Recensione del film "L’AMORE SECONDO ISABELLA"(di Angela Laugier)
Regia: Claire Denis
Titolo originale: Un beau soleil intérieur
Principali interpreti: Juliette Binoche, Xavier Beauvois, Philippe Katerine, Josiane Balasko, Sandrine Dumas, Nicolas Duvauchelle, Alex Descas, Laurent Grévill, Bruno Podalydès, Paul Blain, Valeria Bruni Tedeschi, Gérard Depardieu, Claire Tran – 94 min. – Francia 2017.
“l’angoisse d’amour: elle est la crainte d’un deuil qui a déjà eu lieu, dès l’origine de l’amour, dès le moment où j’ai été ravi. Faudrait que quelqu’un puisse me dire : « Ne soyez plus angoissé, vous l’avez déjà perdu(e) » (Roland Barthes – Fragments d’un discours amoureux – Agony – Edition du Seuil – Paris 1977 -pag. 38)
Come far durare l’amore, quello vero, nella sua più pura essenza è ciò che si chiede tormentosamente Isabelle (Juliette Binoche), bella donna di mezza età, nonché madre di una bambina di dieci anni (al momento del film, custodita dal suo ex marito). Pittrice affermata, Isabelle si realizza solo in parte nel suo lavoro creativo, che pure è proiezione di sé: frequenta l’ambiente dei critici e delle mostre, si muove tra intellettuali che l’ammirano e la corteggiano, ma di loro non sopporta lo snobismo supponente, lontanissimo dalla sua istintiva sensualità. Alla sua non verdissima età, mostra senza falsi pudori il proprio corpo ancora desiderabile con innocente carnalità: generose le sue scollature e ridottissime le sue minigonne; le piace danzare (anche da sola); le piace il buon cibo e, naturalmente, le piace l’amore. È in attesa di incontrare l’uomo che le si conceda senza riserve, senza retro-pensieri, capace di abbandonarsi con dolce smemoratezza, come lei. La sua vita amorosa, come comprendiamo già all’inizio del film, è un disastro, perché la passione e il desiderio si trasformano presto in un crudele gioco di potere ai suoi danni. Dal banchiere attempato (Xavier Beauvois), al giovane attore (Nicolas Duvauchelle), all’ex marito (Laurent Grévill), a Marc (Alex Descas), tutti si difendono da lei e dall’amore: hanno moglie, non vogliono soffrire, si negano, devono partire, non la coinvolgono nei loro progetti, si pentono di ciò che è stato… L’ attesa delle decisioni che non arrivano è una condizione di angoscia continua per lei, aggravata dalla percezione della propria solitudine senza scampo: se un incontro “giusto” sembra prospettarsi, ci penseranno i suoi amici intellettuali a metterla in guardia, a instillarle dubbi, a provocare la crisi. Si affiderà, infine, a un veggente (Gérard Depardieu), in un finale aperto di sorprendente ambiguità; ambivalenza e ambiguità connotano, del resto, l’intero film, oltre a tutti i suoi personaggi.
La regista, infatti, sembra aver costruito la sua ultima pellicola sul dicotomico oscillare fra la gioia e il dolore nel sentimento amoroso, contraddittorio in sé, nodo aggrovigliato di pulsioni ed emozioni, tanto ineffabile da rendere impossibile ogni comunicazione verbale. In uno dei film più parlati della Dénis, le parole degli amanti mostrano non solo la loro inadeguatezza, ma la loro equivoca interpretabilità, quando non la brutalità di un linguaggio adatto solo a definire il possesso, il ricatto e il denaro. La frammentarietà del film ne è un riflesso, ed è frutto di un montaggio volutamente spezzato, che presenta brandelli di storie nel loro farsi, o nel loro prevedibile concludersi, finché, nell’ultima e lunga scena, del tutto inaspettatamente, compare nei panni di un mago un po’ cialtrone e un po’ turbato un inedito e grande Depardieu.
Ispirato dichiaratamente ai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, lettura amatissima dalla regista, capace di coinvolgerla fino alle lacrime*, Claire Dénis ha sceneggiato questo film insieme a Christine Angot, scrittrice di alcuni romanzi di contrastato successo e anche con l’attiva collaborazione di Juliette Binoche. Un lavoro a sei mani, la cui riuscita a me, ma non a tutti, è sembrata poco discutibile. Un film non facile, ma da vedere.
(“c’est un livre […] qu’en le lisant je pleurais […] je comprenais exactement ce qui c’est l’agonie amoureuse […] ce n’est pas quelque chose dont on meurt, c’est un goût de son corp, de son âme…) Intervista concessa a Jean Sébastien Chauvin e a Jean Philippe Tessé a Parigi il 29 giugno 2017 e pubblicata sul numero 736 dei Cahiers du Cinéma del settembre 2017 (pagg. 34-36).
Chi è interessato può trovare QUI fra i documenti di questo blog un frammento dello spettacolo ispirato a Roland Barthes, dal titolo: “Nodi di un discorso amoroso” – scritto e recitato da Massimo Zordan e Marcello Verona, messo in scena dal Teatro dell’Elefante, Cagliari, 25 Aprile 2008 –
Chi avrebbe mai immaginato che una testata così bella e importante finisse all’asta? Chi avrebbe mai immaginato che quel nome così forte – l’Unità – che per molti è stata un simbolo di lotta e di riscatto, un nome da esibire in faccia ai prepotenti, da difendere dagli attacchi, da far circolare durante la clandestinità sotto il fascismo o da mostrare durante le manifestazioni facesse questa fine? Eppure è accaduto. E’ accaduto anche questo nella triste e tragica dismissione della lunga storia della sinistra, che prosegue incessantemente.
I fatti sono questi: il giudice di Roma ha deciso di avviare le procedure di messa all’asta della testata per garantire i crediti dei lavoratori finiti in mezzo a una strada dopo la chiusura del giornale nel giugno del 2017. La società editrice del giornale, che fa capo al costruttore Pessina, si è rifiutata di liquidare ai giornalisti e ai poligrafici licenziati le loro spettanze e a nulla sono valse né le pressioni né le ingiunzioni di pagamento. A quel punto i dipendenti dell’Unità hanno chiesto a garanzia il pignoramento della testata, che è stato accordato a dicembre scorso. Mercoledì il giudice ha dato mandato a un perito di valutare il valore della testata per poter procedere all’asta.
Ma i tempi sono strettissimi: poco più di un mese. Perché a giugno (quando sarà trascorso un anno dallo stop alle pubblicazioni) decadrà, in base alla legge sulla stampa, l’efficacia della testata e chiunque potrà registrare una testata chiamata l’Unità. Resta invece, inspiegabilmente, a disposizione dell’editore l’archivio storico on line: un patrimonio nazionale immenso che comprende la storia del quotidiano dal 12 febbraio 1924 fino alla chiusura. Siamo davvero all’assurdo.
Sarebbe (ma forse già è) un epilogo vergognoso e inaccettabile per un giornale che ha segnato la storia del Partito comunista, della sinistra e quella dell’Italia. Che è stato in prima fila nella Resistenza contro il fascismo e poi nelle battaglie democratiche e sociali e che ha contribuito alla crescita politica e civile di tanta parte del nostro Paese. Ma non è un epilogo capitato per caso, come fosse un incidente, e senza responsabili.
Certo, il declino non nasce oggi e nemmeno nasce tre anni fa. Sulla pelle del giornale si sono giocate tante partite personali negli ultimi quindici anni che hanno condizionato il suo futuro e quello dei suoi lavoratori. L’ultima in ordine di tempo l’ha giocata Matteo Renzi, dalla chiusura del 2014 in poi. Quando il giornale, per il quale c’erano altre offerte più serie (quella di Matteo Arpe, per esempio), è stato messo prima nelle mani dell’imprenditore Veneziani, editore di gossip che prometteva di “dare la fidanzata di Berlusconi nuda in prima pagina” e poi, a causa delle sue disavventure giudiziarie, in quelle di Pessina. Tutte e due rispondevano alla stessa logica: scegliere un editore non editore che garantisse la totale dipendenza dell’Unità da Renzi. Per questo motivo Arpe era stato liquidato, nonostante la sua proposta avesse una maggiore forza editoriale: perché era considerato meno “affidabile” politicamente e perché tra le condizioni che aveva posto c’erano l’autonomia e l’indipendenza del quotidiano e il suo ancoraggio alla tradizione storica della sinistra.
Questa scelta ha segnato il destino dell’Unità tornata in edicola nel giugno del 2015 con un direttore “fedelissimo” come Erasmo D’Angelis. Il quale ha confezionato un giornale a immagine e somiglianza di Renzi portandolo al minimo storico delle vendite (qualche migliaio di copie, cosa mai accaduta nemmeno durante il fascismo) e di conseguenza – dopo due anni, e dopo una breve e contraddittoria parentesi con Sergio Staino alla guida – alla chiusura definitiva, a cui è seguito l’oscuramento dell’archivio on line per il quale si sono sprecati gli appelli.
Se siamo qui oggi a lanciare di nuovo l’allarme sulla brutta fine di un grande giornale e sul fatto che la sua testata venga messa all’asta, molto dipende da queste scelte compiute contro ogni logica editoriale ma per esclusivo interesse personale. Ma ormai è forse anche inutile ricordare e recriminare. Purtroppo non serve più a molto.
