Tafanus

"Obbedisco"? (a cura di Axel)

Se al culmine di questa bella storia tutta italiana nota come “Radiotelevisione Italiana” vi chiederete quale possa essere il motivo per cui una legge dello stato (il famoso tetto ai cachet dei conduttori RAI fissato a 240.00 euro all’interno delle nuove norme sull’editoria) non valga per i Fazio ed i Fede, leggetevi prima chi sono i consiglieri di amministrazione e poi quale sia il commento di Carlo Freccero.

Guelfo Guelfi: classe 1945, pisano di nascita, professionista della comunicazione, considerato molto vicino al premier Matteo Renzi (ma soprattutto al padre del premier, Tiziano). Guelfi viene accreditato come spin-doctor di numerose campagne elettorali, tra cui quella che portò Renzi alla poltrona di sindaco di Firenze.

Paolo  Messa: nato a Bari nel 1976, editore, docente, scrittore e comunicatore politico, è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Bari. Ha curato la campagna elettorale del 2000 di Raffaele Fitto e successivamente ha svolto dal 2001 al 2006 il ruolo di capo ufficio stampa e capo della comunicazione dell’Udc.

Giancarlo Mazzuca: classe 1948, originario di Forlì. Giornalista, scrittore, alla guida de Il Resto del Carlino dal 2002 al 2008, e de Il Giorno. Candidato nel 2008 tra le file de il Popolo delle Libertà, viene eletto alla Camera nella circoscrizione XI dell’Emilia Romagna.

Rita Borioni: classe 1965, è l’attuale assistente del presidente della VII Commissione del Senato, carica che ricopre dal giugno 2013. Per 11 anni ha lavorato come collaboratrice parlamentare in Commissione Cultura alla Camera dei Deputati per il Gruppo parlamentare dei Ds, mentre per cinque è stata collaboratrice della Commissione Cultura del Senato, sempre per il Gruppo dei Ds.

Arturo Diaconale: nato in provincia di Teramo nel 1945. Inizia nel 1973 l’attività giornalistica nella redazione romana de Il Giornale di Sicilia. Giornalista parlamentare nel 1976, capo della redazione romana all’inizio degli anni ‘80, passa nel 1985 a Il Giornale. Nel 1992  lascia Il Giornale e diventa redattore capo del quotidiano televisivo della Fininvest Studio Aperto. Candidato al Senato per il Polo delle Libertà nelle elezioni politiche del 1996 nel Collegio 14 della Regione Lazio, senza essere eletto.

Carlo Freccero: nato a Savona nel 1947, negli anni ’80 responsabile dei palinsesti di Canale 5 e Italia 1, poi curatore della programmazione di Rete4, responsabile dei programmi di La Cinque direttore di Italia 1, nel 1996 diventa direttore di Rai2. Nel 2007 viene nominato presidente di Rai Sat, incarico che mantiene fino al 2010. Intanto nel 2008 diventa direttore di Rai4: la lascerà nell’agosto 2013, andando in pensione dalla Rai.

Franco Siddi: nato in provincia di Sassari  il 25 novembre del 1953, ha iniziato la sua carriera di giornalista come collaboratore dell’‘Unione sarda’ e poi del Gazzettino Sardo della Rai. Poi dopo un periodo nell’ufficio stampa del Comune di Cagliari, torna a scrivere per La Nuova Sardegna , impegno che lascerà per occuparsi a tempo pieno della carriera sindacale. 

Fabio Fazio era pronto a trasferirsi a La7: per questo, il direttore generale della Rai Mario Orfeo ha sollecitato il Cda di Viale Mazzini a votare la conferma del presentatore in palinsesto: "Altrimenti - dice ora il consigliere Rai Arturo Diaconale - qualcuno ci avrebbe chiamato a rispondere per il danno alla televisione di Stato. Noi siamo stati costretti, in un certo senso, a sottoscrivere la conferma di Fazio. Non con la pistola, ma con la forza del Codice civile".

Cioè, il danno non è pagare 11,8 milioni di euro in quattro anni Fazio, ma rischiare di abbassare lo share, ammesso che scegliere un altro presentatore lo faccia davvero abbassare…

La presidente della Rai Monica Maggioni, davanti ai parlamentari della Commissione di Vigilanza, ha inoltre alzato il tiro: "Non abbiamo visto il contratto che Fazio si preparava sembra a sottoscrivere con la concorrenza. In fondo, chi ti fa vedere una cosa del genere ? Ma non ho dubbi che il contratto esistesse. Come sono certa che la perdita di Fazio avrebbe portato uno scossone ai nostri ascolti, con effetti seri e sistemici che non ci siamo sentiti di affrontare avendo 13 mila dipendenti".

Fatemi capire, il consiglio di amministrazione RAI dietro la terribile minaccia da parte di Fazio di andarsene a La7 (rete che occhio e croce ha uno share pari ad un quinto di Rai tre) cala le brache in spregio ad una legge dello stato e lo omaggia di 2,8 milioni di euro l’anno.

Tanto il budget lo si paga con il canone rai, no ?

Ricorderei che Fazio, oltretutto, ha imposto la produzione esterna di Endemol di un programma già finito nell’occhio del ciclone per i compensi a Madonna per 15 minuti di comparsata: come se fra i 12.000 dipendenti RAI non vi fossero le professionalità necessarie alla produzione interna.

Precisa ancora Maggioni: "Fazio fa parte della storia della televisione di Stato: vedere transitare quel marchio, quel volto, quel format su un altra emittente avrebbe comportato uno scossone". 

Quindi un invito ai parlamentari: "Uno spot sulla Terza Rete, dove Fazio ha lavorato finora, pesa meno di uno spot sulla Prima dove noi lo spostiamo. Vi invito a ragionare su questo e sull'impatto positivo che il suo trasloco su RaiUno produrrà per i nostri conti".

"Non so - aggiunge la presidente - se la conferma di Fazio sia stata la scelta migliore. Certo, avere addosso il mirino per piccioni come capita a noi non è la condizione migliore per lavorare".

Già: perché buttare i soldi dei contribuenti in periodi come questo è in effetti una raffinata dimostrazione di intelligenza politica, considerato il fatto che anche i parlamentari continuano a contestare l'accordo con Fazio.

In particolare Renato Brunetta (Forza Italia) e Fabrizio Anzaldi (PD) considerano l'intesa contraria alla legge perché viola il tetto ai compensi fissato a 240 mila euro lordi annui dalla nuova normativa sull'editoria.

Del resto basterebbe leggere cosa afferma Carlo Freccero sul “Fatto Quotidiano”:“Il nuovo direttore generale Mario Orfeo non capisce nulla di palinsesti e la tv di Stato è manipolata dall’ex premier Matteo Renzi”.

Sul Fatto Quotidiano, riguardo al nuovo compenso del conduttore Fabio Fazio, l’ex direttore generale Campo Dall’Orto aveva spiegato: «Quegli stessi membri del cda, uno fra tutti Marco Fortis, nominato dal Tesoro, che erano contrari a rimuovere il tetto con Campo Dall’Orto, si sono improvvisamente convinti del contrario con Orfeo.

Pare non interessi tanto la legge, in quanto tale, ma appoggiare o rimuovere un manager più o meno gradito a quella politica che fa le nomine. Il vero problema che stava dietro al teatrino dei compensi alle star era l’esito del referendum».

«È dopo il 4 dicembre - aveva continuato Freccero - che Renzi decide di togliere la spina ad Antonio Campo Dall’Orto, ritenendo che la Rai avrebbe dovuto fare di più per il `Sì´. (NdR: e questo ha dell’incredibile… ricordate quanto la RAI ha spinto in maniera assolutamente indecente per il sì referendario ?) In altri termini Renzi manipola la Rai: dalla nomina di Campo Dall’Orto a oggi, ci siamo dovuti misurare, noi consiglieri, con la natura ambigua della Rai divisa tra servizio pubblico e televisione commerciale. Io volevo che fosse salvata sia la dimensione culturale del servizio pubblico che la sua redditività di grande azienda statale. Ora è emersa, però, una nuova dimensione della Rai che Renzi si era proposto di rimuovere: la dimensione politica, se non governativa. In breve, è la politica a dettare l’agenda al cda, in base alla presenza di persone più o meno gradite».

Sulla cancellazione dell’Arena di Giletti, Freccero afferma: «Certo, un contenitore dove potevano succedere `incidenti´, quindi meglio non avere nessun problema: ho addirittura proposto Vespa per la domenica pomeriggio, ma niente. Questi palinsesti sono disorganici: Orfeo è un giornalista competente, ma non può applicare le sue strategie dell’informazione alla programmazione, perché dimostra di non capire nulla di palinsesti. Il suo modello è il `panino´ dell’informazione unica, sadico con le opposizioni che disturbano la maggioranza».

Vedete, come è chiaro a molti il potere dei partiti sulla Rai si è progressivamente trasferito sulla nomenclatura aziendale che, sommandosi allo strapotere sindacale, ha permesso ad un manipolo di eminenze grigie di fare il bello e il cattivo tempo nella TV di Stato che deve sopravvivere, ma non cambiare.

