Renzi rilancia il ponte, che dal 1969 (primo concorsone) ad oggi è diventato un topos della comicità più amara (di Francesco Merlo)
Eterno ritorno di una chimera, demagogia per lucrare consenso, il ponte sullo Stretto, non quello comico di Checco Zalone – “tengo na fimmina a Missina, cu u punti ma fazzu prima” – forse può esser costruito. Ma sicuramente non può essere annunziato dal presidente del Consiglio in deficit di popolarità con una strizzatina d’occhio e un mezzo sorriso che sono peggio dei botti, delle lavagne in tv e dei nastri sul nulla di tanti governi del passato.
Un governo che davvero voglia coraggiosamente realizzare un’opera così problematica e così contestata dovrebbe mettere su una squadra di esperti che lavori nell’ombra e in silenzio almeno per un anno. E il progetto di fattibilità economica, tecnica e urbanistica senza fare tabula rasa dovrebbe disboscare, verificare e riutilizzare i tanti studi precedenti che, comprese le penali, sono già costati agli italiani almeno 600 milioni. Ecco, è quasi il prezzo di un vero ponte dunque, che però solo gli scrittori e i giornalisti hanno attraversato a bordo delle loro macchine da scrivere.
L’annuncio per un’opera del genere non si può fare così, come ha fatto Renzi a Milano, parlando d’altro, con un accenno divertito alla “Napoli-Palermo” che è stato il suo modo di aggirare la parola "ponte", rivelando dunque il suo stesso scetticismo. Insomma non ci crede neppure lui che sogna un ponte ma non lo chiama ponte. Sa che in Italia ponte è ormai sinonimo di megalomania e di impotenza, la degradazione di un suono bellissimo che rimanda a Dio perché Pontifex è l’uomo che fa ponti e non esiste una riva che non possa essere raggiunta dal ponte, non esiste un vuoto che il ponte non riesca a beffare.
E invece in Italia il ponte è propaganda, polvere di stelle, petardi elettorali, squilli di fanfara. Ed è così dal 1969. Il ponte, che è stato il vecchio sogno della sinistra meridionalista che coinvolse i grandi ingegneri (e grandi italiani) dell’epoca, da Nervi a Musmeci, da Montuori a De Miranda, è stato via via "venduto" dalla Dc, dal Psi, timidamente dal governo Prodi, sfacciatamente da Berlusconi che lo trasformò in una delle sue tante trovate, un’impresa ma solo nella dimensione virtuale e mediatica, la dimensione dell’inesistenza. Persino Mario Monti, che con tutta evidenza non aveva né il tempo né la forza di realizzare il ponte, furbescamente ordinò una verifica di mercato.
E ogni volta era come se davvero fossero stati avviati i lavori, con le cannonate delle inaugurazioni, con la pubblicazione di pregevoli componimenti d’addio alla separatezza siciliana. Anche ieri Renzi ha evocato “una Sicilia più vicina e raggiungibile” e ha immaginato di “togliere la Calabria dal suo isolamento”. Ma la verità è che in Italia i ponti si spacciano, sono droga elettorale mentre in tutto il mondo si costruiscono e proprio quando sono opere di grande ingegneria, anche finanziaria, diventano simboli della modernità e del progresso come il tunnel sotto la Manica che collega Parigi e Londra con due ore e venti di treno ed è resistente alla peggiore Brexit, malgrado i bilanci siano ancora in rosso.
Con una grossolana battuta che ha rivolto all’amministratore delegato della Salini-Impregilo Pietro Salini – “si possono creare centomila posti di lavoro” – Renzi ha dunque riaperto l’interminabile, stucchevole discussione tra i favorevoli e i contrari, il tormentone ideologico che ha accompagnato almeno quattro generazioni di italiani sullo Stretto necessario e lo Stretto indispensabile con capovolgimenti destra/sinistra che nemmeno il federalismo, le tasse e il binomio legge-ordine che, saltando da Scilla a Cariddi, è diventato legalità e decoro.
E sembra quasi un autogol visto che nulla fa imprecare gli italiani più del ponte, e non perché davvero siamo un popolo affezionato ai traghetti, “uora uora arrivau u ferry boat”, che sono sottosviluppo e ferraglia, la condanna all’antropologia di Ferribotte, il siciliano di Monicelli, piccolo, nero, la coppola e i baffetti, un “solito ignoto” che gira con una bellissima sorella con gli ‘occhi ladri’, Claudia Cardinale, alla quale ogni tanto dice: “Componiti, Concetta!”. Il traghetto (si chiama Caronte) è l’arcaismo dello Stretto che è la scorciatoia che i mari e gli oceani hanno inventato per ridurre i tempi dell’incontro. Dovunque l’uomo ne approfitta per unire e accelerare scavando canali come a Panama e a Suez, e costruendo ponti, in Giappone e in Danimarca, sul Baltico e sul Bosforo, nelle città e nelle campagne della Cina, dove servono e dove non servono, e anche tra due denti, tra due festività, o solo per ballare – come canta Lucio Dalla – su una tavola tra due montagne.
Solo in Italia la politica più fanfarona del mondo è riuscita a far trasmigrare il ponte dall’ingegneria anche finanziaria alla comicità. Il ponte sullo Stretto è infatti un topos della risata amara come il Sarchiapone, la Supercazzola, il Manganello di Tafazzi e l’ombrello di Altan. Esiste dunque quello di Cetto Laqualunque: “costruiremo un ponte di pilu, otto corsie di pilu e una di peluche”. Esistono il ponte di Fiorello e quello di Ficarra e Picone che “ai tempi di Garibaldi hanno posto la prima pietra”. Strepitoso è quello di Ciprì e Maresco costruito in un solo minuto dall’ingegnere Gaetano Burgio, “il progettista più veloce del mondo”. C’è al contrario il progettista più lento del mondo, l’ingegnere Cane della Gialappa’s, in cravatta, penne nel taschino e occhiali col cerottto. Comodissimo, come abbiamo visto, è il ponte-canzone di Checco Zalone: “tengo na fimmina a Racalmuto, ca ce fazzu u maritu cunnuto. Facimu stu ponti!”.
Francesco Merlo
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