In una delle ormai abituali "pulsioni leccatorie", Renzubblica cartacea di oggi, nell'occhiello del fondo, su 6 colonne, fornisce la notizia principale:
Amatrice seppellisce i suoi morti. Mattarella e Renzi in piedi fra la gente
Ne siamo contenti. Nel corpo dell'articolo veniamo ulteriormente rassicurati: "Mattarella e Renzi sono rimasti in piedi durante tutta la cerimonia". Siamo orgogliosi e felici. E noi che pensavamo che avrebbero assistito alla cerimonia funebre stravaccati su due comode poltrone Frau elitrasportate per l'occasione! Invece no: sono stati "in piedi per tutta la cerimonia". Guardando le foto della cerimonia, si evince che non fossero gli unici "in piedi", ma che fossero in piedi esattamente come padri, madri figli, fratelli, sorelle dei morti. Ma la cosa deve aver colpito particolarmente i titolisti di Renzubblica, immaginiamo istruiti dalla direzione e/o dalla proprietà, o guidati da un proprio istinto da "più realisti del Re".
Per fortuna che - nonostante tutto - in Renzubblica abbiano ancora un piccolo spazio giornalisti come Vittorio Zucconi e Corrado Zunino... Il primo ha scritto un articolo nel quale non si mostra ciecamente pronto a credere alle abituali (persino nella forma) promesse post-catastrofi:
- Nessuno sarà lasciato solo
- In 30 giorni niente più tende
- Prenderemo tutti i soldi che ci servono
- Non aumenteremo le tasse
- Ricostruiremo tutta l'area "com'era e dov'era"
...minchiate così, sentite ad ogni terremoto piccolo o grande, ad ogni frana, ad ogni alluvione...
Il secondo - Corrado Zunino - ha intervistato, provocato, plaudito al giovane prete Don Fabio Gammarota, già parroco di Amatrice, che ha fatto togliere dallo spazio del funerale le "corone sponsorizzate (così le ha letteralmente definite). Sponsorizzate, of course col marchietto dei politivcanti di turno.
Ma andiamo con ordine, e iniziamo dall'articolo di Vittorio Zucconi
Amatrice. Con queste preghiere nel fango, con queste parole di pioggia che sgocciolavano su ventotto bare, finisce il conforto del rumore e piomba su Amatrice la paura del silenzio. Nella spossante similitudine di tutte queste catastrofi, nel rito sempre identico in tutto il mondo del dolore pubblico che s'impadronisce del dolore privato nell'illusione di lenirlo e di sentirsi meno in colpa, Amatrice è stata per una sera il paese dei morti che hanno dovuto confortare i vivi. Senza un grido, senza scene di strazio, in una compostezza che smentisce i luoghi comuni dell'italianità melodrammatica.
Per ciascuna di quelle poche casse strette sotto il tendone eretto in fretta dalla Protezione Civile, in allarme per il temporale, davanti alle rovine dell'istituto di don Minozzi come altare maggiore alle spalle dei celebranti, si erano raccolti più di cinquemila magnifici soccorritori, mai tanti vivi per così poche salme. Altissimi Granatieri di Sardegna per portare a spalla le due piccole bare bianche dei bambini, boy scout, cinquecento giornalisti e video operatori anche stranieri, cinquanta religiosi in paramenti viola — due per ogni defunto — per la celebrazione del rito funebre celebrato dal vescovo di Rieti, monsignor Pompili, formavano un'armada di vivi, ciascuno nelle uniformi del proprio ruolo.
Tutti noi siamo convenuti qui, come le autorità, le grisaglie, i completi blu piovuti dagli elicotteri, Mattarella, Renzi, Grasso, Boldrini ma non Di Maio e la sindaca di Roma Raggi arrivati diversamente in automobile, in un paese che non c'è più, per farci perdonare da chi non può più farlo. E che di mattina, in lunghe file per la Strada Regionale 577, la sola piccola strada contorta che ancora colleghi Amatrice con il resto del mondo, hanno cominciato la processione alla rovescia. L'invasione della commozione e della solidarietà sempre a rischio di diventare la ritirata della dimenticanza. Se l'immensa mobilitazione di sentimenti, di mezzi, di promesse e di uomini che si sono arrampicati fino a questo paese del Centro Italia, celebre fino a ieri per il piacere di un sugo della pasta, ed esploso nella tragedia dalle 3 e 36 di mercoledì sulle pagine e sui teleschermi di tutto il mondo si traducesse in opere, Amatrice potrebbe essere ricostruita com'era, e ben più solida, alle 3 e 35 di quella notte, in poche settimane. E se lo Stato, il governo, il potere politico ed economico, lo volessero, potrebbe essere un perfetto laboratorio di come si può resuscitare una piccola comunità devastata.