Sbaglierebbe chi ritenesse che questa situazione sia modificabile (come succede in qualsiasi società per azioni di qualunque paese ad economia di mercato) dall'azione del presidente e dell'amministratore delegato o dal cda: i sette personaggi hanno solo formalmente la possibilità di fare scelte ma in realtà sono costretti a rispondere a chi li ha messi in quel posto, e del resto non rischiano nulla, se non di offendere i loro padroni, che evidentemente non sono gli Italiani che li pagano ma i politici che li hanno messi in quel posto..

Immaginate se sia possibile una cosa come questa: la Rai è l'unica azienda editoriale italiana che non applica il contratto di lavoro giornalistico, quello che prevede la possibilità del licenziamento con (lauto) indennizzo automatico di ogni direttore e vicedirettore di testata per autonoma (e non appellabile) decisione dell'editore.

Nei contratti Rai invece si prevede una clausola che prevede specificamente l'illicenziabilità anche nelle posizioni dirigenziali: questo significa che, se un direttore viene sostituito, l'azienda deve trovargli un altro posto di suo gradimento (che spesso è farlocco) e il rimosso conserva la retribuzione e i benefici direttoriali precedenti.

E questo anche se il direttore rimosso non viene ritenuto più all'altezza dei suoi compiti oppure è stato promosso grazie a poco edificanti rapporti con la politica.

Recentemente, in piena gestione Campo Dall'Orto (ancora forte perché sostenuto da Renzi prima del referendum che lo ha disarcionato) è stata fatta in Rai una infornata di vicedirettori, tutti promossi con la clausola aggiuntiva della illicenziabilità che, ripeto, non è prevista dal contratto nazionale di lavoro giornalistico.

Ora, pazienza con le posizioni in essere (a costoro, avendo ottenuto il beneficio extra-contrattuale, esso non può essere tolto se non con una specifica e difficile ricontrattazione) ma insistere attribuendo l'assurdo beneficio anche con le nuove nomine (avvenute sul finire del 2016!) è uno dei tanti fatti che dimostrano che la Rai non solo astrae dai costi, ma è anche irriformabile se non tramite la mera (e ormai irrinunciabile) privatizzazione che la riporti entro un logico alveo di naturale concorrenza.

In queste condizioni la Rai (in barba alla tante eccellenti professionalità che in essa operano quando vengono lasciate operare) è sempre più una società autoreferenziale che si bea della propria impunità, protetta da un oggettivo balzello antistorico quale il canone obbligatorio.

Ed, incredibilmente, anche i politici si sono lasciati avviluppare dalle lusinghe dei vertici RAI fino a perdere la loro referenzialità: il potersi permettere (attraverso il pagamento degli 11,8 milioni a Fazio) lo schiaffo finale al parlamento indica in maniera chiara come i boiardi, autoinstallati nelle aziende di Stato, siano incredibilmente in grado di farsi beffe del parlamento.

Complimenti ai presidenti del consiglio che si sono succeduti negli ultimi anni.”

Axel

 

Matteo Renzi: ragazzotto nostro, statista immaginario, mollato da tutti

Un se-credente statista, che è solo un post-democristiano piccolo-piccolo, arrogante come tutti i piccoli... E' noto: i cani di taglia piccola sono molto, ma molto più livorosi dei San Bernardo, dei Labrador, dei Terranova (i quali svolgono peraltro funzioni utilissime), e pochissimo propensi a riconoscere la loro statura da inutili "nani da lecco". Ed ora viene in mente tale Armando Diaz...

"...I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza..."
(Armando Diaz, comandante supremo del Regio Esercito)

È una giornata particolare, in cui Renzi ricorda l’iconografia di San Sebastiano, perché in effetti viene trafitto un po’ da tutti: con diverse sfumature lo attaccano, lo criticano, lo indeboliscono, da Prodi a Veltroni, dal sindaco Sala ai ministri Franceschini e Delrio. La presunta colpa di Renzi è in parte Renzi stesso, per quasi tutti è ormai troppo «divisivo» e invece il centrosinistra dovrebbe essere unito. La colpa ulteriore è l’analisi che ha fatto delle Amministrative, quel dirsi esasperato dagli attacchi interni, quel rimarcare che al momento non ha alcun voglia di investire in una coalizione.

Le frecce - Le frecce contro Renzi vengono scagliate in un pomeriggio in cui la sua stessa leadership viene messa in discussione. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, parla di «errori fatti» alle elezioni, dice che i dirigenti del Pd non hanno avuto «abbastanza supporto» sul territorio. Dario Franceschini pubblica un grafico con il calo di consensi del Pd, negli ultimi 4 anni, in città come Verona, Genova, Parma e l’Aquila: «Bastano questi numeri per capire che qualcosa non ha funzionato? Che il Pd è nato per unire e non per dividere?», è la domanda. Lorenzo Guerini risponde così: «Se ne discuta in Direzione, non servono esasperazioni».

La metafora - Ma anche Walter Veltroni è molto diretto: «Gliel’ho detto anche faccia a faccia, gli consiglio di cambiare passo, serve una nuova stagione».

Ma l’affondo più duro arriva da Romano Prodi: «Leggo che il segretario mi invita a spostare un po’ più in là la mia tenda, lo farò senza difficoltà, la mia tenda è leggera, intanto l’ho messa nello zaino». La metafora allude al fatto che non è iscritto al Pd ma che si considera vicino agli ideali del partito, in una distanza politica che l’immagine di una tenda aiuta a definire.

Graziano Delrio commenta così: «Spero che la tenda la ritiri fuori».

Gianni Cuperlo: «Renzi divide invece di unire». Le parole di Prodi vengono subito dopo l’analisi di Renzi: «Quelli che invocano la coalizione di centrosinistra larga il più possibile fanno il gioco del centrodestra, e non del Pd».

Le visioni opposte - Insomma si confrontano due visioni opposte: Renzi è convinto di staccare in modo definitivo il Pd dagli ex, da tutti coloro che se sono andati, da Bersani e da D’Alema e se del caso anche da Pisapia, gli altri sostengono che è la strategia sbagliata. Come il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che parla di «autosufficienza e arroganza».Ieri Renzi si è detto «esasperato» dalle polemiche, ha attribuito loro le ragioni della sconfitta. E se i suoi, dal vicesegretario Martina al capogruppo Rosato, dicono che con Prodi non c’è alcun problema, in realtà sembra che una guerra politica dagli esiti imprevedibili sia già iniziata. Renzi fa persino autocritica sugli 80 euro («Ho sbagliato a presentarli come una televendita»), promette che tirerà fuori «un progetto serio sul Paese stando lontano dalle polemiche interne», e aggiunge che una discussione sulle coalizioni oggi «è artificiale. Su questo argomento farò una moratoria, non ci sto al ritorno alle correnti o ai cespugli».

(Fonte: Corriere/Politica)

Una conclusione non sono mia personale, dopo aver letto la bieca e cieca autodifesa dello Statista di Rignano? Renzi, VATTENE!

Tafanus

 

 

 

Il bilancio definitivo delle Amministrative 2017 (di Salvatore Borghese - youtrend)

Amministrative 2017: totale comuni superiori e focus sui capoluoghi, conquistati, confermati o persi rispetto alle tornate precedenti, nonché (immancabili) i flussi tra 1° e 2° turno

Con la conclusione del secondo turno possiamo finalmente redigere un bilancio definitivo di questa tornata di elezioni amministrative, dopo il primo – parziale – bilancio fatto all’indomani del primo turno.

Affluenza ancora in calo -  L’affluenza è calata ulteriormente rispetto al dato già poco entusiasmante del primo turno: due settimane fa aveva votato il 58% degli aventi diritto; ieri è andato a votare solo il 46%, meno di uno su due. Un calo di ben 12 punti tra primo e secondo turno non è di per sé uno scandalo (in Italia è frequente assistere a un calo dell’affluenza, anche importante, in occasione dei ballottaggi); ma il dato di partenza era già così basso che il dato finale appare allarmante. Se è meno della metà dell’elettorato a scegliere i propri rappresentanti vuol dire che le istituzioni soffrono di una grave crisi di legittimità.

Risultati: comuni superiori e capoluogo - Nel bilancio complessivo relativo ai 160 comuni con più di 15.000 abitanti (quelli in cui si vota con il ballottaggio), il centrosinistra vince in 67 casi, il centrodestra in 59. Sono invece 20 i comuni in cui vince un candidato “civico”. Questa tornata dunque riporta ad una situazione di sostanziale parità (tra centrosinistra e centrodestra) un quadro di partenza in cui il centrosinistra era nettamente maggioritario, con 81 comuni amministrati contro i 41 del centrodestra. Rispetto al passato quindi c’è stato un arretramento del centrosinistra e un avanzamento del centrodestra. Anche il M5S avanza, passando da 3 a 8 comuni.

Bilancio definitivo Comunali 2017 - Qui il ribaltamento del fronte appare in modo eclatante: se prima 16 capoluoghi su 24 (due su tre) erano amministrati dal centrosinistra, ora è il centrodestra ad amministrarne 16, con un saldo positivo di +10 perfettamente speculare a quello negativo (-10) del centrosinistra. Interessante vedere il “comportamento” dei comuni capoluogo. Negli ultimi 3 anni sono andati al voto 69 capoluoghi: di questi, il centrosinistra ne amministrava 46 (prima delle Comunali 2015), mentre oggi sono solo 21. Il centrodestra per contro raddoppia, passando da 16 a 32.