Per evitare che l’Unità – una testata che fu la potente invenzione di Antonio Gramsci nel 1924 per un giornale “che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale” – finisca nelle mani del primo che passa forse servirebbe uno scatto d’orgoglio di questa sinistra smarrita e dei suoi leader. E servirebbe una mobilitazione che almeno riuscisse a ridare una piccola speranza di futuro a una storia che non può finire con un battito di martelletto di una qualsiasi asta pubblica. C’è qualcuno là fuori?
Pietro Spataro
(credits; ringrazio l'amica Enrica Asti che mi ha segnalato questo "necrologio", e mi prendo la libertà di pubblicare il commento col quale ha accompagnato questa segnalazione. Commento di cui condivido anche la punteggiatura:
"Sono d'accordo con Spataro sulle responsabilità precedenti all'arrivo di Renzi e anche sulla presenza di dirigenti democristiani che rispettavano l'Unità. Erano però una minoranza, illuminata ma piccola minoranza. Quando ero una ragazzina e diffondevo l'Unità nel mio rione, i democristiani erano soliti insultarci come "servi dell'URSS, incassatori dell'oro di Mosca" e tante altre amenità. Quello che più mi offendeva era questo insulto: "vi fanno il lavaggio del cervello prima di mandarvi in giro". Mi difendevo come meglio potevo ma riuscivano a umiliarmi. Dopo tanti anni invece mi sono divertita moltissimo leggendo il giornale alla spiaggia: sdraio in prima fila in uno stabilimento balneare dove non mancavano certo gli anticomunisti.
Mi passavano davanti con la faccia da punto interrogativo. Si vedeva bene quello che pensavano: "una signora che sembrava così per bene", "hai visto quella demente cosa sta leggendo?", "accidenti, e io che ieri le ho affidato i bambini". Scusate questa lunga parentesi, ma ogni tanto mi prende una nostalgia canaglia del mio giornale
Sono anche convinta che Renzi non facesse parte di quei democristiani "illuminati" che apprezzavano l'Unità. Ma quello che mi ha fatto soffrire di più, e sono sicura che in tantissimi sono stati male in quel periodo, sono stati i momenti delle ultime trasformazioni del giornale. Il periodo per esempio in cui Rondolino era sempre pronto a genuflettersi al capo e ad insultare in modo pesantemente volgare persone stimabili come Cuperlo, per citarne solo uno. Sicuramente me ne farò una ragione, ma è uno dei rospi più grandi che abbia mai ingoiato"
Certo, il Molise è la regione più piccola d'Italia. Certo, sono solo poche centinaia di migliaia di elettori. Ma i membri del club "#almenoconrenzisivince nutrivano la segreta speranza che la dimostrazione, ormai durata un mese e mezzo, del cazzarismo dei vincitori del 4 marzo, avrebbe portato ad una inversione di tendenza rispetto alla catastrofe delle elezioni nazionali. Niente di tutto questo, il che significa che votando Lega o M5S o per La Mummia, gli italiani non si aspettavano un miracolo, ma solo una totale sepoltura del Bischero di Frignano. E dato che gli apologeti del renzismo erano già pronti a raccogliere il trionfo del "pentimento degli italiani", ed il loro ritorno - col capo cosparso di cenere - ai fasti del renzismo stesso, mi corre l'obbligo di disilluderli.
Nonostante il raffazzonato pressappochismo dei partiti populisti, gli italiani (anche i molisani lo sono) hanno dato un'altra mattonata in faccia al PdR. I dati emersi in Molise sono non solo catastrofici rispetto alle regionali del 2013, ma lo sono (ed è la cosa più grave) persino rispetto ai dati del 4 marzo nel resto d'Italia. L'avevamo affermato per anni, ad ogni insuccesso - crescente - del serial @almenoconrenzisivince: la ormai difficilissima ricostruzione di un elettorato di sinistra può partire solo dalla rottamazione del rottamatore e dei suoi seguaci. Di TUTTI i suoi seguaci. Sarà un percorso lungo e difficile, perchè Renzi non ha rottamato la "vecchia politica", ma l'ha sublimata, rottamando le speranze di uno stato sociale che è passato per la distruzione dei diritti elementari dei lavoratori, per #labuonascuola che ha regalato alla destra un elettorato tradizionalmente di sinistra, per l'abbattimento delle poche, e non elevatissime certezze dei pensionati, per il posizionamento dell'Italia al penultimo posto in Europa (menomalechelagreciac'è) per crescita, occupazione, disoccupazione, PIL, debito pubblico, occupazione femminile, occupazione giovanile.
Mi spiace, Renzi, ma del tuo personale Aventino con borsone da tennis di dimensioni top-ten, non è fregato niente a nessuno; nessuno si è inginocchiato per chiederti "deh! ritorna a governarci!"... Il Molise ti ha dato - qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, il colpo di karaté alla nuca.
Addio, ragazzo... E abbi cura del rovescio, ma anche e soprattutto del "diritto".
Tafanus
MOLISE 2013
Centro-sinistra prima coalizione col 44,7%, PDal 14,83%
Recensione del film "La casa sul mare"(di Angela Laugier)
Titolo originale: La villa
Regia: Robert Guédiguian
Principali interpreti: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Jacques Boudet, Anaïs Demoustier, Robinson Stévenin, Yann Trégouët, Geneviève Mnich, Fred Ulysse – 107 min. – Francia 2017.
Questo, che è un film bellissimo, di uno dei più grandi registi d’oltralpe viventi, è stato presentato lo scorso autunno a Venezia, dove non ha ottenuto alcun premio. No comment! Cercherò di analizzarlo, individuandone, senza troppo spoiler, i temi principali.
Armand, suo padre e i suoi fratelli - Dopo il malore, la vita del vecchio padre sembrava essersi bloccata in un limbo senza memoria e senza progetti nel quale, da un momento all’altro, egli aveva smarrito la coscienza, la parola, la mobilità e ogni autonomia: tutto era cambiato all’improvviso per lui e per Armand (Gérard Meylan), l’unico dei tre figli che gli era stato vicino sempre, nella bella casa in fondo alla calanque de Méjean, l’incantevole baia prossima a Marsiglia, che infatti si vedeva in lontananza, nelle limpide giornate invernali, quasi alla distanza di sicurezza sufficiente a impedire che la pace e la serenità del luogo, sovrastato dal viadotto dell’alta velocità, ne venissero disturbate. Méjean che non era mai stata fuori dal mondo, adesso era fortunatamente fuori dal caos convulso della vita di tutti.
Armand, che era vedovo da poco, aveva deciso di non abbandonare il suo vecchio in un istituto e di non tradirne la storia: intendeva portare avanti da solo il bel ristorante sotto casa (ideato, un tempo, per offrire ottima cucina di pesce a prezzi popolari), resistendo alle pressioni e alle proposte vantaggiose di acquisto che gli erano arrivate. Egli non poteva e soprattutto non voleva staccarsi da quell’ambiente e da quella memoria di solidarietà, né dai ricordi legati alla fede, limpida e generosa – forse un po’ utopica – nel comunismo prossimo venturo, che aveva ispirato tutta la vita del padre e dei suoi compagni di lotta, i pescatori del villaggio che in quel locale avevano trovato buon cibo, buon vino, prezzi bassi e un po’ di vita sociale.
Gli era necessario, però, incontrarsi con i suoi fratelli per definire, prima di ogni altra cosa, la sua quota di eredità paterna. Era già lì da qualche giorno Joseph (Jean-Pierre Darroussin), intellettuale comunista in crisi permanente, che, con un passato da operaio, era arrivato a insegnare all’università. Con lui, una giovane fidanzata, Berangère (Anaïs Demoustier), sua ex allieva, confusa e annoiata dai discorsi nostalgici sui vecchi tempi di Armand e di Joseph, il quale condivideva la tenacia quasi ingenua di Armand nel difendere l’antica diversità che lo legava al padre.
Stava arrivando, intanto, da Parigi, Angèle (Ariane Ascaride), che a Méjean non si era più vista da vent’anni, intenzionata a ripartire per Parigi al più presto. Per lei, che era stata una brava attrice teatrale e che ora lavorava nelle serie televisive, Méjean era legata al grande dolore per la morte della sua bimba di sette anni, la cui accidentalità non aveva mai voluto ammettere, convinta com’era della pesante responsabilità di suo padre.
Méjean e i suoi abitanti - Se, come ho detto, Marsiglia era abbastanza lontana, il mondo, al contrario, si era fatto sempre più vicino al villaggio: la globalizzazione e la rapidità delle connessioni, ben più dell’alta velocità, avevano favorito il diffondersi di un nuovo modo di pensare e di organizzare i rapporti umani; il pensiero unico stava appiattendo le culture e mostrava, senza pietà, l’anacronismo delle posizioni ideali di Armand e di Joseph, nobili ma velleitarie e destinate, forse, ad altre durissime sconfitte. La loro nostalgia del passato era un po’ patetica poiché si scontrava innanzitutto con la realtà indiscutibile del ridursi progressivo degli abitanti di Méjean: la crisi economica aveva portato lontano qualcuno di loro, o i loro figli; i pochi rimasti erano invecchiati, qualcuno era morto, qualcuno avrebbe preferito morire per non vedere la decadenza del proprio corpo e l’umiliazione della povertà. Era vivo però un giovane pescatore che di lì non si era mai mosso, in attesa di rivedere Angèle, che da bambino, molti anni prima, aveva ammirato mentre recitava in un teatro di Marsiglia: aveva studiato, aveva fondato una compagnia filodrammatica locale e, ostinatamente, aveva continuato a vivere di pesca, pensando a Claudel e a Brecht: prima o poi, quell’unica donna della sua vita sarebbe pur tornata e forse addirittura avrebbe apprezzato la sua lunga fedeltà!