È obbligatorio sperare, ma non necessariamente credere, perché la Fede era riservata a chi, seduto nelle file di sedie per i parenti dei morti interpuntate fra le poche casse di mogano raccolte fra le quasi 300 nelle Marche e nel Lazio per il funerale di Stato, ascoltava la meravigliosa promessa di resurrezione del rito cattolico, non a chi di noi ha visto troppe omelie vuote di governanti sulle rovine di New Orleans, di Città del Messico, di Fukushima, di Baton Rouge, dell'Aquila, per non essere scettico fino a prova contraria.
È sicuramente sincero il Matteo Renzi che al suo arrivo abbraccia una signora giurandole ancora una volta che "non vi lasceremo soli", perché su questa promessa si fonda la sua dignità, prima che il suo futuro politico. Era commossa davvero Virginia Raggi, che piangeva dopo avere ascoltato una ragazza gridarle: «Forza Virginia, crediamo in te, Amatrice è vicina a Roma». Ma la sincerità di un giorno non sempre è la realizzazione concreta del giorno dopo. Per ora, per questa serata gonfia di pioggia che non risparmiava neppure i sacerdoti che portavano il calice delle ostie consacrate preceduti da scout con bandierine bianche senza trovare nessuno che si comunicasse nel recinto dei giornalisti, ci si deve accontentare. Ci si consola con la tenerezza dei parenti dei bambini uccisi, la cura affettuosa con la quale è stata posata la bara di Ivan Veralu, il bambino romeno di tre anni, l'attenta festosità dei cagnolini ritrovati vivi come Sky, tornati nelle loro famiglie, con quei brandelli di vita che rendono sopportabili i funerali.
In una comunità sbriciolata in immagini di sciagura che mi assalgono da ogni angolo, la compostezza della cerimonia è stata una rappresentazione di ordine, un'illusione di normalità, anche per chi non ha il privilegio di credere alla «certezza della vita eterna» con la quale il vescovo ha chiuso la messa, dopo l'invito ad andare in pace. La normalità è solo una promessa, per ora, ripetuta in abbracci dopo abbracci da Mattarella e da Renzi, che ha apprezzabilmente rifiutato di parlare ai giornalisti, lontana da una realtà incerta nella quale l'unico impresario di pompe funebri ha ancora cinque bare con le salme nel proprio garage, il Ciaralli, in attesa dei funerali privati che il parroco don Savino celebrerà questa mattina, per famiglie che non hanno voluto unirsi alla funzione pubblica. È lontanissima dall'esperienza di coloro che hanno dovuto andare all'obitorio improvvisato, opprimente e refrigerato soltanto da "pinguini" portatili impotenti di fronte all'incalzare delle ore, a riconoscere i propri cari a volte soltanto attraverso tatuaggi, assistiti dai volontari degli "psicologi per i popoli", disumani nella loro missione umana.
Niente è mai nuovo, in queste pagine di tragedia che la storia umana scrive, promettendo a se stessa di non scriverne mai più, sapendo che si ripeteranno, perché non Dio ( che «non può essere utilizzato come un capro espiatorio»), ma è l'uomo che uccide, anzi le «sue opere», come ha detto il vescovo. Niente è inedito, nell'album delle catastrofi che lasciano ovunque lo stesso sentimento contraddittorio di inevitabilità e di colpa, dove la doverosa ricerca tecnica e giudiziaria delle responsabilità, se esistono, risponde almeno alla domanda che si legge sempre negli occhi dei superstiti: perché? Sapere che quel bambino romeno, quella famiglia del fornaio del paese sono stati uccisi dalla disonestà, dalla incompetenza, dalla incuria di qualcuno non restituisce i morti, ma toglie il sospetto di un'inspiegabile e mirata crudeltà divina.
