I Giochi del Terremoto - Come a Rio, ci fingiamo un'Italia che non esiste. E di Amatrice ognuno si prende ciò che serve
(Editoriale di Tommaso Cerno - l'Espresso)
Strano che il giorno della morte di Gene Wilder sia piovuto ad Amatrice. Non un presagio, più banalmente la macabra rappresentazione della sua più celebre freddura. Quando il fido Igor dice al dottor Frankenstein jr: «Potrebbe essere peggio». E come, fa l'altro? «Potrebbe piovere». L'acqua che cade sulla morte, bagna le telecamere e sporca la diretta ci riporta dritti dentro la verità. Fuori dal copione che recitavamo: gli italiani in lutto.
La pioggia rompe la fiction e come per Gabriele D'Annunzio nel pineto, solo sotto l'acqua c'è la realtà: voci e forme. Gente che ha perso tutto. Mentre all'asciutto, al riparo del catodo, c'è l'Italia che guarda. Con la stessa, ardente vampata con cui si ritrovò fanatica dei Giochi di Rio. Inebetita davanti a migliaia di tuffi identici, improvvisamente esperta di tiro al piattello, esaltata dalla scherma e dagli affondi di fioretto. Quella che insegnò a Schettino il coraggio del capitano sulla nave, ma poi fotografava il sarcofago al Giglio per farsi un selfie. Quella che spiega a Francesco cosa avrebbe detto Gesù Cristo, se solo il papa facesse più attenzione. L'Italia che s'attacca al tricolore sempre e solo quando sventola lontano da casa propria. Più simile a Totò che al barone Pierre de Coubertin quando dice: l'importante è partecipare.
Il problema è che quella pioggia lava via anche il lutto. Le telecamere se ne andranno e il circo cambierà città. Così faremo anche noi, come alla fine delle Olimpiadi, quando anche l'ultimo tedoforo ha spento la torcia: dimenticheremo. A Rio randagi della festa, imbucati nella vittoria degli altri, ad Amatrice randagi del dolore, imbucati ai funerali. Non lo facciamo con cattiveria. Siamo fatti così. Ognuno di noi, piccolo sciacallo in buonafede, scava fra le macerie e finisce per prendersi ciò che gli serve.
Basta guardare il clima politico. Improvvisamente cambiato come un vento che gira. La noiosa retorica sulla Costituzione è riposta in freezer. Il premier Matteo Renzi e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella fra gli sfollati promettono di ricostruire i paesi distrutti, quell'Italia di mezzo che non è Nord e non è Sud, che non è ricca e non è povera, che si è accartocciata in una notte d'agosto come cartapesta, ma per riuscirci davvero sanno bene che devono ricostruire, al tempo stesso, la credibilità delle istituzioni, terremotate a loro volta e con impellente bisogno di restauri. Di forma e di sostanza.
Lo declinano con modi diversi, ognuno alla propria maniera: Mattarella mostrando al Paese la presenza invisibile ma sostanziale di antico sapore cattolico-democratico, rarefatta ma vitale come l'aria, simile alla Protezione civile (i volontari, non la cabina di regia) che pietra dopo pietra fa un lavoro imponente senza mostrare il volto dell'eroe; Renzi invece lo fa respirando (dopo mesi) l'aria bagnata, rispolverando la fascia di sindaco, guardando in faccia la gente comune e cambiando tono, immagine e strategia, come racconta Marco Damilano nel servizio di Prima pagina. Una mutazione naturale? Sentita come esigenza da tempo? Presto per dirlo. Certamente trova spazio per realizzarsi dopo la scossa. Scossa tellurica, però anche scossa politica per quel Paese che si parla addosso. Ma attenzione: mentre il Palazzo muta forma, getta calce nelle crepe del sistema e progetta la ricostruzione di quel borgo dove la pastasciutta è planetaria, ma l'orizzonte di vita è ormai strettissimo, la gente di Amatrice vive la metamorfosi più difficile. Da naufraghi soccorsi dal bastimento Italia a soli, piccoli, indifesi sull'isola dei non famosi, come raccontano i ritratti dal cratere di Federica Bianchi. Col dubbio di essere presi anche un po' in giro dai proclami di grandi architetti e promesse di prevenzione, mentre Giovanni Tizian dalla Val Susa della Tav ci narra un'altra storia proprio nei giorni del sisma. Lassù non c'è Renzo Piano, c'è la talpa meccanica che scava la roccia e spende miliardi. Per un'opera che è l'opposto della sbandierata nuova visione del territorio come risorsa e diritto di tutti.
Il rischio che corriamo? Il solito. Mentre giochiamo a fare gli italiani, viene l'inverno. In tivù si cambia canale (succederà presto) e il Paese degli indignati di professione progetterà il suo autunno lontano da Amatrice. Tutto ciò che abbiamo visto, il tifo che abbiamo fatto, le lacrime in cui ci siamo immedesimati finiranno. Per lasciare spazio alla pioggia. Che si poserà altrove. E con lei il nostro sguardo.
Tommaso Cerno - l'Espresso
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