Vengo dopo il Pd - Dopo dieci anni di vita il partito è al capolinea, nella sua forma conosciuta. E ora si farà in tre, o forse in quattro. Era Superman. Poi venne il referendum kryptonite. E ritornò Clark Kent (Marco Damilano - l'Espresso)
"Da oggi deve far paura la parola conservazione. Il Pd dovrà durare decenni, non nasce da un leader e per un leader, ma dalle persone reali di questo Paese". È il 14 ottobre 2007, Walter Veltroni è stato eletto da poche ore segretario del Pd da tre milioni e mezzo di cittadini: il primo pensiero va a loro, «le persone reali di questo Paese». È il giorno in cui il Pd nasce: quella sera Piazza di Pietra a Roma, dove c'è il quartier generale, è piena di gente. Arriva Piero Fassino, ultimo segretario dei Ds; il suo compito si è concluso. C'è Giovanna Melandri, versione fatina dai capelli turchini; Giuseppe Fioroni, in quel momento ministro dell'Istruzione del governo Prodi, si preoccupa quando sente dire che il nuovo partito sarà senza correnti. Nella sala del tempio di Adriano parte la colonna sonora della serata: "Mi fido di te" di Jovanotti e "Imagine" di John Lennon. E a quel punto, tra le colonne, appare Veltroni, con il verde del nuovo partito acceso alle spalle e la scritta che fa sognare: Partito democratico...
Amarcord: doveva essere la fine di un lungo percorso e l'inizio di una nuova storia. Invece si è rivelato un incubo: cinque segretari, sconfitte elettorali, divisioni continue. Dieci anni dopo, il 19 febbraio 2017, quel Pd è sul punto di implodere. Il partito che doveva durare decenni, sopravvivere ai suoi leader e soprattutto incarnare l'Italia del XXI secolo, mettendo insieme, come si diceva allora, il meglio delle culture riformiste del Paese, cattolica, laica, di sinistra, è arrivato al capolinea, almeno nella forma finora conosciuta. E sì che dal 2007 a oggi ha affrontato crisi di ogni tipo: la sconfitta elettorale del 2008 contro il Pdl di Silvio Berlusconi, le improvvise dimissioni di Veltroni dopo un risultato negativo alle elezioni regionali in Sardegna nel febbraio 2009, annunciate di fronte alle telecamere con voce tremante dal giovane portavoce del partito Andrea Orlando, oggi ministro della Giustizia e protagonista degli ultimi giorni con la sua scelta di schierarsi contro Matteo Renzi.
E ancora: l'elezione di Pier Luigi Bersani alla segreteria nell'ottobre 2009, dopo la parentesi di Dario Franceschini, provoca il primo addio di un socio fondatore, l'ex presidente della Margherita Francesco Rutelli. E infine lo psicodramma del 2013: le elezioni non-vinte da Bersani, il tutti a casa dei gruppi parlamentari che si dissolvono nell'aula di Montecitorio quando 101 franchi tiratori affossano a voto segreto la candidatura di Romano Prodi al Quirinale, le dimissioni del segretario, il governo delle larghe intese con Berlusconi presieduto da Enrico Letta, il compimento della scalata di Renzi che conquista il vertice del partito che un anno prima lo aveva respinto, per poi trasferirsi a Palazzo Chigi due mesi dopo. In nessun momento, però, neppure il più traumatico, il partito è stato messo in forse, neppure quando Massimo D'Alema affermò sarcastico: «Il Pd? L'amalgama è mal riuscito», versione malevola per buttare giù Veltroni (obiettivo raggiunto) di quello che scrisse Edmondo Berselli agli albori: «Il Pd è un partito ipotetico». Mai però si è pensato di tirare giù l'insegna o di andarsene in massa, di celebrare un addio collettivo. Oggi, invece, è in dubbio l'esistenza in vita del Pd, così com'è stato finora.