In realtà il villaggio, con le sue case vuote o semi-vuote era al centro dell’attenzione di speculatori edilizi, pronti a farne un’attrazione per il turismo distratto dei nostri giorni; una sosta al ristorante, un selfie veloce, forse persino un breve soggiorno, poche ore o un paio di giorni, senza badare al prezzo: il trionfo dell’individualismo, l’orrore alle porte, la fine di ogni umana solidarietà, il tramonto dei sogni nobili e generosi del passato!
Nuovi arrivi a Méjean - Sarebbe invece, a sorpresa, venuto presto il momento di riprendere in mano le vecchie e logore bandiere rosse: magari non sarebbero servite alla rivoluzione, ma avrebbero indicato una strada percorribile e avrebbero ridato senso alla vita dei tre fratelli che sentivano di averlo smarrito; allo stesso modo sarebbero tornati utili gli abiti e i giocattoli della figlia di Angèle, rimasti per vent’anni nella sua stanzetta, perché Angèle non li aveva voluti portare con sé.
Nel porticciolo era naufragata rovinosamente un’imbarcazione col suo carico di clandestini nordafricani: molti morti erano stati ritrovati, ma qualche bambino si era salvato sicuramente: per questo la Gendarmerie aveva chiesto in giro notizie, e, anche nel ristorante, Armand e i suoi fratelli erano stati allertati… Quei piccini, ripuliti, sfamati e rivestiti, però, non erano diversi dagli altri bambini e potevano, anzi, dovevano essere aiutati a superare, nel calore dell’accoglienza, le loro paure e a elaborare, col tempo, i loro lutti!
Con sobrietà pudica, senza retorica, senza insistere nel racconto particolareggiato del dolore, senza prediche inutili, scorre davanti agli occhi degli spettatori la grande tragedia dei nostri giorni, ben simboleggiata dall’immagine straziante delle due manine intrecciate che non vogliono separarsi, e che nessuno dovrà separare in futuro, se davvero si vuole la fine dell’odio irrazionale e della paura insensata che sta avvelenando e distruggendo il nostro vecchio continente.
Un film molto bello, malinconico, ma non triste, aperto, con molte cautele, alla speranza, come non sempre accade nei film di Guédiguian, interpretato dalla squadra dei suoi meravigliosi attori fra i quali, come sempre, si distingue la grandissima Arianne Ascaride. Dello stesso regista, avevo recensito anni fa La Ville est tranquille e Le nevi del Kilimangiaro.
Questo post ha lo scopo di dare il mio contributo alla celebrazione dei trent'anni di vita della più grande istituzione al mondo per la promozione del jazz. La video-clip trasmessa da JALC fornisce le cifre - davvero impressionanti, di cosa sia passato dal Lincoln Center in trent'anni di vita, dalla posa della prima pietra ad oggi. Dai vari teatri di questo centro sono passati tutti i più grandi jazzisti, ma anche i giovanissimi allievi dell'annessa scuola di jazz, che ha accolto gratuitamente, in trent'anni, migliaia di ragazze e ragazzi desiderosi di avvicinarsi al jazz, ma privi delle risorse necessarie per frequentare i più famosi conservatori specializzati, come la celeberrima Berkelee School of Music.
Molte stelle del JALC di oggi, sono gli squattrinati ragazzini di trenta, venti, dieci anni fa. E i docenti (che insegnano in questa scuola a titolo gratuito) sono gli stessi grandi professionisti di cui godiamo, gratis, più volte a settimana, in streaming ad alta definizione. Un grazie di cuore a tutti loro dagli appassionati italiani di jazz, e un grazie speciale a Winton Marsalis, fondatore e anima di questa preziosa istituzione.
All'indirizzo web riportato in calce trovate la programmazione del JALC. Cliccando su un evento, si apre la finestra coi dettagli dell'evento stesso, e una piccola, discreta finestrella che invita (non impone): "Donate". Non c'è nessun obbligo, e non ci sono limiti inferiori. Ogni tanto uso quella finestrella, ma quello che dono è sempre una parte infinitesimale di ciò che ricevo. Tutti gli amanti del jazz dovrebbero farlo.
In chiusura, pubblico parte di un concerto tenuto qualche giorno fa da giovanissime speranze allevate da questa istituzione a costo zero. Impressionanti le qualità di questa gioventù, che rappresenta il futuro del jazz, e la garanzia della sua sopravvivenza ai nostri tempi. Facciamo sì che insieme al mantra "non ci sono più le mezze stagioni", domani non saremo costretti a declamare che "non c'è più il jazz di una volta".
Pochi giorni fa, al Lincoln Center di NY, si è tenuto un bellissimo concerto (che pubblicherò su youtube in versione integrale), col giovane mattatore 76enne Chick Corea star della serata. Colpiscono, di questo grandissimo pianista, la freschezza, la semplicità, l'agilità pianistica (di cui approfitta con moderazione), la grande creatività improvvisativa (di cui per fortuna approfitta pienamente), e quell'aria da adolescente sempre pronto a guardare con sincera ammirazione gli altri musicisti. Nessuna spocchia. Non si sente nemmeno un "priumus inter pares", pur avendo vinto più Grammy Award lui di quanti palloni d'oro non abbiano vinto, sommati, tutti i giocatori spagnoli e brasiliani...
Dell'intero concerto, linko in questo post solo l'ultimo brano, quello di chiusura (il "full concert" lo metterò su youtube in forma privata, il che significa che non sarà in elenco, e che solo coloro che mi chiederanno espressamente il link potranno averlo da me via email ed ascoltarlo; il tutto per evitare i fulmini della violazione eventuale dei diritti d'autore).
Il brano linkato in calce è un famosissimo pezzo del repertorio di Thelonius Monk (Rythm-a-ning), e la sua esecuzione è stata preceduta, accompagnata e seguita da episodi assolutamente imperdibili, che ne fanno un pezzo che passerà alla storia.
Ma andiamo con ordine: l'esecuzione del brano è stata preceduta da un simpaticissimo e modestissimo Chick che racconta (in inglese, per cui chi non ha familiarità con la lingua potrà saltare i primi due minuti del video) di quando lui, all'inizio degli anni settanta, si ritrova in uno studio di registrazione, e scopre che in quello studio, nella sala accanto, sta registrando il suo mito: Thelonius Monk... "...non ci crederete, ma ho passato due/tre settimane non ad occuparmi della mia registrazione, ma incollato allo spiraglio di una tenda, a spiare ogni nota, ogni movimento, ogni sospiro di Thelonius [...] Ho scoperto che laddove noi comuni mortali, per scrivere un brano, scrivevamo righe e righe di pentagramma, lui creava ed eseguiva - magari con una mano sola - due/tre battute di un tema, e questo tema era spesso talmente geniale, nella sua semplicità, da consentire al quartetto di partire da quel tema, da quel giro armonico, e girarci intorno per dieci minuti..."
Secondo episodio: ovviamente per questo concerto, con stella cometa Chick Corea, il pianista ufficiale del JALC (Jazz at the Lincoln Center) era seduto non al piano, ma "accanto". Il pianista non è un borsista: è Dan Nimmer, un grande dei giorni nostri, pianista stabile del JALC, nonchè affermatissimo concertista con un suo trio e un suo quintetto. E per il pezzo-principe di tutto il concerto, Chick chiama Dan a suonare questo pezzo a quattro mani insieme a lui, dividendosi (una natica ciascuno) il munuscolo sedile del pianoforte. Si è visto di tutto. Improvvisazioni a quattro mani, a tratti si scambiano il lato sinistro e destro, per brevi tratti resta uno solo dei due pianisti... Un miracolo di improvvisazione che sembra qualcosa di lungamente pensato e provato. Non lo è. E' solo (solo???) un indimenticabile happening.
Infine, l'episodio a me più gradito: per un fantastico assolo di sax alto, arriva accanto al piano una delle mie musiciste preferite: Alexa Tarantino (giovane, bella, brava, simpatica, sempre pronta al sorriso, e gentilissima). Ad un mio messaggio, col quale le chiedo conferma se il suo "family-name" abbia qualcosa a che fare con l'Italia, Alexa risponde in un paio d'ore, ringraziandomi (...e dde chè?...) e scrivendomi che "...yes Antonio, my family comes from an italian town, called Taranto...". Alexa non è una qualsiasi. E' una che si è diplomata solo tre anni fa in uno dei maggiori conservatori americani per jazzisti. E' entrata giovanissima nell'orchestra del JALC (creata e diretta nientemeno che da Winton Marsalis), e ci ha messo poco al passare dalla "fila" agli assoli. Pur essendo il suo strumento preferito il sax alto, non disdegna esibizioni al sax baritono (quello più grande di lei), al sax contralto, al clarinetto, al flauto traverso. Fra un po', se aggiungerà qualcosa d'altro, dovrà arrivare al Lincoln con un camioncino...
La non ancora trentenne Alexa ha già un suo quintetto (il "LSAT", che sta per "Lauren Sevian & Alexa Tarantino" che sta spopolando), ma in questo momento sta suonando ad un metro da una leggenda del jazz come Chick Corea... Nessun problema, nessuna incertezza. Chick l'ascolta, la guarda, sorride con incredula ammirazione... Lei suona come non mai, senza la minima esitazione...
Ebbene si. Questo è il jazz: un "esperanto" senza confini e con regole solo "di cornice", per cui è abitudine diffusissima in tutti i jazz-club del mondo che grandi e piccoli jazzisti si ritrovino "after-hours", spesso senza essersi mai incontrati prima, per iniziare delle jam-sessions che mostrano il lato più vero e bello di questo fantastico genere musicale.
