Il presidente Anac Raffaele Cantone è stato il fiore all'occhiello dell'era renziana. Adesso sembra appassito. E non gli dà retta più nessuno, neppure la Rai (Susanna Turco - l'Espresso)
Prima che la carrozza renziana tornasse a essere una zucca, capitò persino che Mara Maionchi lo invocasse come giudice al programma di competizione canora "X Factor". Ci mancava solo quello: Raffaele Cantone, già magistrato anti-camorra nella sua terra natia, era da poco assurto a semidio dell'ANAC (Autorità Nazionale Anti Corruzione), popstar della legalità, scudo stellare di Renzi per dimostrare che l'Italia, per tramite suo, era in grado di risorgere. Salvatore di Expo, faro su Mose, Bagnoli, Giubileo, Metro C eccetera; opinione che conta su ogni cosa, dalla legge Severino fino all'incoronazione di Milano «capitale morale», meglio di Roma «priva di anticorpi».
Nella solita mania italica dell'osanna, per oltre un biennio lo si è candidato a ogni incarico plausibile: ministro della Giustizia, dei Trasporti, sindaco a Roma dopo Ignazio Marino e dopo il supercommissario Tronca, governatore in Campania, presidente della Repubblica, premier del post referendum. Mettiamoci Cantone. Persino alle primarie del Pd. Il suo nome spuntava sempre, al punto che il Fatto si spazientì: «Comincia a venire il dubbio che "Cantone" sia il nome volgare di una qualche pianta spontanea».
Adesso che il super capo dell'Anac s'è visto svanire d'attorno - invece del Cnel - gli incantesimi del renzismo che lo portava in palmo di mano, la domanda che più spesso si sente rivolgere suona invece così: lei è diventato meno potente? No davvero, risponde lui cortese, col solito taglio di sorriso. «Non mi sono accorto di essere potente prima, non noto alcuna differenza oggi"», sibila ad esempio a Repubblica, in una lunga intervista nella quale il nome di Renzi non lo cita mai. Impegnato come è non soltanto nel sorvegliare sulla ricostruzione post terremoto - il compito che gli porterà via di certo i prossimi tre anni, cioè tutto il tempo che gli resta alla guida dell'Anac - ma anche in quella che è la questione più difficile in casi come il suo : non appassire nella schiera dei tecnici di eccellente curriculum finiti così, sempre stimati, tra il girone infernale dei super prefetti e quello appena inferiore dei super commissari. Con gli stessi poteri di prima, ma con molto meno potere, dentro quella specie di ministero dell'Anticorruzione ch'è divenuta l'Authority che ha contribuito non poco ad inventare.
Segnali minuti sorgono qua e là. Casualità, anche, che finiscono per saldarsi in un clima. E il presidente del Tar del Lazio Carmine Volpe che allude alla sua tendenza a straripare nel sotto-normare le leggi, pur a rigore non essendo un legislatore. E la Corte dei Conti che sconfessa il suo parere sull'incarico a Carla Raineri, la capa di gabinetto al Comune di Roma che Virginia Raggi fece fuori proprio grazie a lui. E quel suo dirsi impegnatissimo - giusto mentre l'ex premier molla pure il Pd per volare in California a studiare il fotovoltaico - a ricevere i rappresentanti cinesi dell'anticorruzione che sono venuti a studiare il caso Anac, e a siglare i protocolli con la Serbia e il Montenegro, ma pure a respingere gli inviti in Vietnam e a Hong Kong. E la polemica con il giurista Giovanni Virga, direttore di Lexitalia.it, su quale ruolo abbia avuto o non avuto l'Anac nella promozione per concorso interno di alcuni dirigenti decisa dall'Avcp ma poi annullata anche dal Consiglio di Stato.
Sbigottiti e quasi increduli, s'è appreso del resto che adesso la Rai - il biotopo più lesto dell'ecosistema nel comprendere l'aria che tira - l'ha ignorato: ossia non ha fatto ancor nulla per rimediare ai rilievi con i quali, in settembre, Cantone definiva irregolari 21 assunzioni di dirigenti esterni (tra cui, per dire, direttori come Bignardi, Dallatana, Romagnoli). Passati oltre quattro mesi, «non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione ufficiale», ha risposto laconico il magistrato anticamorra, quasi a segnalare l'unicum. Poi, in verità, non è che spetti a Cantone di decidere la legittimità delle nomine Rai: il capo dell'Anac può, come ha fatto, rilevare l'irregolarità nell'applicazione del piano anticorruzione e per il resto rinviare gli atti a Tesoro e Corte dei Conti.