È l'onda lunga del 4 dicembre. La disfatta del referendum costituzionale archiviata troppo presto come un incidente di percorso, e che invece rappresenta una data spartiacque per la politica italiana, un prima e un dopo. Come ha ammesso Renzi nella direzione del 13 febbraio che ha dato il via libera al congresso: «L'Italia sembra rannicchiata nella quotidianità. All'improvviso dal dibattito è scomparso il futuro». È stata cancellata l'Italia sognata dal segretario Pd quando stava a Palazzo Chigi, guidata da un premier eletto direttamente dai cittadini in un sistema istituzionale snello, fin troppo secondo i critici. Ma è finito anche il sistema politico maggioritario introdotto nel biennio 1992-93, nel mezzo di Tangentopoli e della scomparsa dei partiti della Prima Repubblica, con i referendum Segni e la legge elettorale che porta il nome dell'attuale capo dello Stato: il Mattarellum.
E ora rischia di estinguersi anche il Pd che dell'era del maggioritario è stato il principale soggetto politico, la forma più ambiziosa per superare la contraddizione di un sistema che suggeriva ai cittadini la democrazia all'americana, con le primarie e i candidati premier con il nome sulla scheda elettorale e che poi nei comportamenti rimaneva proporzionale, legata ai riti dei vecchi partiti, all'italiana. Era il Pd la creatura nata per dare una casa agli elettori che per motivi anagrafici non avevano conosciuto le appartenenze ideologiche del passato. Ma ora che il futuro è sparito diventa una missione impossibile tenere insieme un partito dove il grado di sospetto, diffidenza, intolleranza reciproca tra le diverse fazioni ha di gran lunga superato quello che divide tra loro i partiti avversari.
L'ultima direzione, con tutti i big presenti e vogliosi di sfogarsi dal podio, ha messo in scena un doppio processo. Quello istruito da Bersani contro Renzi e la sua leadership. «La gente non ti sopporta», ha affondato il colpo l'ex segretario contro Matteo. «Sei apparso lontanissimo dalle persone», ha rincarato il concetto il presidente della Puglia Michele Emiliano. E il processo lanciato da Renzi contro la minoranza interna: «Prendete in giro i nostri elettori! Il vostro nemico dovrebbe essere il trumpismo, o il grillismo, invece sono io, è il renzismo!». È solo l'anticipo di quello che accadrà nelle prossime settimane. Quando l'attuale Pd potrebbe farsi in due, o forse addirittura in tre, o in quattro. In virtù dell'odio reciproco tra renziani, dalemiani, bersaniani, franceschiniani, giovani turchi: una geografia precaria di correnti personali più che ideologiche, ormai superata. E soprattutto per via del ritorno della legge elettorale proporzionale, annusata da tutti, che permetterà a ogni singolo micro-partito di gareggiare per aggiudicarsi qualche seggio in Parlamento. Basta superare il tre per cento per entrare alla Camera, ma le ambizioni dei contendenti sono di gran lunga superiori, e puntano a riscrivere tutto il sistema, così come il vecchio Pd, al momento della nascita, spinse il centrodestra a seguire l'esempio, e Berlusconi fondò il Pdl chiudendo Forza Italia e An.
Il primo Pd che può nascere dopo il Pd assomiglia a quello di oggi, ma senza la minoranza di Bersani, senza D'Alema, senza un pezzo di sinistra. È quello che Ilvo Diamanti già nel 2014 ribattezzò PdR: il Partito di Renzi. Un partito interamente in mano al suo leader che raccoglie le tre leve chiave del comando: l'organizzazione, la comunicazione, la tesoreria. Già oggi è così, in realtà. Nell'attuale Pd i renziani occupano solidamente tutti gli incarichi-chiave. Ma in coabitazione con l'opposizione interna e con le altre correnti. E senza una vera capacità del gruppo renziano di condurre il partito verso la direzione desiderata. Anche da questo punto di vista la campagna referendaria è stata un disastro: il Pd come struttura organizzata di partito è stato quasi inesistente in gran parte del territorio nazionale e i comitati del Sì che avrebbero dovuto affiancarlo, ideati da Maria Elena Boschi, non sono mai decollati.
