Doveva essere la scelta definitiva. Un voto chiaro: il nuovo contro il vecchio, o di qua o di là. Poi tutto si è complicato. Ecco come lo scontro sulla riforma costituzionale è diventato una fiera delle vanità. Scadente
(di Emiliano Fittipaldi - l'Espresso)
Trionfo della chiarezza. Fine delle mezze misure. L'ingresso definitivo dell'Italia nel club delle democrazie occidentali, quelle in cui si sa chi è il vincitore delle elezioni la notte del voto. Settant'anni dopo il referendum del 2 giugno 1946, quello tra Monarchia e Repubblica che spedì in esilio il Re, un'altra scelta netta, il Cambiamento contro la Conservazione.
Era questo lo scenario che Matteo Renzi aveva pianificato fin dal suo arrivo a Palazzo Chigi, nel febbraio 2014. Dopo l'avvento dell'outsider fiorentino al vertice dell'esecutivo, in un panorama di macerie politiche, economiche, morali (un Parlamento incapace di eleggere il presidente della Repubblica, un ex presidente del Consiglio ai servizi sociali, la recessione), riscrivere finalmente la Costituzione. E completare la scalata. Con un plebiscito di popolo.
Sembrava cosa fatta soltanto qualche settimana fa, quando il premier aveva invocato la nascita dei comitati del Sì in tutta Italia. Sognava di essere il nostro Charles de Gaulle, con gli abiti civili al posto di quelli militari e le dirette su Facebook in luogo degli appelli radiofonici. Il fondatore di un nuovo equilibrio istituzionale. Senza toccare la forma di Stato e di governo, formalmente l'Italia sarebbe rimasta una repubblica parlamentare. Almeno per ora. Perché in un colloquio pubblico con Eugenio Scalfari, l'11 giugno scorso, Renzi si era spinto a proporre una legge per limitare a due i mandati del premier. Proposito rivelatore: il mandato è un istituto inesistente nell'attuale Costituzione, ma tipico delle repubbliche presidenziali.
Nell'estate 2016, però, tutto si è fatto incerto: in Italia e in Europa, dove ci sono paesi senza governo da otto mesi (Spagna), altri in cui si annullano e ripetono le elezioni presidenziali (Austria), mentre qualcuno ha deciso di andar via per sempre (Gran Bretagna). E anche il progetto di Renzi si è dissolto. Era composto della sostanza dei sogni e ha avuto breve vita. Lasciando il palcoscenico a un copione più italico. Nessuna scelta epocale. Ma un susseguirsi di distinguo. Di ambiguità. Di incertezze. Sì che suonano come No, No pronti a tramutarsi in Sì, e tutti destinati a scolorire in un grande Forse. Mentre nelle piazze infuria il dibattito, la divisione sulla riforma che riscrive 45 articoli della Carta del 1948 diventa un Festivalbar dei Costituzionalisti: docenti in tournée, rappresentazioni teatrali, invasioni nelle librerie, raccolte di firme. L'anteprima della stagione autunnale, quando tornerà in tv quel che rimane dei talk-show. Con una sola certezza: il voto che una parte del Paese vive come un mutamento di era, e un'altra come la premessa di uno sbocco autoritario, si è già trasformato in altro. Una lunga resa dei conti tra partiti, correnti, professori, intellettuali, giornalisti, registi, in cui ognuno mette del suo, tutto tranne che il merito della questione. L'oggetto della riforma, quasi sconosciuto. Un referendum all'italiana.
REBUS DATA - Il referendum all'italiana ha un'anima ballerina. Perfino sul giorno dell'Armageddon si è smarrita ogni certezza. Nel novembre del 2015 Renzi aveva spiegato, categoricamente, che «il referendum si terrà ad ottobre 2016». Concetto ripetuto ancora due mesi fa, prima delle elezioni amministrative: «Spero si voti il 2 ottobre. Lì ci divertiremo, andremo, numeri alla mano, a mostrare cosa significa semplificare questo paese». Ma il 27 giugno, dopo la batosta elettorale di Roma e Torino e le prime evidenti crepe al suo consenso personale, il premier ha cominciato a far filtrare altre possibilità. «Ottobre? Il periodo sarà più o meno quello lì. Forse verso la fine del mese». L'11 luglio cambia di nuovo idea: «A naso potrebbe essere il 6 novembre». Ora, però, l'esecutivo sta pensando di spostare ancora la data, allontanandola al 27 del mese dei morti. Tecnicamente si potrebbe fare anche a dicembre, prima di Natale. Gianfranco Librandi di Scelta civica vorrebbe addirittura spostare il giudizio universale a primavera: «Meglio che Renzi si concentri su immigrazione, terrorismo e legge di bilancio».