Bilancio capoluoghi 2015/2017 - Il bilancio definitivo delle Amministrative 2017 La stessa tabella, analizzata nel dettaglio, evidenzia un altro aspetto: il centrosinistra è sì riuscito a conquistare 8 comuni capoluogo che prima del 2015 non amministrava, ma ne ha persi ben 33 dove invece prima era al governo. Parte di questo fenomeno può certamente essere spiegato con il venir meno del cosiddetto “effetto incumbent” (l’amministrazione uscente parte sempre con un certo vantaggio) e il conseguente aumento della volatilità, che ha danneggiato maggiormente la parte politica amministrava il maggior numero di comuni (cioè il centrosinistra).

(Fonte: youtrend)

 

Con l'analisi dell'ultimo, epocale successo di Renzi, passo e chiudo

Era un impegno: avrei fatto parlare solo i numeri, e solo dopo i ballottaggi. Ora i numeri ci sono, e anche senza spiegazioni li può capire chiunque. Anche "quelli che con Renzi si vince", E anche quelli (e quelle) che dopo la mal digerita disfatta del 5 dicembre, mi hanno ringraziato (era ironia o sarcasmo?) di aver "consegnato il paese" a Grillo.

Non mi risulta di aver consegnato il Paese a Grillo, e chi ha buona memoria o buoni archivi può verificare che ho sempre affermato di fottermene di Grillo, perchè il suo MòViMento era talmente insipiente che si sarebbe suicidato prima di avere il tempo di produrre il minimo danno. E di essere invece molto, ma molto preoccupato dalla incompetenza (associata a scarsa etica politica) di Renzi e del suo Giglio Magico. Ora i risultati del renzismo sono fotografati dal voto dei 25 capoluoghi al ballottaggio. Renzi è riuscito a perdere non solo dove aveva un avversario, ma - caso unico nella Storia d'Italia - è riuscito a perdere persino dove correva solo il suo PdR.

Non che io ci tenga particolarmente... Ma non sarebbe carino se qualcuno avesse la brillante idea di chiedere scusa?

La distruzione finale della Sinistra (e ora tenetevi Berlusconi e Salvini)

 

Fra poche ore, in termini elettorali le chiacchiere staranno a zero, e si ragionerà, su un centinaio di comuni al ballottaggio, sui numeri

Abbiamo prodotto un foglio excel (scaricabile, ma per modificarlo dovete fare un "salva con nome" sul vostro PC). Il foglio è molto semplice, perchè ho impietosamente tagliato tutte le coalizioni "nascoste" dietro misteriose liste civiche. Fra qualche ora, avremo l'unico fatto diverso da una pugnetta: quanti comuni ogni grande partito avrà perso o guadagnato rispetto alle precedenti elezioni (in genere quelle del 2012). Questi dati sono da sommare a quanto già reso noto in caso di soluzioni elettorali già maturate dopo il primo turno.

E tutto il resto sarà noia, slides, twitter e cazzeggio post-elettorale.

Finchè ne avrò la forza, terrò aggiornato il foglio excel scaricabile

DA QUESTO LINK

Cinema - "Sieranevada" (Recensione di Angela Laugier)

Recensione del film "SIERANEVADA" (di Angela Laugier)

Regia: Cristi Puiu

Principali interpreti: Mimi Branescu, Judith State, Bogdan Dumitrache, Dana Dogaru, Sorin Medeleni, Ana Ciontea, Mirela Apostu, Eugenia Bosânceanu, Ilona Brezoianu, Ioana Craciunescu, Valer Dellakeza, Aristita Diamandi, Simona Ghita, Marin Grigore – 173 min. – Francia, Romania, Bosnia-Herzegovina 2016.

Il curioso titolo di questo film non allude in alcun modo al suo contenuto, che non è, infatti, né il remake di un western famoso, né un documentario sui monti  spagnoli, per parlare dei quali non si è forse badato troppo all’ortografia. È, invece, un significante senza significato, perché così ha voluto il regista, il rumeno Cristi Puiu, per impedirne, in tal modo, una qualsiasi arbitraria traduzione.

Se invece ci addentriamo nell’analisi di questo straordinario film, ci rendiamo conto che il “nonsense” del titolo potrebbe diventare la chiave di lettura dell’intero svolgersi, dalla prima all’ultima scena, del racconto, che per questa ragione ha richiamato alla mia memoria almeno due grandi film di Luis Buñuel: L’angelo sterminatore e Il fascino discreto della borghesia, fra i quali (nonostante l’innegabile diversità) credo vada cercato il suo precedente illustre, ben più che in Parenti serpenti di Monicelli che pure gli è stato accostato.

Ci troviamo nella Romania del 2014: lo apprendiamo dal notiziario trasmesso, nel corso del film, da un televisore acceso, che parla della strage al Charlie Hebdo, di tre giorni prima. In un alloggio di Bucarest sta per essere celebrata la solenne cerimonia di commemorazione funebre del capofamiglia, morto da quaranta giorni, ma, secondo la tradizione, anima in pena in attesa di trovare la propria pace grazie al rito di commiato, che sarà celebrato dal pope. Tutto è predisposto: la tavola imbandita per il pranzo di famiglia; la stanza con l’abito buono del morto che dovrà essere benedetto e successivamente indossato da uno degli eredi; la cucina in cui alcune donne si avvicendano per la preparazione di qualche tramezzino, visto che il pope è in viaggio ed è in ritardo. Un po’ alla volta, intanto, arrivano gli invitati, dai figli, ai nipoti, ai fratelli, ai cognati in un mescolarsi confuso che all’inizio ci spiazza, perché, in tanto caotico succedersi degli arrivi è difficile comprendere quali siano i rapporti di parentela. Si comprende invece, quasi subito, che questi non sono così importanti: al regista interessa invece delineare i tipi umani protagonisti ora patetici, ora comici, ora grotteschi di ciò che accade in quell’alloggio, gremito di mobili, cibi e suppellettili, oltre che di persone, claustrofobico ambiente nel quale si passa il tempo in attesa che la cerimonia si compia e ci si metta a tavola. Il film è dunque girato quasi esclusivamente in quell’ interno, con la tecnica del piano-sequenza che segue parole e accadimenti da una stanza all’altra. Gli ospiti si spostano;  i battenti delle porte si aprono e si chiudono; le donne più anziane stanno intorno alla vedova, che è malata, fa la calza prende le medicine e dispensa consigli; le più giovani sono in cucina; una vecchia zia, che con Ceausescu aveva conosciuto tempi migliori, con un bianco colbacco si aggira fra i gruppi degli ospiti rimpiangendo i tempi del socialismo reale, quando tutti (e lei sicuramente) stavano meglio, la società era più giusta e ai giovani si trasmetteva cultura, ideali e buona creanza… Gli uomini, invece, si lasciano coinvolgere da un barbuto giovanotto che si muove su Internet, dai cui siti gli arrivano le terrificanti notizie del complotto internazionale che dall’11 settembre a Charlie Hebdo sta avvolgendo il pianeta in una spirale di terrore. Lary, il figlio maggiore del defunto, ex medico che ora vende farmaci per guadagnare di più, se la ride del socialismo reale e dei complotti e aspetta che torni dalla spesa al Carrefour la moglie, delusa dal matrimonio e dal comportamento del marito. Arrivano poi due ospiti poco graditi: una giovane figlia, trasgressiva e impresentabile, che accompagna in quella casa un’amica ubriaca (o drogata?), che dorme e vomita a intermittenza, nonché un uomo di mezza età, marito di una delle donne, grossolano nei modi e nel linguaggio. All’arrivo del pope, nei paramenti del lutto, la famiglia sembra ricomporsi, per sbandare subito dopo, nell’ attesa del pranzo, continuamente scandita da incidenti di varia natura: l’abito del morto è fuori misura; una sarta che se ne vorrebbe andare, è costretta a ripararlo in fretta e furia, per non parlare di quella camicia che fra spilli e piegoline, infine viene indossata; si sveglia la neonata, che beatamente aveva ignorato il trambusto e il pope, ma che ora reclamava il suo biberon  che andava scaldato, mentre diventano acute le tensioni fra i suoi giovani genitori; arriva la moglie di Lary, ma le occorre aiuto, perché non riesce a difendersi dai minacciosi energumeni che bloccano i movimenti della sua auto. Usciamo, allora, insieme a Lary,  finalmente fuori dalla babele di quell’alloggio e respiriamo, per la seconda volta (la prima era stata all’inizio del film), l’aria gelida di una Bucarest invernale, in cui i rissosi inquilini di un caseggiato ricoprono di insulti e contumelie i due coniugi che a stento riescono a liberarsi di loro e a trovare un parcheggio. Finalmente sono soli; finalmente, nel silenzio del loro improvviso isolamento, trovano il coraggio per confessarsi tradimenti e incomprensioni, per dirsi cioè le cose che in fondo entrambi conoscevano ma sulle quali preferivano fingere di nulla. Non era rimasto, però, molto tempo per riflettere e recriminare. Si era fatto tardi e occorreva salire in quell’alloggio dove tutti li aspettavano per mangiare. Qualcuno avrà avuto ancora fame?