P.S.: Il 16 luglio Chick Corea sarà in concerto col suo trio a due passi da Milano: a Villa Arconati di Bollate. Ovviamente è un concerto che non potrò perdermi.
Recensione del film "Un sogno chiamato Florida(di Angela Laugier)
Titolo originale: The Florida Project
Regia: Sean Baker
Principali interpreti: Willem Dafoe, Brooklynn Prince, Bria Vinaite, Valeria Cotto, Christopher Rivera, Caleb Landry Jones, Macon Blair, Karren Karagulian, Sandy Kane, Cecilia Quinan – 115 min. – USA 2017.
Il trailer italiano è insopportabile: gli urli e gli strepiti dei bambini, protagonisti del film, ti indurrebbero a scappare velocemente, altro che compiacerti e ridere per le loro prodezze da teppistelli! Nonostante il trailer, è stato il passaparola a indurmi a vedere questo film che, anche senza essere un capolavoro, merita tuttavia di essere visto e meditato poiché affronta, senza ipocrisie, il tema del duro vivere quotidiano alla periferia di uno dei luoghi consacrati al turismo di massa negli USA: Disneyland, preannunciato dai terribili colori pastello dei residence che sorgono nelle immediate vicinanze, e anche dalle forme kitsch degli edifici commerciali. In quegli edifici rosa o lilla, così dipinti per propiziare i sogni dei visitatori con pochi soldi, che non possono permettersi qualche notte in un albergo decente, in realtà vengono accolte, per lo più, donne con prole, senza lavoro e senza futuro, disposte a trasferirsi, con le loro poche cose, da una monocamera a quella adiacente, secondo le necessità dell’amministrazione degli stabili. Queste donne vivono di assistenza (alcuni volontari periodicamente portano cibo e bevande), ma anche di piccoli furti, di espedienti e di prostituzione, in modo da rimediare, comunque, i soldi dell’affitto che devono puntualmente pagare. Di questa condizione profondamente degradata, i bambini sono vittime incolpevoli: non vanno a scuola (è estate, ma, a quanto si comprende, non tutti ci vanno anche quando non sono in vacanza); per lo più si annoiano e si inventano modi più o meno divertenti di passare il tempo, del tutto indifferenti ai divieti, ai tabù e ai richiami della “proprietà”, che ha affidato a un top manager, ovvero a Bobby (Willem Dafoe) la gestione quotidiana dei residence. Bobby è davvero grande per l’intelligente umanità con la quale interviene per prevenire i problemi, riportandoli, prima che diventino irrisolvibili, alle loro giuste dimensioni, ma certo non può fare miracoli! Quando la miseria è davvero profonda e la sofferenza, spaventosamente enorme, è quella dei bambini abbandonati a se stessi e privi di riferimenti positivi, riesce difficilissimo, anche con le migliori intenzioni, inventare soluzioni, soprattutto in assenza di una rete di solidarietà intelligente, fatta di ascolto e collaborazione piuttosto che di condanna morale e di repressione poliziesca, fonte di ulteriore dolore e di fallimenti pressoché certi. Meravigliose le interpretazioni dei bambini; particolarmente notevole quella della piccola Brooklynn Prince, nei panni dell’infelicissima e terribile Moonee, la figlia di Halley (Bria Vinaite), la giovane madre incosciente, drogata e irrimediabilmente perduta, le cui vicende sono emblematiche di un fallimento senza sconti e senza vie d’uscita, ovvero della fine dell’American Dream. Va da sé che Willem Dafoe si confermi anche in questo piccolo film quel grandissimo attore che conosciamo
Girato con un Iphone e con pochissimi mezzi, il film non risulta scritto in modo molto accurato, eppure ha una sua forza coinvolgente che lo rende più interessante di quanto il titolo e il trailer italiano lascino supporre.
Tenete a mente questa sigla: LSAT sta per Lauren Sevian (sax baritono) e Alexa Tarantino (sax alto). Queste due stupende jazziste hanno creato da poco un loro quintetto, che sta già ricevendo encomi a non finire dalla stampa specializzata. Non conoscevo, fino a qualche mese fa, Lauren Sevian, mentre conosco da anni la giovanissima, simpatica Alexa Tarantino, che ho ascoltato spesso nei concerti trasmessi in streaming dal Lincoln Center di New York.
Alexa alterna il suo lavoro di membro della grande orchestra del Lincoln Center (creata e diretta da Winton Marsalis), a concerti col "LSAT Quintet", e con un suo quartetto; si divide fra i concerti e le sale di registrazione, il lavoro di docente in High Schools di jazz. La seguo da tempo, e l'ho già ascoltata alle prese con quattro strumenti diversi. Il suo strumento d'elezione è il sax alto (quello che suona in questo pezzo), ma in certe serate l'ho vista arrivare in sala con un "carico" di quattro strumenti: sax alto, contralto e baritono, e flauto traverso. Non è solo una stupenda interprete del jazz "main-stream", ma è anche un personaggio umano molto positivo. Bella nonostante il suo "strabismo di Venere", sempre pronta al sorriso, e ad un cenno di approvazione nei confronti dei suoi colleghi, ma senza timore di nessuno. L'altra sera al Lincoln Center si è prodotta in un assolo a fianco di un mito del jazz come Chick Corea, senza il minimo timore riverenziale, e con Chick che sorrideva stupito e divertito. Appena possibile, pubblicherò il video di quella esibizione, che contiene un'altra grande sorpresa per gli appassionati.
La mia simpatia per questa fantastica esecutrice è cresciuta a dismisura da quando ho scoperto che appena ha un momento di tempo libero corre ad insegnare, gratis, ai ragazzi meno abbienti che frequentano la benemerita scuola di jazz (gratuita) organizzata dal Lincoln Center.
A distanza di 12 anni dalla famosa "notte della democrazia", resuscita un nostro lettore che interviene solo quando c'è da difendere il berlusconismo. Vogliamo tranquillizzare questo lettore, affinchè possa dormire sonni tranquilli. A "sospettare" in quella strana notte del 2006 non è solo il tafanus brutto, sporco e cattivo, ma fior di esperti in statistica, sistemi elettorali, calcolo delle probabilità, e persino un giornaletto come "Repubblica", un giornalistucolo come Enrico Deaglio, e il compianto giornalista d'inchiesta Beppe Cremagnani. Pubblico l'articolo di Repubblica del 23/11/2006, così magari il Signor Bigoni si convince che non ero poi tanto solo a nutrirmi di "cultura del sospetto". Insieme a me, c'erano schiere di altri cretini. Per fortuna controbilanciate dall'intelligenza (unica) di Antonio Bigoni. Tafanus
Domani in edicola "Uccidete la democrazia" il film del giornalista (Dvd con "Diario) che ipotizza quello che potrebbe essere successo alle politiche dell'11 aprile scorso. La notte delle schede bianche scomparse. Un "programmino" sposta le schede non votate a Forza Italia? L'ira di Berlusconi, lo "stop" di Pisanu e una "Gola Profonda" racconta. (Da Repubblica.it del 23/11/2006)
ROMA - Caccia a Bianca, la scheda scomparsa. Come in un thriller, con il rischio di scoprire che le elezioni del 10-11 aprile 2006 sono state truccate e manipolate forse con un programmino elettronico inserito nel sistema del Viminale e, poi, fatto sparire senza lasciare traccia. Con il rischio di abbattere anche uno dei pochi tabù rimasti in questo paese: la sacralità del voto. Eppure, Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani, giornalisti di lungo corso, con la mano preziosa del regista Ruben H. Oliva, hanno provato a compiere a ritroso il percorso di quel voto: di quel lunedì 11 aprile quando i risultati partirono in un modo,cambiarono durante lo scrutinio con un ritmo graficamente incredibile e finirono, in una notte da tregenda, per sancire la risicatissima vittoria del centrosinistra.
Il frutto del lavoro dei tre è un film che s'intitola "Uccidete la democrazia", il settimanale "Diario" di Deaglio ne distribuirà il Dvd venerdì nelle edicole. L'operazione rischia di far scoppiare un notevole terremoto politico: già ieri sono partite richieste per una commissione d'inchiesta mentre il centrodestra affila le armi e minaccia querele. Ieri sera, alla proiezione organizzata al "Capranichetta" (due passi da Montecitorio) dall'associazione "Articolo 21" di Beppe Giulietti e Federico Orlando, c'era tanta gente e almeno una quindicina di parlamentari del centrosinistra compreso il portavoce di Prodi, Silvio Sircana. Il film pone una questione tanto chiara quanto drammatica: le ultime elezioni politiche dovevano essere truccate trasformando le schede bianche in altrettanti voti a Forza Italia (gli unici due dati "sbagliati" dai sondaggisti), ma l'operazione venne fermata all'ultimo momento perchè, probabilmente, lo stesso ministro degli Interni, Beppe Pisanu, se ne rese conto e la bloccò.