Secondo i malpensanti del Movimento 5 Stelle e dei comitato del No la mazurca temporale è solo un «gioco delle tre carte» messo in piedi da Matteo per spuntare il momento carmico migliore, il giorno in cui i pianeti si allineano per favorirlo e fargli vincere la partita. Che Renzi si sia spaventato della batosta presa alle amministrative e che la personalizzazione («se vince il No vado a casa») del voto non abbia giovato ai sondaggi, è certo. Che il governo sia favorevole ad allungare il brodo in modo da dare più tempo alla campagna del Sì, pure. Ma ci sono anche questioni di sostanza: l'intreccio del calendario tra il Grande Evento e gli obblighi legati alla legge di stabilità del prossimo anno. Secondo le nuove norme, infatti, la finanziaria 2017 dovrà essere approvata dal Consiglio dei ministri entro il 12 ottobre, in modo da essere inviata a Bruxelles entro il 15 dello stesso mese. Il pericolo, ha evidenziato il presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia in pubblico e Giorgio Napolitano agli amici più stretti, è che una vittoria del No sprofondi il Parlamento nella paralisi. «L'Italia non può permettersi il caos: la fragilità economica (dalle banche alla mancata crescita, dalla disoccupazione record alla burocrazia) e il rischio di non approvare la legge di Stabilità in tempo preoccupa tutte le cancellerie dei partner della Ue», hanno ricordato gli editoriali del "Times" e del "Die Welt". Una manovra lacrime e sangue, tagli e tasse, che prenda atto di una crescita sotto l'uno per cento, potrebbe dare il colpo di grazia alla campagna referendaria. Vale, ovviamente, il ragionamento opposto: se Renzi dovesse ottenere dall'Europa maggiori margini di spesa potrebbe provare a mettere in campo una legge di bilancio espansiva e tentare il colpo elettorale.
«Mettere in sicurezza la legge di Bilancio», approvandola almeno in un ramo del Parlamento prima del referendum, è il nuovo mantra dei renziani. Non tutti sono d'accordo con il Capo, però: votare a fine novembre o inizio dicembre, sotto la neve e al gelo, da un lato allunga i tempi della campagna permettendo di resettare meglio la strategia recuperando terreno, dall'altro rischia di diminuire il numero degli italiani che si recherà alle urne. Ed è certo che andranno a votare i più motivati. Ossia quelli che militano nell'esercito del No.
O RENZI O IL DILUVIO - I sostenitori del Sì in questi mesi hanno cambiato tattiche e strategie, slogan e gingle elettorali mandando in confusione tutti, giornalisti compresi. Inizialmente Renzi, Maria Elena Boschi e il Pd hanno puntato il loro storytelling sulla «semplificazione» dell'impalcatura istituzionale italiana e sulla «riduzione dei costi della politica», popolarissima. Ma le critiche hanno smontato i perni della propaganda: se i consiglieri regionali prenderanno davvero molto meno, il taglio di 200 senatori farà risparmiare briciole rispetto ai costi complessivi del Senato (secondo la Ragioneria generale si potrà economizzare solo sul 9 per cento delle spese). E il nuovo bicameralismo «differenziato» è ingabbiato nella nuova legge elettorale: l'Italicum prevede aspetti indigeribili come i nomi dei capilista bloccati dai partiti che possono essere candidati in più collegi.