Il film si svolge dunque fra due momenti “esterni”, all’inizio e al termine di quella tremenda giornata, che offrono il desolato e significativo ritratto di una città caotica, rumorosa e senza regole, di cui gli abitanti con i loro comportamenti strampalati, spesso incivili e arroganti non sono che un rassomigliante prodotto: sempre in affanno, con i nervi a fior di pelle, condannati a vivere insensatamente alla perenne ricerca di denaro, in base al quale soltanto in Romania come dappertutto si misura il successo e il prestigio. Sembra essersi emblematicamente compiuta, nell’Est del comunismo dei satrapi, la transizione insidiosa verso i “valori” di un occidente europeo tanto ammirato, quanto, a sua volta in profondissima crisi di ideali e di valori. Le tre ore del film volano, tanto è vicino anche a noi il racconto del nonsenso di quelle vite, e l’inquietudine per quella crisi. Da vedere!

di Angela Laugier

 

Benvenuti alla Stazione di Afragola: la più kitch, costosa ed inutile d'Europa

Servirà 36 treni sui 400 che transitano da Napoli Centrale. Pochi sono in grado di dirvi come arrivarci, ma giurano che nel 2020 sapremo qualcosa. Sembra che poggi su un letto di rifiuti tossici, ma è certo che è circondata da un osceno panorama di rifiuti in bellavista. Finora è costata 60 milioni, ma non funziona il bar, il parcheggio, l'aria condizionata, ci piove dentro... Afragola: how do you spell it?

A pochi giorni dall'inaugurazione il nuovo scalo dell'alta velocità di Afragola è un disastro. Siamo andati a visitare la "stazione più bella del mondo" dove una manciata di passeggeri si deve districare tra locali chiusi dai Nas, infiltrazioni d'acqua, finiture abbozzate e parcheggi senza permessi, il tutto facendo i conti con l'assenza di aria condizionata. I dintorni della stazione non sono da meno: cumuli di rifiuti abbandonati in ogni dove e il sospetto che l'intero sottosuolo sia contaminato (di Fabio Capasso e Vincenzo Iurillo - Il Fatto)

Il diavolo si nasconde nei dettagli, anche se in apparenza gradevoli. “Entrate e parcheggiate, non si paga” dice cortese l’addetto alla vigilanza. E parcheggiamo senza ritirare il ticket davanti alla stazione Tav di Afragola. Peccato che la sosta gratuita dipenda dalla momentanea interdizione all’esercizio dell’attività. La documentazione amministrativa presentata da Metropark è incompleta. Per la stessa ragione anche il bar di Chef Express è chiuso, sbarrato, niente bottigliette d’acqua per dissetarsi nell’afa amplificata dall’assenza di impianti di condizionamento. Sullo sfondo c’è l’inquietudine di un sospetto della Procura di Napoli nord: che quel parcheggio, come l’intera stazione, siano stati realizzati su terreni misti a strati di immondizia, inquinati da una camorra senza scrupoli che tra gli anni ’90 e 2000 ha avvelenato gli anfratti dell’hinterland napoletano. E che nella corsa per realizzare l’opera e accelerarne l’ultimazione qualcuno si sia dimenticato di segnalare il problema, e di bonificare a fondo. Gli inquirenti ricordano che nella zona intorno alla stazione sono stati accertati più volte sversamenti illeciti. E filtrano indiscrezioni sull’imminente avvio di carotaggi, a cominciare dal parcheggio. Vogliono vedere cosa c’è sotto. L’amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana, Maurizio Gentile, in una intervista a Il Mattino ha assicurato che l’area non è contaminata, tutto è stato fatto seguendo le regole, e ci sarà massima collaborazione con la magistratura. Al momento non c’è motivo per non credere alle parole dell’ad, ma i pm Giovanni Corona e Domenico Airoma, coordinati dal procuratore capo Francesco Greco, hanno aperto un fascicolo a modello 21, con persone da identificare a cui accollare l’accusa di gestione illecita di rifiuti e omessa bonifica. I pm hanno chiesto alla Forestale notizie su un colossale sequestro giudiziario di rifiuti avvenuto in quelle aree nel 2007. Non si trova il provvedimento di dissequestro. Sparito. Smarrito. Che fine ha fatto l’immondizia scoperta e sigillata dieci anni fa? Come fu smaltita?

Ma andiamo con ordine e rimaniamo nel gioiello progettato da Zaha Hadid e finora costato circa 60 milioni di euro. Inaugurato il 6 giugno in fretta e furia per servire 36 treni dell’alta velocità (a Napoli ne passano 400) dal premier Paolo Gentiloni. Cinque giorni prima delle elezioni amministrative. In una provincia di Napoli dove il Pd è in crisi profonda di consenso. In fretta e furia, dicevamo. Il parcheggio gratuito è una gioia, certo. Ma si trasforma in delusione se hai una borsa pesante e alle 9.50 le scale mobili si bloccano per un intervento urgente di installazione di una telecamera in un ascensore. L’impianto elettrico è unico. Si ferma tutto. Poco male. Ci saranno dieci persone al massimo, compresi i vigilantes. In quindici minuti le scale mobili ripartono. Sulle vetrate camminano come formiche gli operai con le bluse fosforescenti che maneggiano pistole spara silicone. Pochi giorni prima ha piovuto dentro. Uno scempio. L’acqua veniva raccolta da un secchio al centro del corridoio. Scorreva da una telecamera di videosorveglianza. Cerchiamo in giro un estintore, nel malaugurato caso dovesse un giorno essercene bisogno. Non riusciamo a trovarlo. Non solo. Basta toccare con mano alcuni punti dei muri per intuire che nell’urgenza di inaugurare non si è badato alla qualità delle rifiniture. I pezzetti si strappano con facilità. I pannelli sembrano fissati con approssimazione. “Qui in dieci anni se ne cadrà tutto”, scherza un operaio delle pulizie. Eppoi sarà pure la stazione più bella del mondo, ma c’è un caldo bestiale, sotto il sole che picchia ovunque e senza aria condizionata. Se ne è accorto il pm Corona quando il 13 giugno si è recato sui luoghi accompagnato dai carabinieri dei Nas. Ha fatto numerose domande e osservazioni sul punto, verbalizzando le risposte minimizzanti degli addetti ai lavori. In Procura si chiedono se una persona obesa, una donna incinta o con problemi di pressione non rischi un collasso, o peggio.

Qualche mese fa l’impresa che stava realizzando una strada per tagliare l’asse mediano e abbreviare il tragitto verso la Stazione ha sospeso i lavori e chiuso il cantiere dopo aver estratto dagli scavi il rottame di un’automobile piena di rifiuti misteriosi. Una scena da Gomorra. E il sospetto sull’esistenza di altri rifiuti intombati cresce alla constatazione che intorno si cumulano montagne di spazzatura a cielo aperto. Basta girare sulle strade sterrate e sulle rotonde della provinciale 341. Proprio di fronte a un campo coltivato a pomodori qualche delinquente ha sversato di tutto: centinaia di toner usati, pneumatici, resti di mobili d’ufficio, panni bruciati, scartoffie, rimasugli edili. Rimestando quella robaccia trovi raccomandate ancora chiuse intestate a un’azienda del nord. E una tessera sanitaria scaduta di una signora nata a Sassuolo. Gli agricoltori allargano le braccia: “Avevamo messo una sbarra per proteggere questa zona, l’hanno rubata. Quella roba lì ogni tanto la tolgono e in una notte si riforma”. La foto simbolo è qui: la monnezza per terra, i pomodori affianco, la Tav sullo sfondo. “Avete la stazione più bella del mondo ma non vi tolgono i rifiuti da terra”. I ragazzi allargano le braccia. Accorrono gli ispettori ambientali. Hanno il volto di chi è chiamato a svuotare il mare con un cucchiaio. Ci vorrebbe un sistema di videosorveglianza. O forse ruberebbero anche quello.

 

Ballottaggi - Saranno tre giorni terribili... Tutti avranno vinto. E io ho preso l'antidoto

Disciamoscelo... si prepara una tre giorni terribile, affollata di "Dichiaratori della Vittoria Epocale", e col Ricciolino che sarà costretto a far finta di eccitarsi sui +/- zerovirgola...

Io cerco di salvarmi così...

 

 

Cinema - "Ritratto di famiglia con tempesta" - Recensione di Angela Laugier

Recensione del film "RITRATTO DI FAMIGLIA CON TEMPESTA" (di Angela Laugier)

Titolo originale: After the Storm

Regia: Kore’eda Hirokazu

Principali interpreti: Hiroshi Abe, Kirin Kiki, Yôko Maki, Rirî Furankî, Sôsuke Ikematsu, Satomi Kobayashi, Isao Hashizume, Taiyô Yoshizawa – 117 min. – Giappone 2016.

