Recensione del film "The Dead. Gente di Dublino" (di Angela Laugier)
Regia: John Huston
Principali interpreti: Anjelica Huston, Donal McCann, Dan O’Herlihy, Marie Kean, Donal Donnelly, Sean McClory, Bairbre Dowling, Brendan Dillon, Redmond Gleeson, Helena Carroll, Cathleen Delany, Ingrid Craigie, Rachel Dowling, Maria McDermottroe, Kate O’Toole, Maria Hayden, Lyda Anderson, Cohn Meany, Cormac O’Herlihy, Paul Grant, Frank Patterson, Colm Meaney – 82 min. – USA 1987
Questo è l’ultimo magnifico film, poco noto, di John Huston, che il grande regista aveva terminato pochi mesi prima di morire, quando la sua salute, gravemente compromessa, lo aveva costretto a dirigere muovendosi esclusivamente sulla sedia a rotelle.
L’intera pellicola è connotata dalla profonda fedeltà all’ultimo racconto, The dead, dei quindici che compongono Gente di Dublino di James Joyce, nonostante qualche piccola modifica e l’aggiunta, voluta da Tony Huston (figlio del regista, nonché sceneggiatore del film), di un personaggio importante, ovvero Mister Grace (Sean McClory), invitato, fra gli altri, a casa delle sorelle Morkan, dove, secondo una tradizione consolidata, si celebrava con l’Epifania la conclusione del periodo natalizio.
Una festa a Dublino – 1904 – Nell’abitazione di Kate e Julia Morkan (rispettivamente Helena Carroll e Cathleen Delany) fervevano dunque i preparativi per l’organizzazione della serata, mentre, ricevuti dalla giovane Lily, la figlia del portinaio, che si arrabattava fra la cucina e il portone, gli ospiti arrivano alla spicciolata, accrescendo le ansie delle anziane sorelle, desiderose di vedere arrivare, insieme alla moglie Gretta (Anjelica Huston), il nipote Gabriel Conroy (Donal McCann), affermato giornalista, su cui le padrone di casa contavano per la perfetta riuscita della festa. Come in passato, da lui tutti attendevano il discorso di rito, ma le due anziane donne confidavano soprattutto nelle sue capacità di mediazione e nel suo prestigio indiscusso, per comporre le tensioni che quell’anno si preannunciavano particolarmente acute e che sarebbero infatti emerse di lì a poco.
La lettura recitata di Mister Grace, preludio delle tensioni della serata. Le aveva, involontariamente, innescate l’impegnativa lettura recitata di Mister Grace, che sembrava aver smosso, all’improvviso, la patina di ipocrisia che avvolgeva da troppo tempo la buona società dublinese: immobile, incapace di progettare un futuro e senza slanci. La lettura in inglese di un bellissimo passo, Promesse tradite, dal poema gaelico (XVIII secolo) Donal Og, sembrava aver restituito freschezza al rito ripetitivo: Molly Ivors, giovane nazionalista rivoluzionaria, subito dopo, forse non per caso, aveva attaccato astiosamente e platealmente durante il ballo il comportamento anglofilo di Conroy, nel quale, per altro, largamente si riconoscevano molti altri invitati, tutti accomunati dalla pigra omologazione ai modelli culturali dominanti, del tutto estranei alla più semplice e genuina tradizione irlandese.
Si può dire che quel passo del vecchio poema, grazie alla lettura commossa di Mister Grace, avesse colpito in diverso modo ciascun ospite, mettendone in luce aspirazioni, contraddizioni, e rimpianti: le anziane sorelle, un po’ imbarazzate, ne coglievano insieme alla bellezza, l’inquietante forza metaforica; il famoso e vanesio tenore dichiarava che ne avrebbe scritto una bella canzone; le giovani allieve di miss Mary Jane, la graziosa pianista, esprimevano entusiasmo e languore romantico di fronte a un racconto d’amore così coinvolgente, mentre Gretta seguiva, con doloroso sgomento, il racconto delle illusioni perdute, dei sogni vani, delle promesse mancate, cercando di evitare lo sguardo di Gabriel, evidentemente preoccupato.