L'entusiasmo è scemato subito. Alcuni intellettuali voteranno Sì ma turandosi il naso (la linea di Massimo Cacciari: «una puttanata di riforma ma è il male minore»), altri - Scalfari o Ferruccio de Bortoli - dichiarano di non apprezzare una riforma che indebolisce i contrappesi democratici. Con i costituzionalisti dalla parte avversa e un campo di oppositori sempre più agguerrito, gli esponenti del "Sì" hanno cambiato comunicazione puntando sui massimi sistemi. Il ministro Andrea Orlando ha spiegato che la vittoria allontanerà dalla stanza dei bottoni «grandi potentati economici e finanziari che hanno espropriato le istituzioni delle loro funzioni». La collega Boschi ha tentato di arruolare gli antifascisti spiegando che, se l'Anpi voterà No, «i partigiani, quelli veri, voteranno Sì», e ha estratto anche la carta del terrorismo: «Abbiamo bisogno di un'Italia che sia più forte e un'Europa in grado di rispondere unita al terrorismo internazionale… per avere un'Italia più forte abbiamo bisogno di una nuova Costituzione che ci consenta maggiore stabilità».
Anche Confindustria, schierata per il Sì, ha giocato alla fine del mondo: le slide del centro studi di Viale dell'Astronomia ipotizzano, in caso di vittoria del No, «un'economia italiana che perde in tre anni quattro punti di Pil, 17 punti di investimenti e 600 mila unità di lavoro, mentre il debito pubblico sfonderebbe quota 144 per cento di Pil, il reddito pro capite diminuirebbe di 590 euro e i poveri aumenterebbero di 430 mila unità».
«Brutte e sbagliate, il peggior vecchiume», ha commentato Susanna Camusso della Cgil, che boccia il referendum ma non ha dato - a differenza del leader Fiom Maurizio Landini - indicazioni di voto. Nel Pd la minoranza balla tra i «Sì, No, Forse, Boh»: Pierluigi Bersani è passato dal «Sì» al «vediamo», precisando «che coi referendum la gente non ci mangia», Gianni Cuperlo ha ragionato dicendo che «ci sono alcune buone ragioni per votare Sì ma anche ragioni di merito per votare No», mentre Massimo D'Alema - perdesse Renzi - pasteggerebbe a champagne: «Dopo di lui non ci sarà il diluvio, ma il ritorno del buonsenso»
ITALICUM IN BILICO - La data più importante per capire come andrà il referendum, al solito, non riguarda la materia del voto ma la legge elettorale Italicum che sembra legata a uno strano destino: è entrata in vigore solo un mese fa, il primo luglio, non è mai stata messa alla prova dell'elettorato, eppure da più parti è già considerata morta, sepolta, da buttare. Il più ruvido è stato il presidente emerito Napolitano. Intervistato dal "Foglio" (20 luglio) il senatore a vita ha chiesto senza giri di parole di cambiare la legge: «Oggi bisogna essere sinceri e dire che rispetto a quando l'Italicum è stato concepito sono cambiati i tempi... Il ballottaggio rischia, nel contesto attuale, di lasciare la direzione del paese a una forza politica di troppo ristretta legittimazione nel voto del primo turno. Renzi è premier, ma è anche segretario del Pd, e una modifica della legge non può che avvenire anche in base a un'iniziativa politica che si imperni sui gruppi parlamentari del partito guidato dallo stesso premier». Traduzione: con il ballottaggio si rischia di consegnare il Paese al Movimento 5 Stelle, Renzi si sbrighi a cambiare l'Italicum (...non male, un Presidente seppur emerito della Repubblica, che avalla l'etica del cambio di legge ad ogni nuovo sondaggio... Napolitano, non si vergogna? Perchè non si dedica alla cura dei nipotini? NdR)
Il presidente del Consiglio, però, finora è stato generico. Anche perché non può modificare quella che ha definito una legge «che tutta Europa ci invidia» con la motivazione che potrebbe vincere il primo partito dell'opposizione. Meglio aspettare il 4 ottobre, la data-chiave: si riunirà la Corte costituzionale per valutare la legittimità dell'Italicum. Basta dichiarare incostituzionale un codicillo ed è tutto da rifare. Il pronunciamento potrebbe arrivare prima del referendum. E lo renderebbe ancora più ambiguo: in caso di vittoria del Sì ci sarebbe una legge elettorale per la Camera da riscrivere, in caso di prevalenza dei No ci sarebbe una Camera con una legge mutilata e un Senato con il vecchio sistema proporzionale. Una medievale festa dei folli, e tanti saluti alla stabilità di governo.
