Per capire cosa succederà da qui alle primarie per eleggere il segretario del Pd il 30 aprile, e quale sarà il destino di Matteo Renzi, più che un saggio di politica bisogna consultare un buon manuale di scrittura cinematografica. Per esempio quello dell'americano Robert McKee, inventore di un famoso metodo di storytelling su come si scrive una sceneggiatura, l'arte di scrivere storie (di Marco Damilano - l'Espresso)
Tutto ruota su un unico, semplice concetto: in un film, come nella vita, «nulla progredisce se non attraverso il conflitto». E in ogni storia che si rispetti il protagonista viene sottoposto a «un incidente scatenante» e a una serie di «complicazioni progressive» che costringono il personaggio a cambiare. «L'incidente scatenante spinge il protagonista a ristabilire in modo diverso l'equilibrio della propria vita... il personaggio è costretto ad adattarsi alle mutate circostanze e a intraprendere un'azione che esige ancora più forza di volontà e capacità personali. Ma forze antagoniste sempre più potenti reagiscono alla sua azione, spalancando un divario tra aspettativa e risultato».
Nella saga politica che ha per protagonista Matteo Renzi è semplice individuare quale sia stato l'incidente scatenante: la catastrofica sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre. E anche quali siano state le complicazioni successive: la decisione di dimettersi da premier, la nascita del governo di Paolo Gentiloni, la difficoltà di andare subito alle elezioni, come Renzi avrebbe voluto. Fino ad arrivare alle ultime drammatiche settimane: prima la scissione nel Pd di Pier Luigi Bersani e di Massimo D'Alema, messa nel conto e forse perfino auspicata dal leader, ma dalle conseguenze ancora imprevedibili. E poi le inchieste delle procure di Roma e di Napoli, con il coinvolgimento a vario livello dei petali più preziosi del Giglio magico: l'amico più fidato, il ministro Luca Lotti, l'alleato Denis Verdini (non indagato), il nominato dai renziani Luigi Marroni (AD della Consip, super-testimone contro il resto del Giglio), il padre di Renzi Tiziano. Una bufera politico-giudiziaria che ha costretto il candidato alla segreteria del Pd a un ruolo per lui inedito e indigesto, quello di chi rincorre gli eventi. L'agenda politica e comunicativa è sfuggita di mano alla vigilia del nuovo Lingotto, nelle stesse sale da cui fu lanciata la corsa di Walter Veltroni alla guida del nascituro Pd nel giugno 2007. È tutto un parlare di relazioni inopportune, amici e parenti ingombranti e faciloni, nella migliore delle ipotesi. Mentre l'orizzonte della legislatura si allunga fino ad arrivare al mese di febbraio 2018, un'eternità. Al governo c'è Gentiloni, amico di Renzi, leale e fidato, ma autonomo e dotato di una sua rete che non sempre coincide con quella del predecessore.
Spente le luci del Lingotto, che rappresenta il più ambizioso tentativo messo in campo finora di definire il renzismo su un piano di cultura politica e non solo come azione di governo, resta in campo la domanda più cruda. Fino al 4 dicembre per chi lo sosteneva Renzi è stato la soluzione al problema italiano dell'instabilità governativa e della mancanza cronica di decisioni. Oggi lo stesso leader appare confuso, nervoso, ondivago, oscillante tra la tentazione di staccare la spina al governo e alla legislatura, cavalcata senza troppe preoccupazioni per settimane, e la necessità ora di sostenere Gentiloni per non finire tra i responsabili dello sfascio, il rischio Weimar, il sistema politico a pezzi esposto a scorribande pericolose, evocato da un commentatore come Stefano Folli su "Repubblica" e dal fondatore dell'Ulivo Arturo Parisi.
Detta brutalmente: le virtù di Renzi fino al 4 dicembre erano considerate una possibile via d'uscita per la crisi italiana, la soluzione; oggi si sono capovolte in vizi e sono diventate un problema. Quanto ne è consapevole il protagonista del film? Quanto è disposto a cambiare, per arrivare alla scena finale senza aver perso le simpatie del suo pubblico? Il dubbio che sia una mutazione impossibile non riguarda più gli scissionisti. Ormai sono usciti dalla sala e hanno cambiato film, ma tormenta i sostenitori della prima ora della leadership di Matteo. Alla vigilia del Lingotto la domanda è stata posta da Sergio Chiamparino e da Giuseppe Sala, presidente della regione Piemonte e sindaco di Milano, un bel pezzo del Pd del Nord, ma soprattutto renziani da sempre. Chiamparino nel 2013 fu il candidato di bandiera di Renzi al Quirinale. Sala è la dimostrazione vivente di come si possa cambiare pelle e strategia in corso d'opera: è stato candidato a sindaco di Milano da Renzi come ex commissario dell'Expo, era la figura ideale per incarnare il progetto del partito della Nazione, allargato ai moderati e agli elettori di centro-destra, ma strada facendo durante la campagna elettorale si è trasformato nel federatore del centro-sinistra largo, modello Pisapia, una specie di Romano Prodi meneghino. E ha vinto.
Chiamparino e Sala hanno chiesto a Renzi di cambiare rotta e di «veleggiare in mare aperto con nuovi equipaggi non necessariamente composti da persone di stretta osservanza del capitano», un siluro contro gli amici del Giglio magico. Una posizione che riassume bene gli umori nei confronti di Renzi di una parte di Pd, del governo e di un mondo esterno alla politica, il pezzo di establishment che ha sostenuto il tentativo dell'ex sindaco di Firenze e che ora guarda a lui con delusione e forse preoccupazione.
Il Renzi rottamatore ha fallito. Ora serve un Renzi a quote più umane, non più unico dominus della politica italiana, un leader aperto alla collaborazione all'interno del Pd e pronto a costruire una coalizione più larga per le prossime elezioni, imboccando l'unica strada possibile per evitare il primato del Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni: una legge elettorale che consegni un premio alla coalizione vincente e non al partito, come suggerito anche da uno strenuo sostenitore del sistema maggioritario come Arturo Parisi. Per svoltare in questa direzione, però, Renzi deve dimenticarsi la solitudine del comando e mettere in campo qualità che finora non ha dimostrato di avere: la capacità di ascolto e di dare spazio ad altre figure, l'attitudine alla mediazione con altri soggetti politici (a partire dagli scissionisti che andranno inevitabilmente recuperati), una leadership non più tutta giocata sul carattere personale del capo.
Renzi deve superare se stesso. La prima cosa che Renzi deve cambiare è Renzi. Anche perché, dopo il Lingotto e le primarie , in caso di vittoria contro Andrea Orlando e Michele Emiliano, il segretario del Pd dovrà affrontare un difficile turno di elezioni amministrative, evitare il referendum della Cgil, sostenere il governo Gentiloni nella strategia di politica economica che arriva all'autunno, alla legge di Bilancio. Ognuno di questi passaggi racchiude una potenziale trappola per l'ex premier. Al termine ci sono le elezioni del 2018, la fine del film. Per arrivarci da protagonista, è in queste settimane che Renzi dovrà scrivere la sceneggiatura per il suo nuovo personaggio
Marco Damilano
Caro Marco,
...e perchè mai dovremmo auspicare un cambio di "abito da scena" di Renzi??? A me Renzi piace così: tamarro, antipatico e perdente. O tu ci trovi qualità taumaturgiche da "carrozziere", da federatore, da economista, da diplomatico, che valga la pena di salvaguardare? Io ci trovo solo un tizio che prima ce ne liberiamo, e meglio è per il Paese. The sooner, the better.
Tafanus
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