Suo marito temeva altro, però: temeva in primo luogo di non riuscire a contenere le intemperanze dell’amico Freddy Malins, stravagante e anticonformista giovanotto, alcolista impenitente, che egli avrebbe voluto sottrarre al “cattivo esempio” del vecchio Browne (Dan O’Herlihy), libero pensatore agnostico che si sarebbe fatto beffe delle diverse confessioni religiose professate dai presenti; Gabriel era, inoltre, particolarmente turbato per l’inatteso e aggressivo comportamento di miss Ivors, e per aver coscienza, per la prima volta, che avrebbe potuto fallire l’intento unitario del suo discorso, il cui importante obiettivo era di conciliare in un grande abbraccio le tradizioni e la modernità, nonché la diversità delle vedute che si sarebbe manifestata anche durante la cena.
Una svolta era nell’aria: quella lettura ne prefigurava lo sviluppo e il drammatico finale.
L’ultima parte del film - Le novità attese con inquietudine, si preparavano tuttavia con la giusta gradualità: tutti, in qualche modo, durante la cena, avevano manifestato apertamente se stessi, con gli sguardi, con le parole, col canto evocativo dei cari ricordi: una vera Epifania, la rivelazione del proprio più profondo sentire. In realtà, né Gabriel, né Gretta avevano manifestato alcunché: lui inquieto, ma troppo impegnato a fare bella figura; lei, solo parzialmente turbata, ma da vera signora pronta a darsi un contegno rintuzzando prontamente le ragioni del recente turbamento alla lettura di mister Grace. Al momento del commiato, un canto dolcissimo però l’avrebbe trattenuta sulla soglia di quella casa: era arrivato, anche per lei, l’indifferibile momento della verità.
Ora doveva fare i conti con i ricordi più cari, mai condivisi con Gabriel, a cui non era sfuggito, però, il suo smarrimento disperato. Ora le chiedeva, con crescente rispetto e inusitata dolcezza, a sua volta davvero smarrito, qualche spiegazione.
Si era inserito inaspettatamente fra loro il ricordo di un altro uomo, un ragazzo di soli diciassette anni, che lavorava all’azienda del gas: Michael Furey. Gretta lo aveva frequentato da giovane, quando ancora viveva a Galway, prima di partire per Dublino per completare gli studi. Era un giovane malato, ed era morto per aver sfidato il maltempo pur di vederla prima della sua partenza. Era morto per lei, dunque, cantandole quella dolcissima nenia che poco prima l’aveva trattenuta commossa sulla soglia di casa Morkan.
Per entrambi, dunque, il drammatico momento dell’epifania, per lui l’amarissima rivelazione della insignificanza della propria vita, neppure confortata dal ricordo di un amore così profondo come quello che aveva spinto il giovane Michael Fury a morire per Gretta da giovane. Insensata ora gli sembrava tutta la sua vita, nonché l’effimero successo mondano, che mascherava l’aridità triste del suo cuore, la sua indifferenza e, soprattutto, la mancanza di compassione, che ora per la prima volta sentiva davvero per sua moglie. Presto, anche per lui, sarebbe scesa la notte, che, come la neve su Dublino, avrebbe ricoperto ogni traccia dell’inutile fatica del vivere, ogni traccia di dolore.
Nel racconto le parole* del narratore sembrano alludere alla morte del protagonista; nel film queste identiche parole sono pronunciate dallo stesso Gabriel e sottolineano, nella forma del flusso di coscienza, l’avvenuta rivelazione del (non)senso della vita, profondamente ribadendo, con le immagini scure delle scene del film, la fedeltà al testo letterario e al suo autore.
Il film fu presentato a Venezia nel 1987, ma il regista non aveva potuto vederlo: era morto il 28 agosto di quello stesso anno. Questa recensione vuole, molto modestamente, ricordarlo, trent’anni dopo.
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*queste ultime, indimenticabili parole del racconto di Joyce, concludono anche il film:
”Cadeva in ogni parte della buia pianura centrale, sulle nude colline, cadeva lievemente sulla torbiera di Allen e, più a ovest, sulle scure e tumultuose acque dello Shannon. E cadeva, anche, su ogni punto del solitario cimitero sulla collina dove Michael Furey giaceva sepolto. S’ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima svaniva lentamente nel sonno mentre ascoltava la neve cadere lievemente sull’universo e lievemente cadere, come scendesse la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti”.
Angela Laugier
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