La "rimonta truccata" del centrodestra, dunque si sarebbe arenata a poche decine di migliaia di voti dal sorpasso, col risultato e le conseguenze politiche che tutti conosciamo. Ma Deaglio e i suoi vanno oltre e, grazie a una "Gola profonda" (magistralmente interpretata da Elio De Capitani, il "Caimano" di Nanni Moretti) raccontano anche quello che accadde nella notte: con i tre "viaggi" di Pisanu a palazzo Grazioli, l'ira di Berlusconi, e il tentativo di far annullare le elezioni rifiutato da Ciampi. Sullo sfondo l'incredibile andamento del voto, l'angoscia e la confusione del centrosinistra che dura fino al momento in cui Marco Minniti (deputato Ds) arriva "trafelato" e agitatissimo al Viminale e, poi si placa quando riceve una telefonata. Una telefonata nella quale qualcuno potrebbe avergli fatto sapere che il giochetto era stato scoperto e che Pisanu aveva deciso di intervenire.Solo allora, Piero Fassino, con aria quasi mesta e occhi spaventati annuncia a una piazza sull'orlo della disperazione, che il centrosinistra ha vinto le elezioni " con venticinquemila voti" di differenza.
Qui, il film lascia aperta una domanda: perché il centrosinistra - se aveva scoperto o, quantomeno capito l'imbroglio - non ha reagito e denunciato? perché si lasciato strappare dal Cavaliere anche questa arma? Una risposta, secondo gli autori, potrebbe stare nel timore dell'Unione di rovesciare il tavolo di finire per dare una mano a screditare tutto, a "uccidere davvero la democrazia".
Sullo sfondo si muovono altri personaggi. A partire dall'informatico americano Clinton Curtis che preparò un programmino che altri, a sua insaputa, usarono per truccare le elezioni in Florida nel 2001. Curtis, che oggi si batte per il "voto pulito", mostra e dimostra come, con l'elettronica, ormai, l'elettore conta davvero poco. Il potere ce l'ha chi i voti li conta e può manipolarli nel mondo virtuale dei sistemi informatici, perché la carta delle schede sulla quale il cittadino segna o non segna (scheda bianca) il suo voto, finisce chissà dove. I risultati ufficiali sono costruiti con l'elettronica e con l'elettronica si può fare tutto. Compreso prendere i voti di una città come Roma e modificarli nel trasferimento dalla Prefettura al Viminale, in modo che un certo numero di schede bianche "trasmigrino" a una delle due coalizioni in lizza determinandone la vittoria. Nel film, Curtis, intervistato da Deaglio, fornisce una dimostrazione di come questo si possa ottenere con una certa facilità: "Bastano quattro o cinque persone - spiega - e senza lasciare la minima traccia". E quella che Deaglio e Cremagnani chiamano la "grande centrifuga": il misterioso "buco nero" che si sarebbe mangiato oltre un milione di schede bianche trasformandole in voti per Forza Italia.Una centrifuga che ha "lavato" l'Italia dando vita a un risultato che gli esperti definiscono "incredibile" se non impossibile. Nel 2001, infatti, le schede bianche totali furono 1 milione e 692mila (4,2%); nel 2006 sono scese a 445 mila. Non solo, alle politiche del 2001, ogni regione aveva una sua percentuale "caratteristica" di "bianche": oscillante dal 2 all'8 per cento. Questa volta no: la percentuale, oltre a scendere ai minimi (1,1%), si appiattisce e diventa praticamente la stessa in tutte le regioni. Come se gli italiani della Campania si fossero messi d'accordo con quelli del Piemonte o della Liguria. Politica o fantapolitica?
Adesso il film pubblico. Basteranno gli anatemi o le querele per spegnere il suo inquietante messaggio? Partiranno le inchieste? E, soprattutto, sapremo mai davvero cosa accaduto la notte dell'11 aprile? E il Viminale (dove oggi comanda il centrosinistra), tirerà fuori i dati ufficiali delle schede bianche? perché oggi, a sei mesi dalle elezioni, quei dati non ci sono. Sul sito del Ministero degli Interni si trovano i risultati delle elezioni, i voti per i partiti e gli eletti. Ma il dato delle "bianche" e delle "nulle" non c'è, non si trova. In passato questi numeri erano noti e ufficiali un mese dopo il voto.Se li conosciamo solo perché qualcuno riuscito ad averli per vie traverse. Il Viminale ci fornisce solo le schede bianche del 2001: solo la prima parte di un paragone impossibile. Un paragone che, a questo punto, andrebbe fatto a partire dalle buste che contengono davvero "Bianca" e le sue compagne, per vedere se il loro numero corrisponde al risultato ufficiale o se qualcuno ci ha messo in mezzo un programmino come quello di mr. Curtis [...]
Questo o quello per me pari sono
Pubblichiamo in calce i grafici della "notte della Democrazia", sulla cui stranezza il Tafanus aveva aperto un dossier già a spoglio in corso, e il grafico del Sig. Bigoni, che dovrebbe provare la normalità della "Notte dei Brogli".
Grafico del Tafanus, ripreso da decine di altre fonti. Il grafico mostra per la coalizione di centro-sinistra un costante calo, decile dopo decile, dal valore iniziale stabilizzato del 54%, al valore finale del 46%. Il valore si stabilizza solo dopo le incazzature di Minniti e di Fassino, le tre visite (a spoglio in corso) del piduista Pisanu a casa di Berlusconi, e dopo il serio pericolo che stia per scoppiare uno scandalo enorme. Pisanu, nonostante la incazzatura di Berlusconi, ferma il giocattolo sull'orlo del precipizio, per paura dello scandalo e delle eventuali conseguenze giudiziarie.
E ora il grafico che ci contrappone il Sig. Bigoni. Intanto non riguarda la coalizione ma il PD; poi non ha una fonte, poichè DISQUS non è una fonte, ma una piattaforma (esattamente come tafanus E' una fonte, ma "typepad" è solo un veicolo della fonte:
Questo o quello per me pari non sono
Ineffabile Sig. Bigoni, partire dal 20,5% per arrivare a fine corsa al 18,75% non è la stessa cosa che partire da 45% per arrivare a 56%, o come partire da 54% per arrivare a 46%... Un'altra stranezza? Fra il nono e il decimo (e ultimo) decile, quando la grana sta per scoppiare, la discesa del CSX si arresta, la salita degli "Azzurri" continua! Che fine hanno fatto le sue teorie sui ritardi sistematici di variazioni speculari ed opposte delle due coalizioni? A fronte di una strana stasi del CSX nell'ultimo decile, perchè invece gli azzurri registrano la più vistosa crescita fra tutti i decili? Un ultimo, ingenuo, disperato tentativo di "farcela" ad ogni costo? E perchè mai i dati sulle schede bianche, forniti tempestivamente in tutte le elezioni per un sessantennio, nel 2006 vengono forniti, dopo opportuni e probabili maquillages, con mesi di ritardo?
Recensione del film "FOXTROT- La danza del destino"(di Angela Laugier)
Titolo originale: Foxtrot
Regia: Samuel Maoz
Principali interpreti: Lior Ashkenazi, Sarah Adler, Yonatan Shiray, Gefen Barkai, Dekel Adin, Shaul Amir, Itay Exlroad, Yehuda Almagor, Ran Buxenbaum, Rami Buzaglo, Aryeh Cherner – 113 min. – Israele, Germania, Francia 2017
Il film ha una struttura insolita: se fosse una pièce teatrale, si direbbe una vicenda raccontata in tre atti unici in sé conclusi. In questo film, infatti, tre ambientazioni sceniche sono le diverse cornici che racchiudono tre momenti a se stanti di una stessa storia che, alla fine della pellicola si rivela chiarissima, poiché tutti i particolari apparentemente “slegati”diventano significativi pezzi di un solo disegno. Analogamente i frammenti di cartone, incastrandosi nel puzzle, trovano il loro posto e la loro funzione nel disegno che era sembrato difficile da ricostruire. Cercherò di analizzare, pertanto, i tre diversi “atti” del film e di non rivelare nulla che non sia strettamente indispensabile:
ATTO PRIMO L’esprit de finesse non è probabilmente diffuso negli ambienti militari, né è paricolamente apprezzato laddove, come a Israele, ci si trova in uno stato di guerra permanente. Nessuna meraviglia, dunque, se, quando si era trattato di avvisare i coniugi israeliani Michael e Daphna Feldmann (Lior Ashkenazi e Sarah Adler) della morte dell’amato figlio Jonatan (Yonatan Shiray), caduto in un’operazione difensiva lungo la linea di confine fra Israele e la Palestina, fosse emersa impietosamente la rozzezza grottesca degli ufficiali incaricati di confortare quei poveri genitori: troppe le parole, troppa la retorica, troppe le raccomandazioni insistenti (anche via cellulare e persino in piena notte!). Una insopportabile violazione, insomma, del diritto a piangere in privato un dolore così grande, mentre, purtroppo, non veniva comunicata alcuna vera notizia: nessuno sapeva come e perché Jonatan fosse morto; nessuno conosceva le condizioni del suo corpo, sottratto alla vista dei genitori; la bara sarebbe arrivata già chiusa, essendo da escludere che non contenesse il corpo di Jonatan… Eppure era andata proprio così: era avvenuto che il loro Jonatan Feldmann fosse stato confuso con uno sconosciuto soldato che si chiamava come lui! Dopo tanto strazio sembrava tornata un po’ di serenità, ma Michael Feldmann, che era un affermato architetto, con conoscenze molto importanti anche fra gli ufficiali dell’esercito, non avrebbe dimenticato, né perdonato tanta leggerezza: aveva chiesto e ottenuto che, a risarcimento dell’intera famiglia, il figlio tornasse subito a casa. Non restava che attenderlo per festeggiarlo nel generale sollievo, sempre più simile all’euforia, imbarazzante, data l’uccisione reale di un ragazzo, funesto presagio che lascia la propria impronta sull’intero film.