Il “cuore” di questo bellissimo film del regista giapponese Kore’eda Hirokazu è il modesto appartamento della periferia di Tokio in cui vive la sua vecchiaia Yushiku (Kirin Kiki), che, nonostante l’età e gli acciacchi, non intende rinunciare al ruolo che il destino sembrava averle riservato: essere l’affettuoso e caldo riferimento dei propri cari in difficoltà, come era avvenuto in passato, quando aveva accettato di ridurre al minimo le proprie esigenze, per continuare ad amare un marito sprecone e dissipatore del patrimonio familiare. Che il giovane Ryota (Hiroshi Abe), uno dei due figli di Yushiku, avesse ereditato numerosi difetti di quel padre pareva cosa evidente alla vecchia madre, che ben rivedeva in lui lo stesso candore incosciente, nonché la stessa attitudine alla menzogna e alla fuga dalle proprie responsabilità. Un vero peccato, però, perché Ryota stava dissipando in tal modo anche quelle doti non comuni che fin da piccolo aveva manifestato: il suo grande talento di narratore grazie al quale aveva ottenuto, al suo primo romanzo, fama e successo. Dopo, purtroppo, non aveva più scritto alcunché ed era vissuto nella vana attesa che qualche editore si occupasse di lui. Aveva preso moglie ed era diventato padre, ma, privo di ispirazione, sembrava aver abbandonato la scrittura: all’inizio del film lo vediamo, nelle vesti improbabilissime di investigatore privato, vivere con pochi quattrini in tasca, travolto da un giro di scommesse e incapace di provvedere all’assegno mensile dovuto alla moglie (che si era separata) per il mantenimento del figlio. Kyoko (Yôko Maki), la moglie molto bella e molto amata, infatti, aveva invano sperato che provvedesse ai bisogni del piccolo Shingo con un lavoro regolare: stanca di aspettare, ora voleva il divorzio e progettava un nuovo matrimonio, intendendo rendergli sempre più brevi e penosi gli incontri che una sola volta al mese egli aveva col suo bambino, ormai di dieci anni.

Un tornado di straordinaria violenza lo aveva colto nella piccola casa materna, mentre Kyoko ne voleva uscire per riportarsi a casa il piccino. Per entrambi quel caldo riparo era stato un provvidenziale rifugio dalla violenza degli elementi naturali, e grazie alla saggezza di Yushiku, era diventato l’occasione  per un lungo confronto durante il quale i rispettivi torti e le rispettive ragioni avevano avuto modo di ridefinirsi (anche se non credo di annullarsi), così come il flusso di  tenerezza e d’amore fra Ryota e il suo bambino aveva ritrovato il suo giusto percorso.

Ancora una volta, il regista giapponese affronta il tema dei padri e dei figli (come  nel suo bellissimo Father and Son – 2015), indagando con classica asciuttezza e senza compiacimenti sentimentali nelle contraddizioni di un uomo velleitario e incapace di diventare adulto, ma determinato almeno a ricuperare, attraverso il rapporto col suo bambino, la parte migliore di sé, ponendo un freno perciò alla deriva della propria vita. Perfetto nel ruolo di Ryota, il bellissimo Hiroshi Abe si rivela capace di alternare, nella sua interpretazione, all’impassibile indifferenza dell’uomo sconfitto dalla vita e dai propri errori, la dolcezza tenera del padre amoroso che ha ritrovato attraverso il rapporto col figlio, il senso profondo della propria esistenza.

Non aggiungo altro: il film è molto bello e da vedere sicuramente. Come al solito, lamento  il grottesco titolo italiano che ha trasformato After the Storm, in Ritratto di Famiglia con tempesta! Ma perché?

Angela Laugier

 

Analisi del voto: oggi giochiamo al "Migliore" (Gennaro, Migliore)

Alla vigilia del referendum costituzionale, alcuni cari amici personali - chiosando la mia campagna per il NO, mi avevano insistentemente e pesantemente insultato, accusandomi di voler consegnare il paese a Grillo e Salvini. E poco importava che da 12 anni io scrivessi quasi quotidianamente sia contro l'uno che contro l'altro. E importava poco anche la mia considerazione che si dovesse combattere un nemico alla volta, iniziando dal più pericoloso: in particolare, da Matteo Renzi, svelto di mano, anche se poco svelto di cervello. E fiancheggiato da truppe di pericolosi leccaculo.

La mia teoria contro la pericolosità di Grillo era molto, ma molto semplice, e si sviluppava in due punti:

-a) Grillo ha il serbatoio dei militanti per metà di DNA centro-destra, e per metà di DNA centrosinistra. Erga, non potrà mai coalizzarsi con nessuno, perchè il giorno dopo perderebbe metà dei consensi. E con la metà del 30% non si va da nessuna parte. Oltre al fatto che è tutt'altro che certo che Forza Italia o il PD sarebbero pronti ad allearsi con Grillol.

-b) Grillo col suo blog e coi suoi click è talmente sprovveduto, che ha incorporato nel suo corpaccione un meccanismo di autodistruzione. Alle precedenti amministrative, Grillo ha partecipato a venti ballottaggi, vincendone 19, mentre oggi forse non raggiungerà il secondo turno che in UN SOLO comune.

Grillo, CVD, si è autodistrutto molto prima delle mie più ottimistiche previsioni.

E veniamo al Migliore, che nega, con sprezzo del ridicolo, sia il flop della partecipazione, che quello (proporzionalmente superiore) dei consensi al PD. E come se la cava, il Migliore, per sostenere questa fantastica teoria??? Accorpando al PD tutte le liste civiche che è riuscito ad individuare, con una mirabolante precisione del secondo decimale.

Ora, se c'è una cosa certa circa le liste civiche, è che non c'è nessuno in grado di "etichettarle" e di "misurarle" con bilancino del farmacista. Nessuno, tranne il Migliore.  Ma noi che siamo lenti di comprendonio, abbiamo deciso di mettere in fila i voti (in numeri assoluti) del PD, nei comuni capoluogo in cui si è votato nel 2012 e nel 2017. Già, perchè i voti delle "civiche" sono tendenzialmente un percentuale fissa dei voti del PD ufficiale, e perchè non abbiamo gli strumenti di precisione del Migliore per pesare fino al milligrammo le "civiche"

VOTI DI LISTA AL PD (2017 SU 2012)

P.S.: Siamo certi che Gennarino il Migliore riuscirà a fornirci una spiegazione convincente di come abbia fatto, specie dove c'erano delle coalizioni variegate, ad attribuire una certa lista civica al PD di Renzi, e non ad Alfano o a Verdini. Mistero. Intanto annotiamo che il PD propriamente detto perde con cronometrica puntualità 5 punti percentuali all'anno. E annotiamo che la teoria renzina che il calo del PD sia dovuto alla diminuzione dell'affluenza è destituita di ogni fondamento: Il PG cala con percentuali più che doppie rispetto al calo dell'affluenza. Erga, a casa mia, è il calo del PD (piddini rimasti a casa) a far scendere l'affluenza al voto, e non viceversa.

Gennaro Il Migliore estasiato per il selfie col sorriso equino di Maria Etruria Boschi

 

Prima che si scateni il cazzarismo post-voto...

Lo diciamo prima, così potremo essere insultati, se sbaglieremo, dai soliti noti.

Sulla base dei dati di affluemza alle urne nelle città-capoluogo alle 19:00, si prospetta un nuoco, clamoroso crollo dell'affluenza al voto.

Nel 2012 erano andati al voto 2.905.500 cittadini. Quest'anno, sulla base delle mie previsioni, i votanti potrebbero fermarsi sotto 1, 9 milioni. Posso sbagliare, ma si prospetta un nuovo crollo della partecipazione misurabile in un terzo dell'elettorato.

Di chi la colpa? Lo diciamo subito, così non ne discuteremo col senno di poi, come avviene in genere negli "speciali" che ci affliggeranno per tutta la notte:

-a) Se il calo d'affluenza si distribuirà nelle varie città con un "pattern" che prescinde da quali partiti abbiano lasciato per strada più o meno elettori, potremo parlare di una generalizzata disaffezione dalla politica;

-b) Se invece ci sarà una correlazione fra calo d'affluenza e perdita di voti in valore assoluto, allora si tratterà di qualcosa di più specifico: in particolare, di un crollo non omogeneo di tutti i partiti, ma di UN partito.

P.S.: Dalle 23:00 in poi, sono caldamente pregati di risparmiarci le loro pregiate "previsioni a posteriori" nelle quali sono specializzati molti nostri amici. Chi se la sente, ci metta la faccia "prima".

Tafanus

 

Off Topics del 9 Giugno

N.B.: Oggi assente per "tagliando"

Lo spot più osceno e "oh scemo" del momento? Quello dedicato alla promozione turistica di Israele

LO SPOT PIU' OSCENO DEL MOMENTO - Qualche giorno fa, durante la celebrazione-bis del mio compleanno, qualcuno (non so come sia nato il discorso) conoscendo i miei trascorsi da uomo di marketing, mi ha chiesto quale sia a mio avviso lo spot pubblicitario più brutto in circolazione.

Confesso di essere rimasto spiazzato dalla domanda, perchè come quasi tutti coloro che si sono occupati per decenni di comunicazione, oggi sopporto male gli spot, e quando "passano", e sono lontano da un telecomando, calo in automatico una sorta di saracinesca fra me e lo spot.