E in arrivo c'è una tornata di elezioni amministrative che rivelano ancora una volta la debolezza del partito sui territori. A Genova, storica città rossa e operaia, dopo le dimissioni del sindaco (non Pd) Marco Doria, è possibile la vittoria della destra che assomiglierebbe a quella di Giorgio Guazzaloca nel 1999 a Bologna: un cambio epocale. A Palermo, grande città del Sud,il simbolo del Pd non sarà neppure presente sulla scheda elettorale: il sindaco uscente, l'eterno Leoluca Orlando, ha posto come condizione per l'ingresso del Pd nella sua coalizione che il partito si mascheri da lista civica e i dirigenti hanno accettato l'umiliazione, sempre meglio che inabissarsi in percentuali da partitino. In tante altre città la formazione guidata da Renzi è vicina al collasso.
Difficile pensare, in questa situazione, che al congresso possa ripetersi il successo di partecipazione che segnò la vittoria di Renzi nel 2013: due milioni e 800mila votanti, un milione e 800mila voti per Renzi contro Gianni Cuperlo e Pippo Civati. E poi il nuovo panorama politico ferisce al cuore il modello di partito adottato dal Pd in questi dieci anni nel punto chiave: se c'è un sistema proporzionale, o una legge elettorale che resuscita la coalizione dei partiti stile pentapartito anni '80 o l'Unione di Prodi del 2006-2008, non ha più senso convocare gli elettori nei gazebo per eleggere un segretario che non sarà automaticamente il candidato premier, come si legge nello statuto del Pd. Il doppio incarico, il leader che coincide con il capo del governo, è stato il sogno di Veltroni, che però fu sconfitto alle elezioni, ed è stato il dogma su cui si è retta la leadership renziana. Oggi il doppio incarico si è spezzato: segretario è Renzi, premier è Paolo Gentiloni. Ma per eleggere un capo-partito bastano i semplici iscritti, non c'è bisogno di scomodare tutti gli elettori del centrosinistra in fila davanti ai gazebo. «Il nostro statuto è inadeguato», attacca il ministro Orlando. «È servito in passato a legittimare un leader, ma ora noi dobbiamo fare altro, ripensare tutto. Se restano le regole attuali è come pretendere di fare le tagliatelle con la macchina da scrivere».
Renzi non ha nessuna voglia di riscrivere statuti o di infilarsi in una discussione ideologica sulle primarie. Però sa bene anche lui che alle prossime elezioni e nel Parlamento futuro conterà soprattutto avere alle spalle un partito controllato interamente dal leader, con gruppi parlamentari docili e disponibili a ogni alleanza. Ecco perché la scissione, che nella fase precedente, quella dei partitoni pigliatutto, sarebbe stata considerata una sciagura da evitare a ogni costo, nella nuova stagione potrebbe rivelarsi perfino utile per lasciare tutta la dirigenza in mano ai fedelissimi del Capo. Un Pd senza la sinistra interna porterebbe a compimento la trasformazione in PdR. Che per un avversario di Renzi come Enrico Rossi è la riproposizione della Dc. Tra gli alleati interni di Renzi c'è il ministro Dario Franceschini e con lui tutta la pattuglia degli ex democristiani, arrivati nel Pd dopo essere passati dal Partito popolare e dalla Margherita. «Ho sentito che Renzi parla finalmente di valori e di identità», esulta Fioroni. «In questi anni si è pensato di poter fare a meno del passato, delle radici. Ora si deve ripartire da lì».
La scissione degli ex Pci non fa paura, anzi, per gli ex dc assomiglia a un'opportunità da cogliere: per ridare vita a un progetto neo-centrista, capace di accogliere al suo interno Angelino Alfano e perfino Pier Ferdinando Casini. Anche se è già arrivato dal leader l'ordine di inserire nei prossimi comitati Renzi per il congresso sindaci, amministratori, segretari di federazione provenienti dalla storia dei Ds e della sinistra, per non lasciare a Bersani e compagni una parte di elettorato tradizionale, quello delle feste dell'Unità in Emilia e in Toscana. I capofila della campagna congressuale di Renzi saranno il presidente emiliano Stefano Bonaccini, che fu allevato da Bersani e da Vasco Errani, il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, anche lui ex Ds, il sindaco di Mantova Mattia Palazzi, un peso massimo come il presidente della Campania Vincenzo De Luca. Anche il presidente-reggente Matteo Orfini è un ex Ds, anzi, un ex dalemiano. Resta con Renzi l'ultimo segretario della Quercia Piero Fassino. Da stanare, come al solito, il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti.