ATTO SECONDO
Dall’interno borghese, al paesaggio arido e sterminato del deserto in cui un surreale check point è lo sfondo di altre situazioni grottesche: quattro ragazzi, fra i quali Jonatan, sono impegnati in attesa di… “Godot”, armati fino ai denti, mentre scorrono i giorni, uno dopo l’altro e nulla accade di rilevante: rari gli automobilisti di passaggio e, per di più, sempre i soliti, a cui vengono richiesti i documenti in un rito umiliante e ripetitivo, ridicolo tanto quanto drammaticamente ottuso. A intervalli più regolari arriva un dromedario, a cui immediatamente si aprono le sbarre, pronte a rialzarsi al suo ritorno. In questa situazione ai giovani soldati non resta che vincere la noia, presenza costante, dentro quel parallelepipedo di lamiera, che sta visibilmente sprofondando nelle sabbie del deserto. Jonatan Feldmann, per far passare il tempo, si dedica al foxtrot, la danza che dà il titolo al film, quella che gli sembra descrivere meglio la loro condizione di uomini forzati a tornare al punto di partenza dopo aver tentato qualche passo per uscirne. Essendo anche un bravo disegnatore Jonatan sta ricostruendo a fumetti un po’ di storia della sua famiglia, su un album che scorre rapidamente dinanzi ai nostri occhi e che ci dice qualche cosa di più degli avi e di Michael Feldmann. La tragedia vera è in agguato: una lattina vuota di birra, scivolata dal grembo di una ragazza che rientava a casa con gli amici, dopo la festa di un sabato sera, aveva innescato la reazione di paura, e la successiva sparatoria; tragico errore di cui, in tutta fretta, sarebbero scomparse anche le tracce più minute.
ATTO TERZO Ancora all’interno di un appartamento borghese, che non è quello del primo atto, però, siedono e discutono intorno alla torta, preparata per il compleanno della figlia, Michael e Daphna, che si sono separati. Ora lei vive lì; Jonatan non c’è, ma se ne piange l’assenza in un gioco al massacro crudele di recriminazioni e rinfacci, rimpallandosi le responsabilità del fallimento comune: di Michael, di Daphna e, in fondo, dell’intera generazione che, dopo le speranze del ’68, aveva accettato senza protestare le scelte politiche che stavano portando Israele sulla pericolosissima china dello stato di guerra continuo, da cui ora era difficile uscire, ma in cui era altrettanto pericoloso rimanere: il foxtrot aveva fatto il suo tempo e nuove danze si stavano imponendo; nuovi erano i danzatori che si stavano affacciando al mondo con le loro tradizioni e i loro valori, e che difficilmente avrebbero sopportato le dure condizioni della “pax israeliana”. Parlarsi, discutere, comprendersi: la coppia di Michael e di Daphna, dopo la rovinosa separazione, avrebbe potuto, ricomponendosi nella reciproca comprensione, indicare la via d’uscita per tutti.
Con le sterzate improvvise che ci spiazzano fin dall’inizio del film, torna il cinema dell’israeliano Samuel Maoz, dopo otto anni di assenza dallo schermo: aveva vinto nel 2010 il Leone d’oro a Venezia con Lebanon, film che ritengo nettamente inferiore a questo, molto più discutibile, sbilanciato com’era dalla parte dei sionisti. Più problematico mi è sembrato questo secondo, dal quale emerge, con improvvise e forti illuminazioni, una visione critica del presente, dal quale deve essere possibile venir fuori, riconoscendo l’umanità e perciò stesso la sofferenza del “nemico”. In assenza di ciò, diventerebbe inesorabile lo sfilacciarsi dell’antica solidarietà che aveva spinto gli ebrei della diaspora, alla fine dell’800, a rifondare il loro stato. Pur in una dimensione tutta ebraica della rappresentazione, che ha la sua splendida metafora nel dromedario, figura del destino inesorabilmente segnato per gli uomini (come si comprenderà alla fine del film), le ragioni del dialogo e della pace dovranno prevalere. Originale e molto interessante la forma narrativa, spiazzante per il brusco interrompersi improvviso; per le belle e significative metafore che continuamente balzano davanti ai nostri occhi, rappresentative nella loro frammentaria e talvolta contraddittoria evidenza, della condizione di inquietudine dei giovani, disillusi e privi di valori fermi sui quali fondare la propria esistenza.
Leone d’argento a Venezia lo scorso settembre. Da vedere sicuramente.
Considerazione introduttiva personale: Quando un uomo armato di fatti incontra un uomo armato di twitter, il secondo è un uomo morto (tafanus)
Narrazione o storytelling
Fa sorridere la frase pronunciata qualche tempo fa da Matteo Renzi al Festival dell’economia di Trento: “La prima misura economica da adottare? Cambiare lo storytelling dell’Italia, se non incidiamo anche sulla narrazione non possiamo farcela”..
Va detto che lo scopo di chi usa lo storytelling e di chi costruisce narrative, cioè sistemi di senso – che diventano racconti su di sé, sui propri marchi o i propri prodotti – è instaurare una relazione profonda con il proprio pubblico: non lo si vuole solo informare, ma lo si vuole convincere di essere attivamente coinvolto e di far parte del processo di cambiamento della nazione.
Prima Berlusconi, poi Grillo, Renzi, Salvini e Di Maio non hanno solo raccontato visioni politiche ma hanno anche alzato il tiro richiedendo non solo il voto (palesemente legato alla figura del leader, come chiaro nelle operazioni referendum costituzionale) ma anche la mobilitazione permanente ai loro elettori.
Per dirla meglio, il supporter-elettore non può semplicemente rappresentare un voto ma deve incarnare la funzione di groupie del proprio leader politico, in maniera tale che non si parli più di un rapporto fra elettore e politica responsabile del proprio lavoro nei confronti dell’elettorato ma si instauri un rapporto di riconoscimento, inspirazione, condivisione e contatto di ideali, termini chiave per lo storytelling.
La dimostrazione della necessità dello storytelling è rappresentata dalla spina dorsale del movimento 5 stelle, che non è più una struttura politica aggregante (il modello arcaico è quello del vecchio PCI o della DC) ma si basa sull’evoluzione della logica del partito/persona rappresentato dal modello Berlusconiano di FI: ad una società egemone nel campo della comunicazione (nata grazie al regalo delle frequenze da parte della politica) si è sostituita un’altra società egemone nel campo della comunicazione che però stavolta emerge dalla rete, che ha di per sé stessa una sorta di “ingestibilità” (nonostante gli innumerevoli tentativi di addomesticarla da parte della politica) insita nella sua stessa natura.
Lo storytelling, quindi, sublima la necessità di identificazione nel leader in una meravigliosa storia di partecipazione: una vera e propria incorporazione degli stereotipi del vecchio PCI (dura e pura aggregazione sotto il Capo), della DC (decidi DC, anche se alla fine decidiamo noi), di FI (Berlusconi benedicente il proprio popolo inneggiante) in un unico stilema che riecheggia tutti e nessuno: il M5S (uno vale uno).
Geniale.
Un’operazione di marketing assolutamente perfetta: il vaffa-day non è servito a mandare alcun messaggio, ma esclusivamente a rafforzare il concept proposto.
Una vision perfetta in questo panorama politico: un leader si deve dedicare allo storytelling con una sistematicità assoluta, gestendo contenuti e processi in maniera tale da veicolare la sensazione di coerenza tra il suo mondo di valori e quello dei suoi elettori, esattamente quello in cui Renzi ha mancato venendo punito pesantemente sia al referendum di dicembre 2016 che alle elezioni del 4 marzo.
Possiamo dire che lo storytelling, che da sempre esiste in modo informale, è diventato una disciplina scientifica e sistemica che è indispensabile per chiunque voglia comunicare a un pubblico.
Come è sempre avvenuto in Italia l’elettore ha bisogno di una condivisione con i suoi rappresentanti ed una chiusura nei confronti dell’avversario (Guelfi/Ghibellini, DC/PCI, Coppi/Bartali, Rossi/Biaggi) e lo storytelling aiuta a costruire questo “ponte”, questa connessione, in cui il politico genera una narrativa (un mondo di significato valoriale e personale) e il cittadino elettore si riconosce e supporta incondizionatamente la politica del leader, magari “contro”.
In altri termini, un “fatto” non comunica senza il racconto che lo veicola, per cui per esempio se decidiamo di procedere ad una azione politica tramite i famosi “80 euro” ai dipendenti aziendali o a “creare 1 milione di nuovi posti di lavoro” di per sé stesse queste due azioni rimangono lettera morta se in parallelo non azioniamo un effetto di racconto, o in parole povere colleghiamo questa scelta ad una storia condivisibile che possa portare alla creazione di una massa critica di “groupies” che a loro volta aggregano altri groupies.
Banalizzando, il concetto è che questi “fatti” di per sé non vogliono dire nulla se non viene impiantata la motivazione e la narrazione politica, che imprimono nel cuore e nello stomaco dei groupies lo spirito di appartenenza al gruppo.
Lo storytelling diviene funzionale allo sviluppo di una identità di gruppo grazie al meccanismo di rivestimento della realtà di racconti artificiali: certamente, quando ben utilizzato chiama in causa i groupies-elettori, li incita alla partecipazione, e li fidelizza alla filosofia del leader contro gli avversari, veri o immaginari.
Non è un caso che Berlusconi abbia identificato nei “comunisti” prima e nei 5 Stelle poi il “nemico” contro cui lottare: lo stesso ha fatto Salvini con un bersaglio molto più adatto, i migranti.