Poi, all'improvviso (e forse risvegliato dalla domanda che mi era stata rivolta), lo spot più brutto e osceno del giorno mi è piombato addosso, senza che io abbia fatto nulla per cercarlo...

APRI LO SPOT QUI

Non so in quanti lo abbiano visto: è uno spot promozionale del turismo nello Stato di Israele, dedicato - almeno nei titoli - a Tel Aviv e Gerusalemme.

Volendo, lo Stato di Israele, con le sue mille contraddizioni, il vanto dei suoi centri di ricerca accanto alla vergogna della striscia di Gaza, la spiritualità della regione fra Gerusalemme e Nazareth accanto alla brutta, polverosa industrializzazione della zona costiera fra Gaza ed Haifa, la dolcezza delle Middle Banks contrapposta alla bruttezza polverosa della "riserva" sud dove sono segregati i palestinesi, Israele avrebbe potuto puntare ad una difficile operazione di comunicazione volta a stimolare le curiosità di viaggiatori intelligenti e curiosi di capire.

Invece Israele è cascato, a testa in giù, nella becera soluzione - assolutamente incoerente con la complessità e la spiritualità di Israele - di puntare sull'eterno cocktail "cosce-tette-culi", come nelle peggiori edizioni di "Striscia la notizia". L'orrendo spot non è freschissimo (ha alcuni mesi d'età) ma era sparito, ed è stato resuscitato da poco. Meritava invece una morte rapida,  dignitosa. e soprattutto definitiva.

Purtroppo non è stato così.

Tafanus

 

Roberta Gambarini: come fuggire dall'Italia a gambe levate e diventare una delle più grandi cantanti di jazz del mondo.

Una storia italiana: come regalare agli USA un patrimonio musicale italiano. Questo articolo de Linchiesta è quanto di più completo io abbia trovato sulla storia di Roberta Gambarini. Non è un mistero per nessuno che Roberta sia in assoluto la mia cantante jazz preferita. E poichè l'articolo del "Linchiesta" è ricco di contenuti ma impaginato in maniera pressoché illeggibile, ho ritenuto doveroso riprenderlo, e renderlo di più facile lettura.

 

Female Singer of the Year 2011

Cassandra Wilson
Dee Dee Bridgewater
Gretchen Parlato
Rebecca Martin
Roberta Gambarini

The Jazz Journalists Association initiated its awards honoring excellence in jazz music, recordings, presentation and journalism in 1997. At the 15th annual JJA Jazz Awards Awards gala on June 11, 2011, a star-studded coterie of musicians, journalists and music-world movers and shakers will assert again the unique status of these honors as
jazz's only independent, international, culture-and-community-wide celebration.

...certo che fa una certa impressione, vedere la nostra Roberta Gamnbarini associata a nomi XXL come quelli di Dee Dee Bridgewater e di Cassandra Wilson...

Esiste una cantante italiana di Jazz che in America è stata candidata due volte al Grammy nella categoria nazionale e ha vinto un vero tsunami di premi, collaborando col Gotha del Jazz Mondiale... L'ultimo in ordine di tempo l'ha avuto un paio di settimane fa ... infatti, per la terza volta, è stata candidata dal JJA (Jazz Journalists Association) come miglior cantante Jazz, dopo aver vinto l’anno scorso e nel 2006... ma questo, probabilmente, non ve lo dirà nessun telegiornale… Signore e signori, ecco a voi:

Roberta Gambarini

Roberta Gambarini é  l’unica musicista italiana ad essere stata candidata 2 volte al GRAMMY per un disco di JAZZ nella categoria americana e non internazionale. Un risultato incredibile, vista la naturale difficoltà che gli extraamericani hanno ad essere considerati in quella che, a tutti gli effetti, è la nazione che ha visto nascere il Jazz. Purtroppo, ma non mi sorprende, questa cosa da noi in Italia è passata completamente inosservata… come è andata?

Fu “Easy to Love” ad ottenere la mia prima Grammy Nomination come Best Jazz Vocal Album. Un risultato inaspettato per un disco "indipendente". L'anno dopo ho firmato un contratto di distribuzione con la Universal, ed ho pubblicato "You are there", il CD di duetti con il grande pianista Hank Jones. Come dicevo,questo CD ha avuto il premio Disco dell'Anno per la Accademia francese del Jazz. Nel 2007 e 2010 ho anche vinto il premio Jazz Female Singer of the Year indetto dalla Jazz Journalists Association a New York e anche quest’anno, mi hanno ricandidato ed ho vinto il referendum della rivista americana "Down Beat": come Rising Star.

Il mio piu' recente CD "So in Love" uscito nel 2009 ha ottenuto una Grammy nomination (la mia seconda!) come Best Jazz Vocal Album. Nel 2010 “So in love” ha anche vinto il premio come Vocal Album of the year quest'anno per la Accademia Francese del Jazz a Parigi.

Roberta, come hai iniziato?
Sono nata a Torino in una famiglia di appassionati di jazz. Mio papa' suonava il sax tenore ed il clarinetto in gioventù, ma non ha potuto proseguire a fare una vera e propria carriera per vari motivi fra cui le ovvie difficoltà finanziarie dell'epoca.

E' comunque rimasto un grande appassionato, avido ascoltatore di dischi e frequentatore insieme a mia mamma di concerti. I suoi sassofonisti preferiti sono Coleman Hawkins ma soprattutto Don Byas, famoso per la sua interpretazione di "Smoke gets in your eyes", fra le altre. I miei genitori mi chiamarono Roberta in riferimento al film americano omonimo, un film musicale con musiche di Jerome Kern ambientato in una casa di mode (mia mamma faceva la sarta in un atelier di moda).

Tra le canzoni del film c'erano famosissimi standards come "Yesterdays" ma soprattutto quella stessa "Smoke gets in your eyes" che oltre ad essere il cavallo di battaglia del sassofonista preferito da papà, era anche la "theme song" dei miei genitori... Ho iniziato a cantare da subito,appena iniziai a parlare, praticamente...

Come ti sei “formata” musicalmente?
Per tutta la mia infanzia mi divertii a cantare sopra i dischi di casa, che comprendevano dischi di Count Basie, Louis Armstrong, Duke Ellington ed Ella Fitzgerald. Le mie prime influenze musicali, in tenerissima età, furono appunto Louis Armstrong ed Ella Fitzgerald. Accortisi della mia predisposizione naturale per le lingue straniere (ne parlo 4 e canto in parecchie altre lingue compreso lo spagnolo e lo svedese), i miei genitori mi mandarono ad un corso di inglese per bambini, quando avevo 4 anni. Mi piacque talmente che continuai a studiare inglese per altri 10 anni. Ero ancora una bambina quindi quando, grazie allo studio dell'inglese, iniziai ad essere in grado di capire i testi delle canzoni, e questo costituì un elemento importantissimo del mio carattere musicale, perchè i testi ed il fatto di raccontare storie in musica, per così dire, hanno per me un'enorme importanza. Quindi iniziai ad appassionarmi ad un gran numero di altri cantanti della storia del jazz, soprattutto Billie Holiday, Carmen Mc Rae, Sarah Vaughan, Anita O' Day, Frank Sinatra, Joe Williams e Nat King Cole, per fare solo alcuni nomi.

Roy Hargrove Big Band featuring Roberta Gambarini "Every Time..." from doug yoel on Vimeo.

E gli studi “FORMALI”, ad esempio, il Conservatorio?
Studiai teoria musicale e clarinetto all'età di 12 anni, ma fu a 17 anni che ebbi le mie prime occasioni in musica. I miei genitori sono appassionati di jazz come ho già detto, e spesso mi portavano (da bambina) a sentire concerti. Così ebbi l'occasione di vedere Count Basie, Clark Terry, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e molti altri grandi dal vivo in teatro, ma anche in piccoli jazz clubs.
 

In particolare uno di questi jazz clubs, il Biella Jazz Club, era gestito da un gruppo di appassionati che i miei genitori frequentavano, e fu lì che ebbi le mie prime esibizioni.Il primo concerto che feci, ancora in my teens, prevedeva anche la partecipazione di Gianni Basso,uno dei veterani del jazz in Italia, un grandissimo strumentista sassofonista che purtroppo e' recentemente scomparso. Da li, ed appena finito il liceo, presi la decisione di trasferirmi a Milano e di inseguire il mio sogno, o quello che sentivo come una vera e propria, irresistibile "vocazione": diventare una cantante di jazz,e dedicarmi anima e corpo a questo tipo di musica.

Gli anni della mia prima giovinezza furono allo stesso tempo esaltanti e difficili, ma con enormi sforzi riuscii a ritagliarmi un piccolo spazio per crescere, al di la del fatto che all'epoca non c'erano scuole, né molte possibilità per imparare questo linguaggio.