C'è chi tra i renziani vorrebbe una soluzione più radicale e definitiva: la formazione di un vero partito del leader, con la chiusura del vecchio Pd o il cambio del nome e del simbolo. Modello Macron, si dice, dal nome del candidato alle presidenziali francesi Emmanuel Macron, già ministro dell'Economia durante il mandato di François Hollande, in corsa per l'Eliseo con un suo movimento personale fuori dai tradizionali partiti, "En Marche". Un'operazione che in Italia vuol dire sganciarsi dalla sinistra e dare vita a un raggruppamento inedito guidato da Renzi. I pasdaran dell'ex premier hanno già depositato il nome, traduzione italiana del modello francese: "In cammino". A occupare i domini dei siti internet, incammino2017 e incammino2018, non si sa quando sarà la data del voto, è stato il giornalista Fabrizio Rondolino, che fu portavoce di D'Alema e oggi è più renziano di Matteo. Hanno sostituito anche a livello locale i comitati referendari di Basta un Sì. E sui social la pattuglia è attiva: nelle foto, negli slogan, nei banner da far girare in rete non compare mai il simbolo del Pd, c'è Renzi e l'hashtag #iostoconMatteo. Per ora sono gli ultras della leadership renziana, potrebbero trasformarsi nell'embrione di un movimento a sostegno della candidatura di Renzi alla segreteria del Pd e poi della premiership. In ogni caso, una formazione che agisce fuori dalle strutture del vecchio Pd, con i suoi circoli e le sue sezioni, ma in nome del segretario. La dimostrazione di una storia finita.
Il secondo Pd originato dal big bang del 4 dicembre e del 2017 è quello che si muove attorno alla vecchia Ditta. La Quercia del Pds-Ds che aveva alla base, fino al 1998, la falce e il martello del Partito comunista. Un revival, giusto nell'anno del centenario della rivoluzione di Ottobre. Ma la storia non conta niente, pesa la cronaca di questi mesi: dita negli occhi, scambi al veleno, Bersani e Roberto Speranza che votano no al referendum, in dissenso dal partito di Renzi che invece in quel voto si gioca tutto. L'ex segretario è tornato in gioco: «Non parlo da bersaniano, parlo da Bersani», sembra una metafora delle sue, ma è l'affermazione che anche in quel campo esistono le individualità, leadership più forti e coriacee di altre. Nella sinistra del Pd il primo ad annunciare l'addio è stato D'Alema, come aveva fatto un anno fa, quando fu il primo leader importante ad avvisare che sul referendum costituzionale avrebbe votato contro il progetto di Renzi. Bersani si sposta più lentamente, ma la scissione è interiorizzata nell'uomo che fino a poco tempo fa replicava: «Dovranno chiamare i carri armati per farmi sloggiare dal mio partito». Ora ha cambiato argomento: «La scissione c'è già», quella di un pezzo di elettorato di sinistra che non vuole più stare nella casa di Renzi. L'artificio retorico è che se il Pd diventa PdR non è più un partito in cui sia possibile restare. Anche per D'Alema e Bersani, dopo dieci anni, è venuto il momento di scendere. Il vento della legge proporzionale spinge a mettersi in proprio. È già partito lo scaricabarile delle responsabilità: per Renzi è colpa della minoranza, per i bersaniani il responsabile è il leader.