Questo però ingenera il problema della responsabilità del leader politico, che a differenza delle filosofie stile “decidi DC” (il buon vecchio marketing dello slogan di bel suono ma privo di qualsiasi impegno) lo rende ancora più critico nella sua funzione di garante della promessa: si tratta di un’evoluzione del legame fra elettori e leader che comporta (diversamente da quanto preconizzato dagli spin doctor di stile mediaset) una responsabilità precisa.
In altri termini, se rivesti il ruolo dello storyteller al racconto deve seguire un effetto, e dimenticare le promesse o peggio rimangiarti la parola ha effetti devastanti.
Il racconto ti costringe a mantenere una tua promessa, altrimenti l’elettorato invece di seguire incondizionatamente il leader si disamora e si sente tradito, portando il leader dalla condizione di idolo a quella di bugiardo, e dalla figura di “rottamatore” (quindi innovatore contro i poteri forti) si diventa “il bomba”, cioè il venduto agli stessi poteri che si è giurato di combattere.
In questo senso storytelling vuol dire richiesta di coerenza, non artificiosità, e le continue promesse non mantenute di Renzi hanno fatto il lavoro che ci si sarebbe dovuto aspettare: dal 40% delle Europee al 18% delle politiche appena svolte.
In effetti Matteo Renzi è il sintomo più visibile in Europa di questo scivolamento della politica verso la pura comunicazione, come il movimento 5 stelle è in realtà una costola di una società di Media Marketing, come del resto Forza Italia lo era di Mediaset.
Renzi però va più lontano: ha fatto dello storytelling non solo una tecnica di comunicazione, ma il suo programma di governo per cui il leader politico è diventato un personaggio del nostro immaginario quotidiano, una figura delle democrazie mediatiche capace di domare la crisi, chiedendogli di incarnare un intreccio capace di portarci fuori dai problemi.
Il problema è che i cittadini hanno imparato a decodificare le storie che vengono loro raccontate: provano anche un certo piacere a seguirle, come se guardassero delle serie tivù, ma il discredito che colpisce gli uomini politici e la parola pubblica rappresenta il paradosso dello storytelling generalizzato.
C'è stato un tempo in cui il sovrano indirizzava i suoi editti e i suoi racconti a un popolo silenzioso e 'credente', ma oggi grazie a Twitter, Facebook ed a tutti i social network le figure mediatiche - che siano politici o sportivi, che vengano dalla moda o dalla sottocultura di massa - sono sottomesse a un'impietosa decostruzione o, peggio, alla costante verifica del rispetto del loro storytelling.
Sulla rete dei social network, dove innumerevoli racconti entrano in competizione, si scambiano e si combattono, il racconto non è una cibo magico nelle mani dei comunicatori, è una questione di quanto i groupie si sentano davvero rappresentati e difesi dal leader: in questo senso appare chiaro come la rappresentazione artificiale della TV (addomesticata e di fatto schiava dei partiti) soccombe davanti a quella variegata sì ma più aderente alla percezione degli utenti.
Alla descrizione della “generosità” dello Stato Italiano che accoglie i profughi con le loro storie strappalacrime in diretta TV sulle emittenti nazionali si contrappone la percezione degli utenti, che vedono gli stessi profughi spacciare per le strade quale parte operativa della criminalità organizzata: a questo punto il blogger che presenta questa realtà (non importa quanto vera, ma quanto sia verosimile) si ammanta immediatamente dell’aurea del giornalista serio.
La reazione politica a questo stato di cose è quella solita, dilettantesca e poco professionale, di tentare di screditare la rete come portatrice di “fake news”: effetto immediato di questo tentativo è la differenziazione epocale della tipologia di voto, che viene dirottato immediatamente dai fruitori della rete (tendenzialmente i giovani) verso il M5S che della rete ha fatto la sua bandiera, mentre i fruitori della TV (tendenzialmente le persone più anziane) credendo allo storytelling Mediaset si rivolgono a FI come dimostra facilmente l’analisi del voto per tipologia ed età.
Nel mondo di mezzo, però, si ingenera una crisi generale di credibilità, che getta il sospetto su tutte le figure pubbliche dell'«enunciazione», tutti gli autori della mediasfera: giornalisti, animatori tivù, sportivi, star, manager, medici, intellettuali ed è causata dalla percezione che i media abbiano abbandonato la funzione giornalistica e le loro missioni originali - l'inchiesta, il reportage, l'analisi politica, l'attualità, l'informazione - per abbandonarsi alla mera funzione di storytelling, a differenza della rete che viene percepita come strumento necessario alla decodifica delle storie raccontate.
Lo storytelling politico di Renzi si è giocato dicendo alla gente: «Questo Paese è magnifico, ci sono dei talenti e delle potenzialità immense, ma ci sono dei blocchi, dei chiavistelli. Basta farli saltare per liberare la gioventù, l'energia, l'innovazione, la crescita».
Dall’altra parte c'è invece un racconto che prende a prestito dalla sinistra radicale la critica della globalizzazione neoliberale e della costruzione europea, mentre dalla destra neoliberale la denuncia degli immigrati approfittatori, dei rom, dei truffatori della previdenza statale.
Renzi ha raccontato una storia, chiedendo a chi lo ascolta di assecondarne lo sviluppo e di farne parte integrante.
La sua è stata una storia a rischio, che si sarebbe fatta solo se chi ascoltava allo stesso tempo lo avesse aiutato, e dove il racconto può non avere il lieto fine e può interrompersi, perché è una storia che non è stata raccontata prima, in cui la sconfitta è parte del gioco ma è causata non già dalla debolezza della proposta ma dal popolo che non ha capito la grandezza della proposta e lo ha tradito.
Questo è ciò che c’è in gioco, narrativamente, ed è per questo che ha bisogno di un pubblico attivo, che creda alla possibilità di quella specifica storia, e voglia parteciparvi: ma davanti alla storia raccontata dalla destra e dal M5S (provata spesso sulla propria pelle dagli elettori) e storie raccontate dal PD renziano hanno bruciato la credibilità di chi le ha raccontate crollando alla prova dei fatti.
Del resto come l'inflazione rovina la credibilità di una moneta, così l'inflazione di storie (e la loro mancata verifica) rovina la credibilità del narratore politico.
Quindi parte la necessità della lotta alle “fake news” in contemporanea sulle reti TV, ma identicamente a causa di questa lotta le stesse reti perdono la percezione di autorevolezza dei telespettatori.
Nel suo celebre articolo sulle lucciole (1975), Pasolini parlava del discredito che colpisce la classe politica italiana in questi termini: “Loro non sospettano per nulla che il potere reale agisca senza di loro e che hanno tra le mani solo un apparecchio inutile. Cosa resta dell'uomo di Stato, nel momento in cui il potere è privato dei suoi mezzi d'agire ? Maschere, spettri vestiti di tutto punto”
Il legame tra il potere d'agire e l'incarnazione del potere si è perduto. Da un lato si hanno dei poteri senza volto: i mercati, le agenzie di rating, Bruxelles, Wall Street ,dall'altra dei volti impotenti che vengono finalmente smascherati come nudi.
E lo specchio che li presenta è rappresentato dallo sviluppo dei social network e dei canali di informazione 24 ore su 24, che non hanno fatto altro che aggravare questa situazione, per cui più gli uomini politici si espongono mediaticamente, più appare chiara la loro incapacità e la loro impotenza.
Il risultato appare in tutta la sua crudezza tramite l’analisi del voto, che ha evidenziato un calo della metà esatta degli elettori Dem nell'arco di 10 anni esatti: dai 12 milioni di votanti alla Camera nel 2008 per il Pd di Walter Veltroni ai 6 milioni alle politiche del 2018, appena quattro anni dopo il clamoroso exploit delle europee.
L'Italia si è risvegliata il 5 marzo divisa a metà, fra il Nord virato sulla Lega e un centro-sud che ha scelto in blocco i Cinque stelle, condividendo lo storytelling di Grillo.
Anche parte dell'elettorato Pd ha seguito la corrente, oscillando tra Di Maio e Salvini a seconda della collocazione geografica: rispetto alle elezioni del 2013, l'anno della «non vittoria» di Pierluigi Bersani, il Pd ha conservato solo il 53,1% dei suoi voti, perdendo il 16% a favore dei Cinque stelle e il 5,7% in direzione Lega.
Una tendenza identica a quella che si è ripresentata nel confronto fra 2014 e 2018: rispetto alle europee, il Pd renziano ha conservato solo il 49,5% dei voti, cedendo il 16,5% dei suoi elettori ai Cinque stelle e addirittura il 6,9% alla Lega di Salvini.
Va tutto sommato meglio alle (tante) liste che si collocano a sinistra dei dem: gli elettori che nel 2013 avevano scelto Sinistra ecologia e libertà, la lista capeggiata dall'ex presidente della regione Puglia Vendola, sono poi confluiti nel 2018 in due partiti coerenti con la scelta come Liberi e uguali (46,4%) e Potere al Popolo (22,2%), per un totale di quasi 7 voti su 10 rimasti nell'alveo della sinistra.
Ora la palla passa ad altri due storyteller: alla prova dei fatti vedremo chi rispetterà le promesse e quindi confermerà la fiducia acquisita dai propri elettori.
Ancora una volta, il celeberrimo aforisma di Ennio Flaiano si dimostra infallibile. Abbiamo riportato in grafico il dato medio dei sondaggi sulle intenzioni di voto, confrontando per i vari partiti la media degli ultimi tre sondaggi pre-elezioni, con la media dei primi tre sondaggi post-voto, che solo da pochi giorni ricominciano ad uscire.