Come hai aggirato queste difficoltà?
In realtà tutto quello che ho imparato l'ho grattato "con le unghie", ricavandolo dagli ascolti fatti e dai molti tentativi, ed imparando molto dagli errori compiuti. Ho studiato pianoforte e composizione classica, ma jazzisticamente sono sempre rimasta autodidatta. Quando stavo in Italia ho partecipato a progetti e ho cantato con molti nomi del jazz italiano, fra cui Renato Sellani, Franco Cerri ed Enrico Intra, ma sono sempre sostanzialmente rimasta un po' "on the fringe", pur avendo partecipato ad una edizione del programma televisivo "DOC" di Renzo Arbore e pur avendo inciso e fatto performances in Festivals come Umbria Jazz. Il mio cammino italiano,in poche parole, non e' stato dei piu' facili, e questo talvolta capita. Personalmente sentivo fortemente il desiderio di un contatto diretto, con i musicisti che hanno fatto la storia del jazz, perché ho sempre pensato che il modo migliore per imparare, nel jazz, é l'osmosi, cioé conoscere grandi artisti ed assorbirne i consigli, seguirne l'esempio il piu' possibile. Questo e' piu' facile stando negli USA, dove vi sono più occasioni non solo per assistere a concerti di questi musicisti, ma anche per parlare con loro, chiedere loro direzioni, assorbire i loro consigli.

Da lì quindi, il “grande salto” …
E' stato nel 1998 che il caso ha portato sul mio cammino alcune opportunità, presentatesi nella forma di un bando di concorso al New England Conservatory per un programma speciale che si chiamava the Artist Diploma. Previa selezione (i concorrenti arrivavano da tutto il mondo) la faculty del Conservatorio avrebbe scelto un artista da portare a Boston per partecipare a questo programma, che prevedeva lezioni private a scelta, la possibilità di insegnare in una classe di musica d'insieme, e l'inserimento come performer in stagioni concertistiche curate dal Conservatorio stesso. Vinsi il concorso e nell'Agosto 1998 mi trasferii a Boston.

Allo stesso tempo, mentre facevo le audizioni e le selezioni per l'Artist Diploma al New England Conservatory, notai un bando che pubblicizzava un altro concorso, il famosissimo Thelonious Monk International Competition,che quell'anno era dedicato ai cantanti. Così mandai un nastro alle selezioni, e venni scelta anche li. Il Thelonious Monk Competition
si svolgeva a Washington nell'arco di due giornate, semifinali e finali. Io venni scelta, e ai primi di Settembre 1998,
due settimane dopo essere sbarcata negli US per la prima volta in vita mia, partecipai alle semifinali del Thelonious Monk Competition. Qui erano riuniti tutti i nomi importanti del mondo del jazz mondiale: discografici, musicisti come Herbie Hancock, managers... ma proprio tutti. Una vetrina enorme.

Si trattava di esibirsi con una sezione ritmica che comprendeva anche Grady Tate, leggendario batterista, e Norman Simmons, il pianista che fu accompagnatore di Carmen Mc Rae, uno dei miei idoli vocali dei sempre... Io ero l'unica non-americana, e puoi immaginarti che shock culturale... non conoscevo assolutamente nessuno ed ero arrivata fresca fresca... Passai alle finali ed infine ebbi un risultato notevole considerando che ero l'unica outsider. Non vinsi, ma ebbi il terzo posto, che mi dette qualche sollievo e mi garantì un pochino di denaro per sopravvivere qualche mese in più (la borsa di studio al New England Conservatory, che avevo appena iniziato, non comprendeva spese di vitto e alloggio... trasferirsi in America fu un salto nel buio, letteralmente, senza soldi e senza conoscere nemmeno una persona... per darti un'idea della realtà che ho vissuto: pensa che avevo solo due paia di scarpe, e quando uno di queste mi si ruppe mi misi a piangere). Ma soprattutto, venni ascoltata e notata da molti, ed é da li che iniziarono ad arrivare le prime offerte di lavoro.

Quali furono I primi Grandi che hai incontrato e con cui hai direttamente collaborato?
Il mio primo concerto fu ad Harlem, allo Schonburg Center for Black Culture, con il sassofonista Jimmy Heath (famoso anche per aver suonato con Miles Davis). In seguito, per tutto il 1999, lavorai molto con il grande batterista Billy Higgins e con grandi come Harold Land, Ronnie Matthews, Curtis Fuller e Ron Carter. Fu così che, nel 1999, abbandonai Boston e la borsa di studio per trasferirmi a New York, che é la mia città oggi, e che amo moltissimo.

Ovviamente i primi tempi a New York furono non facili sul piano della sopravvivenza: avevo iniziato a fare concerti ma i miei cachets non mi permettevano ancora di sopravvivere, così lavorai per una casa editrice di jazz, la Second Floor Music, facendo trascrizioni di assoli e di brani jazz, un lavoro molto interessante che mi permise anche di approfondire moltissimo repertorio jazz, e che mi mise in contatto diretto con moltissimi musicisti, alcuni leggendari, fra cui Lucky Thompson e Idris Sulieman. Il direttore della casa editrice, anche musicista e produttore, mi ingaggiò inoltre per una serie di registrazioni effettuate nel famoso studio di registrazione di Rudy Van Gelder. Dagli uffici di questa casa editrice passavano musicisti famosissimi, e così conobbi molti grandi artisti e fui ascoltata diffusamente. All'inizio del 2000 ebbi la mia prima occasione per partecipare ad un Festival, grazie a Lionel Hampton.

Stavo facendo un concerto in un piccolo locale downtown New York, la Jazz Gallery, con una sezione ritmica che comprendeva musicisti grandissimi: il batterista Jimmy Cobb famoso per aver suonato con Miles Davis, il bassista Walter Booker che fu il bassista di Sarah Vaughan, ed il pianista Ronnie Matthews. Avevo appena iniziato quando vidi entrare, spinto su una sedia a rotelle ma inequivocabilmente riconoscibile, Lionel Hampton! Immagina l'emozione... Non dimentichero' mai quella sera.

Roberta ma come è stato possibile? New York è piena zeppa di Clubs..
Era successo attraverso la cosidetta "word of mouth". Lionel aveva visitato il direttore della casa editrice jazz per cui facevo trascrizioni, e lì aveva ascoltato il mio materiale, ma io non lo sapevo. Hampton era venuto a sapere della mia "gig" ed aveva deciso di venire a sentire... alla fine del concerto Lionel mi disse che desiderava che io partecipassi al Festival che portava il suo nome da lui fondato molti anni prima nella cittadina di Moscow in Idaho. Si trattava di un Festival molto particolare: una serie di solisti si sarebbe esibita con una sezione ritmica unica, la cosiddetta "house rhythm section".

I solisti nel corso degli anni avevano compreso Sarah Vaughan, Carmen Mc Rae, Clark Terry, insomma tutti i più grandi, e la sezione ritmica era formata da Hank Jones, il leggendario pianista che fu accompagnatore di Ella Fitzgerald, e poi da John Clayton e Jeff Hamilton. Fu così che l'anno dopo, febbraio 2001, partecipai al Lionel Hampton Jazz Festival e cantai con Hank Jones.

Hank divenne una figura chiave nella mia vita musicale, perche' da li' inizio' un percorso che mi portò a suonare molte volte con lui (North Sea Jazz Festival con Niels Henning Orsted Pedersen e Alvin Queen, molti concerti in duo in Festivals fra cui Tanglewood, JVC New York, Carnegie Hall a NY, Savannah ed in molti altri clubs da Seattle a Boston,
una tournée europea di sei settimane che toccò i principali Festival europei), culminando con una registrazione in duo uscita nel 2007 dal titolo "You are there" che vinse il premio Disco di Jazz Vocale dell'anno dell'Accademia francese del Jazz.

Dunque,dal 2000 in poi iniziai ad avere ingaggi internazionali e ad andare in tournee per il mondo, e gli anni immediatamente successivi furono caratterizzati da una serie di incontri per me fondamentali, sia artisticamente che umanamente. Il primo fu con Benny Carter, leggendario direttore di orchestra e compositore, un vero cosmopolita del jazz. Benny fu il primo musicista afroamericano ad emigrare in Europa e ad avere un grosso successo in Francia negli anni 30. Torno' poi in America dove fu un sostenitore della lotta per i diritti umani (desegregò l'unione musicisti, fino allora separata in bianchi e neri)... insomma, un genio ma anche una persona eccezionale sul piano umano. Il mio manager, fece avere a Benny un mio nastro, e da li' Benny mi onorò della sua amicizia. Fu il mio mentore, e mi consigliò su tutto, dal repertorio a come muoversi nel business. Passai molti pomeriggi ospite di Benny e della sua fantastica moglie Hilma, a Los Angeles. Benny Carter organizzò il mio primo concerto a Los Angeles, al Catalina's Jazz Club, con il bassista George Mraz, il pianista Eric Gunnison,ed il batterista Joe La Barbera.

Benny Carter è considerato uno dei più importanti arrangiatori per orchestra della Storia del Jazz,
già dagli anni 30...
Mi considero non solo fortunata ma "blessed" per avere avuto il sostegno di un artista così grande e di un essere umano così speciale. La sua morte nel 2005 fu un brutto colpo per me, ma Benny ha vissuto una vita meravigliosa come desiderava lui... Al suo memorial concert cantai un brano a lui dedicato con orchestra diretta da Quincy Jones, che era un amico e discepolo di Benny Carter.

