(di Bruno Manfellotto - l'Espresso)
Lui dice che è stato il Grand Tour di quest'estate a rincuorarlo dopo la poco felice prova amministrativa di giugno. E a cambiarlo. È possibile Anche perché, per la prima volta, Matteo Renzi ha battuto paesi e città dal Veneto alla Sicilia, ascoltato fan, sopportato critiche, firmato copie del suo "Avanti", best seller ricco di sogni, vendette e voglia di rivincita. E magari ha capito che era necessario fermarsi a riflettere, smussare spigolosità, cambiare atteggiamento
Insomma, davvero il teorico della rottamazione ha inaugurato quella che Federico Geremicca ha chiamato sulla "Stampa" la «fase zen»? Indaghiamo. Senza pregiudizi, certo, ma con quel tanto
di necessario scetticismo.
Segnali che facciano pensare a una vera svolta si vedono, e pure numerosi. Renzi, per esempio, comincia a pronunciare anche dei "sì" dopo aver teorizzato l'autosufficienza del "no"; la parola "disponibilità" è finalmente entrata nel suo vocabolario; i toni si sono ammorbiditi, a volte non pare manco lui. Da un po' ascolta Dario Franceschini, vero azionista di riferimento del Pd, con il quale la convivenza non è sempre stata idilliaca: infatti non ha osteggiato, anzi, la proposta di legge elettorale lanciata da Ettore Rosato (il Rosatellum); di conseguenza, ha mollato la strategia dell'uomo solo allo scontro e accettato la prospettiva di coalizioni, che quella legge premierebbe, addirittura guardando a sinistra del Pd; con Giuliano Pisapia, in effetti, si intravede un abbozzo di dialogo e con lui ha discusso pure di primarie di coalizione. In quanto a Gentiloni e ai suoi ministri l'atteggiamento non è più aspro
come all'inizio.
Anche con i sindacati è cambiata l'aria, o almeno così pare: non siamo ancora al dialogo, ma i toni accesi di una volta non si sentono più. Ricordate? Tre anni fa le obiezioni della Cgil alla manovra d'autunno venivano bollate così: «Questa è la nostra manovra, se avete considerazioni da fare, vi ascoltiamo; se vi viene più comodo mandateci una mail, ma è ora di finirla di pensare che si alza uno e blocca gli altri». Susanna Camusso replicava con un secco «Renzi è espressione dei poteri forti». Amen.
E ancora. A guidare la commissione parlamentare d'inchiesta sui crac bancari (anche sulla cara Banca Etruria), da lui stesso sollecitata, Renzi non ha designato un suo fedelissimo, ma ha accettato l'inossidabile Pier Ferdinando Casini, morbida garanzia di pacatezza delle indagini.
Pare che abbia ceduto anche sulla riconferma di Ignazio Visco, il governatore della Banca d'Italia contro il quale per settimane aveva fatto fuoco e fiamme deciso a sostituirlo. E a proposito di poteri (quasi) forti, spicca la sua recente incursione in divisa da tennis al Circolo Canottieri Aniene, tempio romano del generone e della nomenklatura edile e professionale. Un altro Renzi. Duttile e accomodante. Dicono.
Eppure solo poche settimane fa Matteo era Matteo. In una riunione di direzione del Pd, ai primi di luglio, reduce dalle trionfali primarie di aprile che lo avevano confermato leader del partito, Renzi aveva accusato Andrea Orlando di tifare per Pisapia e non per il Pd, insomma di tradimento, e Franceschini di scorrettezza e slealtà solo perché aveva detto la sua in un'intervista e non nelle sedi deputate. Subito dopo, però, la gioiosa macchina da guerra dell'opposizione interna si era messa in moto processando l'isolamento del capo, ripescando
sogni di Ulivo e martellando perché accettasse l'idea di allearsi con altri: «Quale che sia il sistema elettorale, vincere è già difficile per una coalizione, figuriamoci per un partito da solo», premeva Franceschini, direttamente o indirettamente coadiuvato da nuovi e vecchi attori del centrosinistra allargato: Prodi, Letta, Grasso, Boldrini, Pisapia…
E dunque? È probabile che alla fine Renzi si sia solo piegato a un bagno di realismo. I sondaggi - non li consulta solo Berlusconi - gli dicono che il Pd da solo non vincerà mai, e che la strada della coalizione è la sola praticabile: di qui le aperture a Pisapia; e basta il buon senso, oltre alla storia della Prima Repubblica proporzionale e non maggioritaria, per sapere che in caso di alleanze le sue possibilità di tornare a fare il premier dopo il voto di marzo sarebbero quasi inesistenti. E certo peserebbero divisioni, veti, egoismi: allora, «fase zen». La tregua con la Cgil potrebbe invece essere figlia della più consumata delle tattiche politico-elettorali: se Di Maio attacca il sindacato, lui lo difende; e così il rapporto di buon vicinato con il governo: Marco Minniti lo copre su un versante (sicurezza, immigrazione); Graziano Delrio su quello opposto (ius soli). Intanto Paolo Gentiloni governa senza scossoni sostenuto da Sergio Mattarella, che certo non vorrebbe vedere la Banca d'Italia terremotata da una guerra di successione…
Insomma, sembrerebbe solo che l'ex Rottamatore si sia adattato alle mutate circostanze politiche. E già questo sarebbe un "cambio di passo", anche se nel fondo lui fosse rimasto quello che è sempre stato. A metà luglio, presentando il suo libro a Roma, per un attimo Renzi era scivolato
sul personale confessandosi: «Il mio carattere è un problema enorme». E dal pubblico qualcuno aveva gridato: «Appunto, Matte', cambialo». Fatto? Prima o poi lo sapremo.
Bruno Manfellotto
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