Dopo il Pd, resta il che fare. La scelta più istintiva sarebbe cercare un accordo con quel che resta di Sinistra italiana dove hanno trovato riparo ex bersaniani come Alfredo D'Attorre e Stefano Fassina. D'Alema ha ripreso a parlare con Nichi Vendola, superando un decennio di scontri in Puglia per il controllo della regione e perfino lo strappo di ancora più lunga data che li divise all'epoca della Svolta del 1989 e del cambio del nome del Pci. D'Alema restò nel nuovo partito, il giovane Vendola traslocò sotto le bandiere di Rifondazione comunista. Ora la nuova scissione potrebbe ricucire quella antica. Bersani non la pensa così: una nuova formazione che dovesse nascere alla sinistra del Pd non deve avere l'imprinting del vecchio Pci, semmai ha il compito di somigliare a un nuovo Ulivo. Impresa spericolata, perché è difficile giustificare la partenza di un movimento che dovrebbe unire culture e anime diverse dopo che si è sfasciato il Partito democratico. Ma serve a evitare che il gruppo di chi vuole uscire si riduca a una riserva rossa, anche in chiave elettorale. Un personaggio come Michele Emiliano, per esempio, non può essere inserito nella casella degli ex Pci, è fondamentale per portare i voti della Puglia e del sud dove le appartenenze sono saltate e il mercato elettorale è apertissimo.
La terza formazione che può nascere dalle ceneri del vecchio Pd è già partita. È il Campo progressista ideato dall'ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Fino a poche settimane fa il movimento di Pisapia sembrava destinato ad allearsi con il Pd di Renzi, com'era successo in occasione della battaglia referendaria, quando l'ex sindaco di Milano, che non ha mai aderito al Partito democratico, si era schierato per il Sì (o meglio, aveva rifiutato il suo appoggio al No). Il Campo si caratterizza per l'identità di sinistra, alla presentazione milanese c'era la presidente della Camera Laura Boldrini, ma è aperto a moderati come Bruno Tabacci e agli ulivisti come il deputato Franco Monaco. Romano Prodi ha apprezzato il tentativo di riproporre su scala nazionale il modello Pisapia vincente a Milano, l'alleanza tra borghesia, ceti popolari e intellettuali. Oggi il progetto va riscritto alla luce della nuova situazione: con una legge elettorale proporzionale e gli scissionisti del Pd in arrivo, il Campo di Pisapia può intercettare una parte di elettorato che non si riconosce nel Pd renziano. Anche se i problemi non mancano: alle amministrative, in alcune regioni del sud, c'è già chi vorrebbe presentare le liste di Pisapia senza che il progetto sia ancora definito.
Finito? No, perché nelle convulsioni del Pd c'è ancora un quarto partito da considerare. Nascosto, silenzioso, felpato, invisibile. È il PdG: il partito del Governo. O anche il partito di Gentiloni. Il presidente del Consiglio non parla, non si schiera. La sua lealtà a Renzi è assoluta e fuori discussione, ma nell'agenda del congresso, al primo posto, c'è la durata del suo governo e gli assetti per la prossima legislatura. E tutti i ministri si sono posizionati per convincere il segretario che la legislatura deve andare avanti, fino all'autunno o ancora meglio fino al 2018. Su questa linea ci sono Franceschini, Orlando, Maurizio Martina, ministri e capicorrente di peso. Ministri di dicasteri chiave come Marco Minniti o Roberta Pinotti non entrano nel dibattito congressuale, ma la pensano allo stesso modo. Il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan non ha neppure la tessera. Fuori dalle beghe partitiche, naturalmente, resta il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma molti suoi amici di un tempo sono ora impegnati a evitare la catastrofe: uno scontro violento, una scissione, elezioni anticipate all'insegna del tutti contro tutti. Tra Renzi e la scissione il PdG, il partito governativo-gentiloniano, è il convitato di pietra, potrebbe essere la prima vittima del caos, o il maggiore beneficiario.
Nelle prossime settimane si tornerà a parlare di legge elettorale, provvisoriamente sparita dai radar e anche dalle commissioni parlamentari. E Renzi sta preparando un'altra mossa del cavallo: una legge che costringa i partiti a unirsi in coalizione prima del voto per raggiungere il premio di maggioranza. Se passasse una riforma del genere, la scissione diventerebbe una fatica inutile: gli scismatici sarebbero poi costretti ad allearsi con l'odiato Matteo. Ma se il nuovo Renzi punta a fare il federatore di un'alleanza più larga non è un buon biglietto da visita per lui non riuscire a tenere unito neppure il suo partito. Anche per questo bisogna dire addio al Pd così come lo abbiamo conosciuto. E sperare che il futuro non assomigli troppo al passato.
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