L'INDUSTRIA POP DEL NO - Ogni referendum importante, quelli destinati a cambiare i destini di un paese, può trasformarsi in un affare: non solo le grandi speculazioni in Borsa a Londra che hanno caratterizzato i giorni prima e dopo la Brexit. C'è qualcosa di più pop: qualche azienda ha guadagnato centinaia di migliaia di sterline vendendo magliette, felpe e gadget griffate "Remain" o "Leave". Da noi la guerra del partito dei Sì e il fronte del No non sembrava in origine uno scontro Ali-Foreman, in grado di appassionare le masse. E ora invece, a sorpresa, gli editori si sono accorti che bene nelle ultime settimane tre libri sul referendum istituzionale - nonostante la materia ostica - sono in cima a tutte le classifiche della saggistica. Il pamphlet di Marco Travaglio e Silvia Truzzi è divorato da vacanzieri sdraiati sui lettini delle spiagge di mezza Italia: "Perché No: tutto quello che bisogna sapere sul referendum e contro la schiforma Boschi-Verdini" (PaperFirst) ha venduto per ora 40 mila copie. Travaglio, che da mesi ha organizzato sul "Fatto" la campagna per il "No" dove denuncia storture, follie e pericoli della legge, è in giro per uno spettacolo itinerante con Giorgia Solari nei panni della Boschi. Risultato: sold-out ad ogni tappa. E ora i titoli dilagano in libreria. Si va dal serioso "Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali" (Laterza) del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, al volume con apparato iconografico sulla «bellezza» della Costituzione (La nave di Teseo) di Michele Ainis e Vittorio Sgarbi, mentre Rubettino ha appena pubblicato un libro di Valerio Onida e Gaetano Quagliariello. Quest'ultimo, nominato tra i cinque "saggi" dall'ex presidente Napolitano e da molti considerato uno dei "padri" del pasticcio riformista, è uno dei tanti che prima ha votato Sì e poi ha cambiato idea consegnandosi al No.
È solo l'inizio. Online si possono ordinare per settembre dozzine di volumi. Da "Figli destituenti", a "Io dico No", passando per "Le ragioni del No" pubblicato da Altraeconomia e "La transizione è (quasi) finita" (Giappichelli) di Stefano Ceccanti. Il costituzionalista è uno dei coraggiosi a lanciarsi sul meno attrattivo (dal punto di vista editoriale) mercato del "Sì". Con lui ci sono Giovanni Guzzetta, che spiega il suo "Sì ragionato" per Rubettino (l'editore gioca su entrambi i fronti), Salvatore Vassallo con "Liberiamo la politica" e soprattutto la coppia Guido Crainz-Carlo Fusaro che vuole "aggiornare" la Carta (Donzelli): il Pd lo ha inviato a tutti deputati per le vacanze e in molti l'hanno presa male: «Che dobbiamo fare, impararlo a memoria?». Paolo Cirino Pomicino, Rino Formica e altri reduci della prima Repubblica hanno invece scritto "No allo sfregio della Costituzione", ebook da 8,99 euro, mentre per 10 euro i comitati del No danno ai lettori la possibilità di leggere gli interventi dei costituzionalisti più à la page. Vero cult a cavallo tra mainstream e libello è "No, caro Matteo!» firmato da Guido Castelli, sindaco forzista di Ascoli Piceno, che giura di aver scritto un libro contro «il neocentralismo di Renzi». Transennate gli scaffali.
DISPUTE TEOLOGICHE - Tra i costituzionalisti la disfida sul referendum ha assunto vette teologiche, roba da far impallidire Guglielmo da Baskerville del "Nome della Rosa". Tutto è cominciato ad aprile, quando l'appello dei 56 costituzionalisti per il No (c'erano Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Francesco Paolo Casavola, Franco Gallo, Enzo Cheli, Fulco Lanchester, Roberto Zaccaria e Antonio Baldassarre, Alfonso Quaranta e Paolo Maddalena, Ugo De Siervo e Lorenza Carlassare, Andrea Manzella e Luigi Mazzella) fu bollato da Salvatore Vassallo e Elisabetta Gualmini su "L'Unità" come il sussulto di «un Concilio di emeriti», in età avanzata, «nobili coltivati nelle loro letture» che disprezzano «Matteo-il-plebeo» perché «schifa i professoroni, i loro convegni e le loro tartine». Poche settimane dopo è arrivato il contro-appello dei professori per il Sì, in 184, idealmente guidati da Ceccanti, uno dei padri della Riforma, ed è stato subito derby. Con dipartimenti universitari spaccati, giro di telefonate, appelli contrapposti. Molto ambiti quei docenti che hanno deciso almeno per ora di non schierarsi: la loro firma vale doppio. Sono stati in pochi a sottrarsi, finora.
