Comprereste un'auto usata da costoro?
Il governo Renzi raccontava di aver ridotto le uscite dello Stato di 25 miliardi di euro, solo che poi ometteva di averle aumentate dello stesso importo sotto una diversa voce.
“Non è un’affermazione inesatta ma è altamente ingannevole, nel senso i capitoli che sono stati ridotti, se si mettono insieme, lo sono stati per circa 25 miliardi: però ce ne sono stati altri che sono stati aumentati in maniera equivalente: quindi, al netto, la spesa pubblica non è diminuita”
Questa è l’affermazione al Corriere della Sera dell’ex commissario alla Spending Review Roberto Perotti che tre anni fa ha gettato la spugna dopo aver ammesso di essersi sentito “poco utile”.
Detta chiaramente, il famoso taglio della spesa pubblica dichiarato da Padoan è il solito bluff, parte imprescindibile dello storytelling politico, proprio come il taglio delle tasse: nessuno dei due è mai esistito e del resto il continuo aumento del debito pubblico lo certifica in maniera inesorabile, stanti anche i bassi tassi di interesse che oggi paghiamo grazie al quantitative easing voluto da Draghi.
Eppure per il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan tra il 2014 e il 2016 “abbiamo tagliato talmente tanto che è difficile andare oltre”: insomma a sentire quelli che stanno nelle stanze dei bottoni pare che i risparmi siano tanti e tali da garantire al Paese un futuro prospero, al punto che nel confronto a SkyTg24 con Michele Emiliano e Andrea Orlando per le primarie del Pd, Matteo Renzi ha dichiarato guerra al Fiscal Compact, che imporrebbe ai Paesi Ue di convergere verso il pareggio di bilancio.
In altri termini secondo Renzi la spesa pubblica potrebbe tornare a crescere e che i conti pubblici non sono un problema del nostro Paese: sono corsi e ricorsi della storia italiana, dove la politica anziché aggredire l’enorme spesa pubblica – a cominciare da quella improduttiva – preferisce far crescere le tasse in maniera silenziosa.
Hai voglia a discutere relativamente al fiscal compact: come più volte affermato dai referenti economici europei la ratio della limitazione del deficit si basa non tanto sugli investimenti ma principalmente sulle spese improduttive, tipo i famosi 80 euro o i 500 euro “per cultura” che Striscia la notizia ha dimostrato funzionare (a Napoli ma anche nel resto d’Italia) solo come un sistema per spartire fra diciottenni furbetti e librerie disoneste la regalia autoattribuita da Renzi, come al solito sotto elezioni (nello specifico poco prima del referendum…).
E’ scritto nero su bianco nei numeri certificati da Eurostat: dal 1995 al 2015 la spesa complessiva, compresa di interessi passivi sul debito pubblico, è aumentata da 510 a 827 miliardi di euro. Le tasse, dirette e indirette, sono cresciute da 258 a 493 miliardi.
Cioè 317 miliardi di costi e 235 miliardi di tasse in più: anche la celeberrima casalinga di Voghera non avrebbe particolari difficoltà a capire che continuando così si mette male, ma evidentemente la stessa casalinga deve avere competenze economiche migliori del nostro ministro Padoan...
Considerate che negli ultimi 20 anni le tasse sono calate solo in tre occasioni: nel 2008 e nel 2009 con il governo Berlusconi (19 miliardi in meno di due anni) e nel 2013 con il governo Letta (4 miliardi in meno rispetto al 2012).
Tre anni di isolate eccezioni, perché la freccia delle imposte è sempre rivolta verso l’alto, come quella della spesa pubblica che è calata appena due volte: nel 2010 con il governo Berlusconi e nel 2013 con il governo Letta.