Ma tutta la sua storia di SuperCantone è fatta così: un merletto di arzigogolii, in bilico tra l'ampiezza esatta delle funzioni (molte) e l'impatto nell'esercitarle (assai più forte). Quel suo occuparsi anche di faccende «non totalmente estranee alle nostre competenze, ma nemmeno totalmente comprese», come con felice sintesi spiegò un anno fa quando doveva incontrare il capo di Bankitalia Ignazio Visco per parlare di banche popolari. È proprio quello che gli rimprovera adesso, nella sua lettera di fuoco, la ex capa di Gabinetto Raineri, dopo che la Corte dei Conti ha dato ragione a lei e torto a lui: «Cantone si è arrogato una competenza che non gli spettava, né per legge, né per regolamento, sulla nomina del capo di gabinetto», ha scritto. Ma lui come sempre non ha deciso: ha dato un parere. Un parere non vincolante, come si conviene al capo di una Authority. È sul suo potere mediatico che i Cinque Stelle hanno fatto leva, per la defenestrazione.
D'altra parte, è stato fin dall'inizio un gioco tra i poteri e il potere. A Renzi, che lo aveva tirato fuori dal Massimario della Cassazione dopo che il ministro Patroni Griffi ed Enrico Letta lo avevano voluto in commissioni di studio e task force, Cantone lo disse con chiarezza nel 2014, sei giorni dopo aver ricevuto l'incarico a vigilare sull'Expo: «L'Anac non ha poteri. O me li date, o non ci metto la faccia». E poteri ne ha avuti: dal nuovo codice sugli appalti alle nuove sanzioni per il piano anticorruzione, dall'ufficio da trenta persone a piazza Augusto Imperatore, all'assorbimento con l'AVCP (Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici) per un totale di 300 dipendenti a Palazzo Sciarra, in questi tre anni molto è cambiato. Ma il cuore resta quello: vigilare, controllare, supervisionare la pubblica amministrazione e le sue partecipate, almeno 20 mila realtà in tutta Italia. Così Cantone, presidente d'Authority, continua soprattutto a fare il Minosse dantesco: bacchetta, blocca, commissaria, denuncia, timbra, sospende, sanziona.
Ma adesso, con l'incantesimo renziano finito e la voglia in fondo di scrollarselo di dosso, sale in superficie un velo d'amore per la burocrazia che prima non s'era notato. Ed è figlio anche di una idea della corruzione non come male da estirpare, modello Piercamillo Davigo: Cantone sembra piuttosto guardare la faccenda con lo spirito dell'entomologo, del regolatore chiamato a mettere ordine nel disordine. Con nuove prassi, nuove regole e sottoregole, da definire e tenere sotto controllo fino all'ultima virgola. Quasi un riflesso da secchione. Vien fuori un sistema nel quale - pur dichiarando lotta alle complicazioni e alla burocrazia - si sfornano a ciclo continuo linee guida, chiarimenti, e altri strumenti di soft regulation che, ha notato anche il presidente del Tar del Lazio all'inaugurazione dell'anno giudiziario, «vanno nella direzione opposta rispetto al semplificare». Complicano. E del resto basta sentire le lamentazioni che provengono da chi - anche a Palazzo Chigi - è chiamato ad applicare il piano anticorruzione nelle amministrazioni, per capire come vi sia in espansione un lato kafkiano. Come quello, giusto a fare un esempio, che adesso obbliga tutti i siti internet, dalle Asl agli enti parco, a seguire una griglia nella quale elencare rigorosamente non soltanto le competenze che si hanno, ma anche quelle che non si hanno. Così, dal ministero dell'Anticorruzione, i controlli automatici saranno più semplici. A suo modo una rivoluzione anche burocratica, quasi ministeriale, nuovo lido di una figura che s'era immaginata per tutt'altro finale.
(di Susanna Turco - l'Espresso)
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