espresso
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