Naturalmente aveva smesso di piovere e di tuonare alle 7 di sera, quando la cerimonia è finita, nella propria encomiabile stringatezza e il cielo di Amatrice si è riempito del pulsare delle pale degli elicotteri, segnale di un'apocalisse finita Soltanto un paio di palloncini bianchi erano rimasti contro le volte del tendone, sfuggite alle mani di bambini che piangevano, giustamente più addolorati dal palloncino volato via che dal mistero a loro incomprensibile della morte. Nel campo della Protezione civile, il campo dei vivi organizzato accanto al tendone dei morti, tornavano a mescere caffè e a distribuire insalate di tonno e fagioli, instancabili, nel prato zuppo di temporale. Il Cristo volante, un crocefisso di legno preso dalla chiesa di un paese vicino, Bugnaco, sistemato sopra l'altare, senza croce e appeso per le mani alle funi - quasi un Cristo ginnasta agli anelli - poteva riposare e tornare a terra, verso il suo altare. Al Cimitero ho visto scavare le fosse, fino a sera nella terra fangosa, per accogliere i protagonisti dell'addio, che i soldati portavano via dal tendone ormai vuoto, presagio della loro definitiva solitudine, mentre i vivi tornavano in quello che resta del loro paese. Sognando tutti, noi che possiamo ancora farlo, noi che ne abbiamo viste già troppe, che anche questa di Amatrice non sia stata soltanto un'altra inutile strage.
Vittorio Zucconi
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E quella che segue è l'intervista di Corrado Zunino al prete "anti-corone sponsorizzate"
Un prete giovane e alto, la barba curata, si volta dall'altare che la messa deve ancora iniziare — e ai militari dell'Esercito, ai corazzieri dei carabinieri che stanno sistemando sotto la chiesa-tendone le corone di fiori istituzionali, dice: «Queste le portate via, la cerimonia non ha bisogno di sponsorizzazioni».
Un accenno di applauso, pochi hanno sentito. Le corone tornano indietro, subito. Lontane dall'altare, fuori dalla chiesa. Sono quattro. Del presidente del Consiglio, del Presidente del Senato, della sindaca di Roma e del presidente della Regione Lazio.
Vengono appoggiate di lato, lontano dalle inquadrature tv. Il giovane prete è Don Fabio Gammarota, da otto anni parroco di Posta e Cittareale, comuni del Reatino a venti minuti dal sisma. Per una stagione è stato sacerdote anche ad Amatrice. E lunedì scorso è stato un protagonista dell'opposizione (vincente) ai funerali da celebrare all'aeroporto d i Rieti.
Don Fabio, perché ha rimandato indietro le corone dei politici?
«Toglievano la vista della messa a chi stava dietro, c'erano diversi familiari. E quei fiori non potevano stare in uno spazio liturgico».
Come, non potevano stare? Ogni funerale, in ogni chiesa, ha corone di fiori.
«Dalla mia parrocchia li ho banditi. Solo lo stretto necessario, se proprio i familiari vogliono».
Perché, Don Fabio?
«Il giorno dopo il fiore è già morto, invece i problemi restano. In un funerale come questo il profluvio di corone costa migliaia di euro. Una sola va dagli ottanta ai quattrocento euro, soldi buttati. Perché chi ha firmato quegli addobbi floreali non ha fatto un assegno di pari valore?».
Ecco, veniamo al punto: quelle erano le corone delle istituzioni italiane e romane. Non è che ce l'ha con loro?
«Diciamo, intanto, che se uno vuole fare un omaggio, abbellire una chiesa, non deve poi firmare quell'omaggio, mettere
il cartello».
E poi?
«Mi piace l'idea che chi viene da fuori e assiste a un dolore di questa portata si accomodi nella sedie in fondo e aspetti che il protagonista di quel dolore gli dica: "Amico, vieni a sederti con noi, davanti"».
Vede che riecheggia la polemica contro lo Stato centrale. La si sente spesso nelle parole del sindaco di Amatrice.
«C'è rabbia pregressa, è indubbio. Nessuna critica ai soccorsi e alle prime azioni del governo, ma va ricordato che la provincia di Rieti è frutto di uno spezzatino. Un po' tolta da Roma, un po' da Ascoli, un po' dall'Aquila. Il risultato è che per arrivare qui non c'è neppure una ferrovia. Roma ha inghiottito la nostra gioventù. L'unica risposta a questa ingordigia è sul territorio. Oggi dobbiamo lasciare a terra ogni piccola faida di paese e creare una comunità unica: Amatrice, Accumoli, Posta, Cittareale. Una tragedia come questa può essere superata solo qui e insieme».
Intervista di Corrado Zunino
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