So che c’è un altro “gigante” che ha accompagnato una parte successiva della tua carriera…

Ti riferisci di certo a un altro importantissimo artista, fondamentale nel mio sviluppo sia musicale che umano: James Moody. Moody è il leggendario sassofonista che collaborò con Dizzy Gillespie per moltissimi anni. Conobbi Moody nel 2002 a Capetown in Sudafrica, dove ero stata invitata a cantare con la Concertgebouw Big Band di Amsterdam e l’armonicista e chitarrista belga Toots Thielemans. Conoscevo i dischi di Moody dalla più tenera età perché Moody é anche uno dei grandi dello "scat", l'arte di improvvisare senza parole. Moody é uno dei miei idoli da sempre! Quel giorno a Capetown sapevo che Moody avrebbe suonato nello stesso Festival un'ora dopo la fine del mio concerto, e così pensavo di precipitarmi ad ascoltarlo... ma appena scesi dal palco mi accorsi che Moody, il quale aveva ascoltato il mio concerto, era li' ad aspettarmi con un grande sorriso ed un abbraccio... da li' nacque un'amicizia che ha costituito una delle più grandi gioie della mia vita. Moody consigliò a Slide Hampton, il famoso trombonista e arrangiatore, di assumermi come cantante per la Dizzy Gillespie All Stars Big Band, che é l'orchestra che contiene i musicisti che suonarono con Dizzy, da Jimmy Heath a Randy Brecker e molti altri. Con questa orchestra ho girato il mondo (Thailandia, Canada, Europa, America, Giappone, eccetera) ed ho registrato due dischi: "Dizzy's business" ed il piu' recente "I'm beboppin' too".

Roberta e James Moody

Moody e' stato il mio maestro ed amico, mi ha insegnato tantissime cose. Sul piano umano poi, la sua amicizia ed affetto sono stati importantissimi per me, mi considero proprio fortunata. Lui e sua moglie Linda sono i miei "genitori americani"...

Purtroppo Moody ci ha lasciati ai primi di Dicembre del 2010.
Mi é difficile spiegare a parole il sentimento di dolore per la sua perdita, ma allo stesso tempo sento che la sua presenza, in quanto pura energia, amore e forza vitale - non verra' mai meno. So che questo sentimento profondo è condiviso da tutti coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo.

Moody fu mentore e propulsore della tua carriera e da lì in poi hai avuto una catena ininterrotta di successi…
Dal 2000 in poi ,dunque,ho viaggiato molto e ho cantato in molti Festivals, teatri e clubs, fra cui Carnegie Hall e Town Hall a New York, Monterey Jazz Festival, Montreal e Toronto Jazz Festivals, Blue Note Club a New York, Orchestra Hall a Chicago, Philarmonie a Colonia, Tonhalle a Zurigo, Victoria Hall a Ginevra, Blue Note Tokyo e così via. Ho cantato a Singapore, Sapporo, Rio de Janeiro, San Paolo, Stoccolma, Helsinki,insomma... ho girato un bel pò.

Ho cantato con Michael Brecker, Herbie Hancock, John Patitucci, George Mraz, Milgrew Miller, Jimmy Cobb, Cyrus Chestnut, Frank Wess, Joe Wilder, Jake Hanna, Pete Candoli, Roy Hargrove, Kenny Barron, Johnny Griffin, Jimmy Woode.

Il mio primo CD da leader, "Easy to love", e' uscito nel 2006 per l'etichetta indipendente Groovin' High. Questo CD mi dette molte soddisfazioni. Appena uscito vinse il premio indetto dalla rivista di jazz giapponese Swing Journal, che mi mise in luce sulla scena discografica internazionale.

Nel tuo sito di FB compaiono le foto che testimoniano il tuo percorso umano ed artistico... inaspettatamente vi figura anche Clint Eastwood.. come mai?
Oh si.. scaturisce da un'altra collaborazione che vorrei raccontarti, quella con Dave Brubeck, musicista che adoro. Dave mi ha chiamata ad interpretare la protagonista femminile nella sua "opera jazz" dal titolo Cannery Row, ispirata ad un romanzo di John Steinbeck.

Il ruolo maschile era cantato da Kurt Elling. L'opera è stata rappresentata con grande successo al Festival di Monterey nel 2006, ed e' stata filmata da Bruce Rickert e Clint Eastwood, amico del jazz da sempre (sì, conosco Clint... è un uomo gentilissimo ed intelligente e suona anche il piano molto bene!). Non credo sia ancora uscito un DVD dell'opera, spero che esca perche' e' una musica molto bella.

Inoltre, Dave mi ha chiamata in due altre occasioni, la prima ad esibirmi con il suo quartetto al Dave Brubeck Festival che si svolge a Stockton, California, alla University of Pacific. Lì ho fatto un concerto dedicato al Dave Brubeck Songbook. Poi, nel 2009, ho avuto l'onore di essere stata chiamata da Dave a registrare un brano con il suo quartetto che sarà compreso nella nuova compilation, "Walt Disney in Jazz"... Il brano é "Alice in Wonderland", e se ne vede uno spezzone nella presentazione video di "So in Love".

Nei video che sono disponibili sul web, spicca “La Puerta”, che disvela un tuo grande rapporto con la musica latino americana…
 

Infatti, altre collaborazioni musicali che ho molto amato, sono state in occasione dei miei viaggi a Cuba, dove ho suonato ad Havana,Teatro Nacional e Casa de la Cultura con il grande pianista Chucho Valdez. Ho anche fatto un concerto a New York in duo con Chucho,con un repertorio che comprendeva brani della tradizione cubana, cantati in spagnolo. Ho anche lavorato molto con il grande clarinettista cubano Paquito D'Rivera.

E nel jazz “puro” di oggi con chi ti accompagni più volentieri?

Sicuramente con Roy Hargrove e la sua Big Band, con la quale ho fatto molti tours ed ho inciso un CD nel 2009
dal titolo Emergence, per la Groovin High/Universal. Attualmente mi divido fra il mio quartetto ( che comprende Eric Gunnison o Cyrus Chestnut al piano, Neil Swainson al basso (è stato il bassista di George Shearing per 20 anni) ed il batterista Willie Jones 3rd), la Dizzy Gillespie Allstars Big Band e molte altre collaborazioni occasionali come quella recentissima con la Metropole Orchestra condotta da Vince Mendoza… mi piace comunque lavorare coi musicisti più vari possibile, e per esempio recentemente ho cantato al nuovo club Birdland ad Helsinki con la UMO Jazz Orchestra, un'eccellente big band finlandese. Ho anche lavorato con big bands della radio tedesca quali NDR e HDR Big Band.
Insomma,questo spiega perche' sono sempre in giro come una trottola...!

Che progetti hai per il futuro?

Un nuovo disco con una grande orchestra, ed una collaborazione con un grandissimo arrangiatore.... ma non posso dire di più... il progetto é nella fase iniziale. Intendo anche dedicarmi alla scrittura, e portare in tournee un repertorio rinnovato che vede la presenza di brani musicali tratti da diversi generi, oltre al mio amato Grande Songbook Americano, ovviamente. Il tutto per rispecchiare e raccontare la varietà di incontri e di paesaggi che ho avuto la fortuna di vivere.

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Questo l'articolo, datato, de "Linchiesta". E' lungo, ma è meno lungo della storia, che forse un giorno potrei decidere di raccogliere in un "bignamino", di Roberta Gambarini... Ad esempio, in questo articolo manca forse il più grande achievement della carriera di Roberta Gambarini in terra americana. In aprile il centenario della nascita di Ella Fitzgerald è stato celebrato con un gala e uno splendido concerto al Lincoln Center di NY, il cui direttore artistico è Winton Marsalis. Ebbene, a celebrare Ella Fitzgerald hanno chiamato un mito americano (Kenny Washington), e lei, la piccola torinese, figlia di un operaio e di una sartina... Lei, e non un mito del "Made in USA". Lei, di cui Hank Jones - il pianista d'elezione di Ella Fitzgerald per anni - (che di voci femminili nel jazz si intende), scriveva: "...la migliore voce jazzistica femminile emersa negli ultimi 50 anni..."

The Jazz at Lincoln Center Orchestra celebrates the centennial of Ella Fitzgerald, a vocalist whose legacy and influence define a classic era of jazz singing. Through diverse repertoire arranged by the Jazz at Lincoln Center Orchestra, tonight's guest vocalists will demonstrate why the "First Lady of Song" remains a case study in succinct phrasing and uncompromising musicality. Joining the Orchestra for this special occasion are two celebrated veteran vocalists: Kenny Washington and Roberta Gambarini [...] Roberta Gambarini – a similarly tasteful yet boldly original artist – was described by NEA Jazz Master Hank Jones as "the best new jazz singer to come along in 50 years".

Le due notti della "celebration" di Ella Fitzgerald le ho passate al pc, per "rubare" i video trasmessi in streaming dal Lincoln Center. Roberta non me ne vorrà se uso una piccola parte della "refurtiva" per mostrarvi un piccolo saggio di uno dei più bei concerti jazz dell'anno... Ne è passata di acqua sotto i ponti, dal tempo in cui Roberta piangeva se si rompeva uno delle sue due paia di scarpe...

Almost like being in love