Il mondo dello spettacolo, al confronto, appare più pigro e più confuso. Ne è testimone il premio Oscar Roberto Benigni, passato in sei mesi dal Sì di gennaio al convinto No per «proteggere la nostra meravigliosa Costituzione» (3 maggio), fino al nuovo «Sì di raziocinio» nell'intervista con Ezio Mauro ("Repubblica", 2 giugno), strapazzato da fan e social e accusato di esibirsi in giravolte per strappare contratti futuri con la Rai. Sul fronte editoriale c'è stata la cacciata del direttore antirenziano Maurizio Belpietro da "Libero", sostituito da Vittorio Feltri fautore del Sì, raccontata come un'operazione a favore del governo, mediata direttamente da Denis Verdini, Luca Lotti e l'editore Angelucci («proprietari di cliniche private e bisognose di convenzioni pubbliche», ha malignato Gad Lerner). In settembre Belpietro tornerà in edicola, alla testa di un gruppo di scissionisti in uscita dal quotidiano feltriano, in testa il rompiscatole del giornalismo italiano, Giampaolo Pansa. Altisonante la testata, di sovietica memoria: "La Verità". E sarà subito No. Anche la sostituzione agostana in Rai dei direttori dei tre tg sembra ruotare sul referendum: «Cacciano Bianca Berlinguer così tutti i tg saranno schierati sul Sì», spiega il consigliere di amministrazione di nomina M5S Carlo Freccero, mentre le opposizioni attaccano l'amministratore delegato Antonio Campo Dall'Orto per il poco spazio dato ai sostenitori del No (secondo il presidente della commissione parlamentare di vigilanza Rai Roberto Fico, «i sostenitori del Sì hanno avuto il 78 per cento del tempo di notizia». E chissà se, per loro, è stato davvero un bene.
Il MATTEO SOMMERSO - Perché, in realtà, la nuova strategia renziana prevede un momento quasi sconosciuto al premier. Il distacco, la fuga mundi, il silenzio. Il viaggio alle Olimpiadi di Rio spezza un lungo periodo di inabissamento. La strategia del sommergibile, hanno fatto trapelare gli spin doctor di Palazzo Chigi. Sommerso, per essere salvato. Tutto il contrario dei primi mesi del 2016, quando Renzi aveva annunciato di essere pronto a lasciare la guida del governo, anzi, la politica attiva, se avesse perso il referendum. Il proposito sta scomparendo, piano piano. E il premier si prepara a una lunga fase tattica: in caso di vittoria del No, bloccare sul nascere un governo tecnico o istituzionale guidato dal presidente del Senato Piero Grasso o dal ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Forse un consiglio del guru americano Jim Messina, che si sta rapidamente ambientando nelle liturgie romane e fiorentine. Non dovrebbe essere difficile per lui, nel 2013 gli fu consegnato il premio Machiavelli. A Roma, quando non c'è lui personalmente, segue la campagna la collaboratrice Isabelle Wright. Nel gruppo di lavoro ci sono il portavoce Filippo Sensi, il sottosegretario Lotti, la regista Simona Ercolani, l'ex direttore di Gay.it Alessio de Giorgi entrato nello staff di Palazzo Chigi, l'ex giornalista di "Europa" Rudy Calvo nominato portavoce, e l'ex cuperliana Alessandra Serra, una delle poche a sapere l'inglese. Il comitato ha preso sede nella romana piazza Santi Apostoli, che fu teatro delle vittorie dell'Ulivo. Già: Romano Prodi è un oggetto del desiderio, i Sì e i No lo corteggiano ma lui non si è ancora schierato. E in questo caos il Professore dimostra così di essere un vero saggio. Italiano.
di Emiliano Fittipaldi
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