Il risultato? Chi ha vinto (Lega e M5S) continua a galoppare in avanti. Chi ha perso, è stato abbandonato da altre masse di elettori. E' normale? No, non lo è. Perchè ancora non solo i grillini non hanno dato prova di avere le risorse per fare il reddito di cittadinanza promesso, e non solo non hanno aperto nessun parlamento con l'apriscatole, ma hanno fatto loro immediatamente i vizi peggiori della deprecata prima repubblica. E chi ha perso (in primis il Partito di Renzi), essendo rimasto in carica solo per l'ordinaria amministrazione, non ha potuto fare altri danni, e quindi la ulteriore caduta (ormai l'ultimo sondaggio lo da al 17,5%) non è conseguenza di atti di governo, ma frutto del corollario al Principio di Flaiano: chi vince vede arrivare in suo aiuto schiere di generosi soccorritori, chi perde viene ulteriormente bastonato. E' la Democrazia, bellezza...
Una curiosità: sarebbe bello sentire OGGI i campioni nazionali di Paso Doble (gli Scalfari, i Benigni, i De Benedetti, le Finocchiaro), e cercare di capire se siano in fase "zig" o in fase "zag".
Per un mese i sondaggi sulle intenzioni di voto ("...se si votasse domani...") sono stati fermi, e i sondaggisti si sono affaticati a fare domande sul nulla: "come vedrebbe una coalizione fra PD e M5S"? E invece una coalizione M5S-Lega"?. Come se ce ne potesse fregar di meno di sapere cosa pensi la casalinga di Voghera o l'idraulico di Pessano con Bornago su questi argomenti...
Ma adesso qualcuno, più pronto a capire che nessuna coalizione avrà lunga vita, inizia a fare la domanda-chiave: "cosa voterebbe domani, se ci fossero elezioni anticipate"?
Bene: le risposte confermano in pieno la "Legge di Flaiano", con Lega e M5S in ulteriore crescita (alcuni sondaggisti danno addirittura la Lega al 24,5%, il M5S al 34,2%), mntre continuano a puicchiare sul PdR, che ormai ha raggiunto in discesa il 17,5%. Difficile capire se gli elettori continuino a premiare il "non ancora fatto" dei partiti populisti, o se stiano continuando a punire il PdR, anche per la inconsistenza e la stupidità del "chiamarsi fuori" da tutti i giochi politici, per "fargliela vedere" a quegli stupidi di elettori che - non avendo capito compiutamente la grandezza del Bischero di Frignano e dei sui camerieri, hanno scelto di mandarlo all'opposizione. Inutilmente decine di politologi più preparati di Alessia Rotta, di Martina, di Orfini e di Lotti, si stanno affannando cercando di spiegare che persino Salvini, non avendo avuto il 51% dei voti ma "solo" il 18%, potrebbe dire che l'82% degli italiani "lo ha mandato all'opposizione".
P.S.: Solo una piccola rivendicazione fatta col "senno di prima": noi (intendendo per NOI il piccolo sottoscritto, e i grossi calibri D'Alema, Bersani, Grasso, Civati & C.) non "abbiamo consegnato il paese per cinque anni, con la scissione, a Berlusconi. Berlusconi non governerà né per 5 anni, né per 5 giorni. Il Nazareno è abortito nell'utero materno, e se qualcuno provasse a resuscitarlo farebbe andare FI al 6% e il PdR al 9%. Né - tanto per chiarirci - sono stati gli "scissionisti" a portare il PdR al 17,5%. TUTTI gli istituti che si occupano di studio dei flussi elettorali, concordano almeno su una cosa: che gli "scissionisti" hanno portato via al PdR UN PUNTO PERCENTUALE di elettori. Il che lascerebbe le cose esattamente dove sarebbero se non si fossero scissi. Abbiano la bontà, almeno di fronte agli ultimi dati, di fare autocritica. E con "abbiano la bontà" mi rivolgo prevalentemente a tre categorie di elettori:
Quelli che "almeno con Renzi si vince"
Quelli che "Bersani ha distrutto il PD"
Quelli che "chi se non Renzi"
In calce due grafici: quello che illustra il confronto della posizione dei partiti negli ultimi tre sondaggi pre-elezioni cogli ultimi e recenti sondaggi post-voto, e quello, abituale per i lettori abituali del tafanus, che mostra l'andamento delle intenzioni di voto negli ultimi 12 mesi. Quest'ultimo grafico non mostra appieno la catastrofe del renzismo e il trionfo dei populismi, perchè le linee di tendenza scontano 340 giorni pre-disastro e solo 25 giorni post-disastro.
Recensione del film "Maria Maddalena" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Mary Magdalene
Regia: Garth Davis.
Principali interpreti: Rooney Mara, Joaquin Phoenix, Chiwetel Ejiofor, Tahar Rahim, Shira Haas, Charles Babalola, Tawfeek Barhom, Uri Gavriel, Zohar Shtrauss, Hadas Yaron, Tsahi Halevi, Michael Moshonov, Ariane Labed, Sarah-Sofie Boussnina, Ryan Corr, Lubna Azabal, Lior Raz – 120 min. – Gran Bretagna 2018.
Ambientato nella Palestina del I secolo, più precisamente nel 33, anno a cui si fa risalire la crocifissione di Cristo, il film ci racconta la storia di Maria (Rooney Mara), figlia ribelle di una altolocata famiglia ebrea di Magdala che l’aveva destinata al matrimonio contro la sua volontà. La giovane, che per questa ragione era fuggita dalla propria casa, era entrata a far parte dei discepoli di un predicatore, Gesù di Nazareth (Joaquin Phoenix), che con loro, che lo chiamavano Rabbi (Maestro della legge), attraversava terre, deserti e villaggi, con l’obiettivo di raggiungere il tempio di Gerusalemme nella settimana della celebrazione della Pasqua ebraica.
La folla dei seguaci, uomini e donne, si infittiva durante il viaggio, grazie alla semplicità suggestiva di quella predicazione, alla fiducia suscitata da quel messaggio d’amore e di pace e alle guarigioni miracolose con le quali Gesù accompagnava le parole, conforto e incoraggiamento per le popolazioni di ebrei smarriti e incerti, dopo che i governatori romani avevano cominciato a perseguitarli per la loro fede monoteistica, creando paure e divisioni.
Maddalena, che era stata la prima donna a seguire il Maestro, aveva la comprensione e il rispetto di tutti, ma soprattutto era prediletta da lui, poiché meglio di altri ne aveva colto l’importanza profetica rivoluzionaria, capace di mutare il cuore degli uomini mitigandone la rabbia e il desiderio di vendetta e di guerra.
Il film, che si vede con piacere, essendo narrato in modo molto asciutto e teso ed essendo (soprattutto) privo di quella retorica compunta a cui l’argomento religioso potrebbe prestarsi, è ricco di altri pregi. Fra questi va ricordata in primo luogo l’ottima prova dei due principali attori, sempre molto controllati e pacati nell’espressione e nell’accettazione del dolore. Molto apprezzabile, poi, il ritratto di Maria Maddalena, donna cosciente di sé, ben decisa a difendere, con dolce fermezza, il messaggio cristiano di cui era diventata convinta mediatrice, nella certezza della sua necessità, così come è molto interessante la rappresentazione degli apostoli, umanissimi nelle incertezze, nelle fragilità e nelle paure; non sempre pronti a cambiare il loro sentire, ancora troppo turbato dai risentimenti, dai rancori o dai ricordi familiari che non avevano del tutto abbandonato per seguire il Maestro: questo (forse) potrebbe non essere accettabile sul piano della dottrina, ma li rende umanamente molto simili a noi, che li vediamo con simpatia fraterna. Bellissima, infine, la fotografia dei volti e del paesaggio, che è quello dell’Italia meridionale, continentale e siciliana, scelta come location dell’intero film.
Una Maddalena insolita, dunque, diversa dall’immagine della prostituta redenta da Gesù Cristo diffusa dalla tradizione cristiano-cattolica, consolidata dal papa Gregorio Magno, che nel calendario liturgico unificò nella sola persona di Santa Maria di Magdala tre presenze femminili del Nuovo Testamento.* Il cinema si era già ripetutamente occupato di lei, attraverso alcune opere famose fra le quali ricordo soltanto L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese, che pur accogliendo, senza mettere in discussione, la decisione di papa Gregorio, aveva introdotto nella sua pellicola alcuni elementi eterodossi, in contrasto con la dottrina ufficiale della Chiesa, ciò che aveva destato violentissime proteste nel mondo cattolico più conservatore e guai infiniti a lui.
Il regista di questo film, invece, pare orientato a una ricostruzione basata sulla tradizione dei Vangeli Apocrifi, fra cui principalmente Il Vangelo di Filippo e il cosiddetto Vangelo di Maria, giunti a noi attraverso frammenti molto lacunosi, che, come i quattro Vangeli canonici, sono principalmente mirati all’interpretazione del messaggio cristiano, piuttosto che alla narrazione storica della vita di Gesù e testimoniano perciò soprattutto le divisioni interne al mondo cristiano dei primi secoli, cui posero fine, come sappiamo, le decisioni dell’imperatore Costantino al termine del concilio di Nicea (325).
——— * Maria di Magdala, Maria di Betania e la Peccatrice senza nome che si era lasciata convincere dalla forza delle parole di Gesù. Da allora Maddalena, ufficialmente, era stata presentata come l’ex peccatrice che per essersi affidata al Cristo, e per averlo seguito fino ai piedi della Croce, era stata santificata.
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