A fare impressione è l’assoluta incapacità di chi si è succeduto dal 1995 a oggi di trarre beneficio dal calo degli interessi sul debito pubblico per finanziare misure espansive: nel 1995 la spesa per interessi era pari a 109 miliardi di euro, nel 2000 grazie all’avvento dell’euro che ha tenuto sotto controllo i tassi d’interesse è crollata a 75 miliardi di euro: da allora è rimasta stabile con un picco di 83 miliardi nel 2012, mentre lo scorso anno è calata al minimo storico di 66 miliardi di euro grazie al QE.
Sono 43 miliardi di minori spese all’anno grazie alla moneta unica: un tesoretto che sarebbe stato più che sufficiente ad abbattere in maniera sensibile il cuneo fiscale, tagliando il costo del lavoro, rilanciando l’occupazione e i consumi. Invece, sono stati soldi ancora una volta sprecati.
Nello stesso periodo la spesa primaria, quella al netto degli interessi per intenderci, è cresciuta da 401 a 760 miliardi di euro e secondo la Ragioneria generale dello Stato arriverà a quota 793 miliardi nel 2019. immaginate quando la Bce smetterà di comprare titoli di Stato italiani come potrà salire il costo del debito...
Per tagliare – o quanto meno migliorare – la spesa pubblica serve una forte volontà politica che ad oggi non c’è mai stata.
Ma da sola potrebbe non bastare: nel 2008, la Commissione tecnica per la finanza pubblica ha provato a spiegare le difficoltà d’intervento con “un’organizzazione periferica dello Stato spesso troppo frammentata” che rende difficile persino capire quali sono le voci di spesa da aggredire, inoltre “la cultura della valutazione nella pubblica amministrazione appare ancora poco diffusa: manca generalmente—e appare comunque priva di effetti sui responsabili amministrativi—la valutazione ex post.”
Basta guardare alla differenza tra i tagli promessi e quelli adottati per il 2016, una delle “novità” strombazzate da Renzi e mai rispettata: i ministeri avrebbero dovuto subire una sforbiciata da 3-4 miliardi di euro, ma i tagli si sono fermati a 1,7 a cui si sono aggiunti altri 460 milioni di euro nella manovra di primavera.
Il risparmio sui costi standard, invece, non arriva a 2 miliardi, mentre il piano Cottarelli (di fatto lasciato solo nel deserto e la cui manovra è entrata da un orecchio ed uscita dall’altro a tutti i politici) solo per il 2016 ne prevedeva 7,2 miliardi.
Piero Giarda aveva individuato 100 miliardi di “spesa aggredibile nel breve periodo”, ma fu subito sostituito da Enrico Bondi: l’ex commissario presenta un piano da 4,2 miliardi di risparmi immediati destinati a salire a 10 l’anno seguente, ma lascia l’incarico a inizio 2013 per dedicarsi al partito di Mario Monti.
Dopo le elezioni Enrico Letta chiama al capezzale Cottarelli che vuol chiudere 2 mila partecipate, accorpare i centri di spesa, tagliare sanità, pensioni, province, corpi di polizia, fondi per le imprese e auto blu.
Ovviamente non se ne fa nulla, o quasi: dopo Letta arriva Renzi e Cottarelli torna immediatamente a Washington.
E il debito continua allegramente a salire senza che si veda alcun effetto positivo sull’economia che invece continua a languire: pochi giorni fa qualcuno ha avuto il coraggio di affermare che un incremento di PIL dell’1,2% è un “successo Italiano”.
Peccato che il valore complessivo del PIL (che include, lo ricordiamo, anche circa il 20% di “sommerso”, o di “nero” che dir si voglia) sia ad oggi inferiore a quello del 2003.
In altri termini in Italia, al netto dell’inflazione media (vera) del 2% annuo ci troviamo con un PIL inferiore del 35%, come chiunque dotato di un minimo di cervello può verificare ogni giorno sulla sua pelle.
In soldoni abbiamo perso TUTTI circa un terzo del nostro potere di acquisto: aspettiamo ancora un po’ o continuiamo a credere alla favoletta che questa politica fatta da grandi eminenze grigie ci potrà salvare ?”
Axel
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