Considerazione introduttiva personale: Quando un uomo armato di fatti incontra un uomo armato di twitter, il secondo è un uomo morto (tafanus)
Narrazione o storytelling
Fa sorridere la frase pronunciata qualche tempo fa da Matteo Renzi al Festival dell’economia di Trento: “La prima misura economica da adottare? Cambiare lo storytelling dell’Italia, se non incidiamo anche sulla narrazione non possiamo farcela”..
Va detto che lo scopo di chi usa lo storytelling e di chi costruisce narrative, cioè sistemi di senso – che diventano racconti su di sé, sui propri marchi o i propri prodotti – è instaurare una relazione profonda con il proprio pubblico: non lo si vuole solo informare, ma lo si vuole convincere di essere attivamente coinvolto e di far parte del processo di cambiamento della nazione.
Prima Berlusconi, poi Grillo, Renzi, Salvini e Di Maio non hanno solo raccontato visioni politiche ma hanno anche alzato il tiro richiedendo non solo il voto (palesemente legato alla figura del leader, come chiaro nelle operazioni referendum costituzionale) ma anche la mobilitazione permanente ai loro elettori.
Per dirla meglio, il supporter-elettore non può semplicemente rappresentare un voto ma deve incarnare la funzione di groupie del proprio leader politico, in maniera tale che non si parli più di un rapporto fra elettore e politica responsabile del proprio lavoro nei confronti dell’elettorato ma si instauri un rapporto di riconoscimento, inspirazione, condivisione e contatto di ideali, termini chiave per lo storytelling.
La dimostrazione della necessità dello storytelling è rappresentata dalla spina dorsale del movimento 5 stelle, che non è più una struttura politica aggregante (il modello arcaico è quello del vecchio PCI o della DC) ma si basa sull’evoluzione della logica del partito/persona rappresentato dal modello Berlusconiano di FI: ad una società egemone nel campo della comunicazione (nata grazie al regalo delle frequenze da parte della politica) si è sostituita un’altra società egemone nel campo della comunicazione che però stavolta emerge dalla rete, che ha di per sé stessa una sorta di “ingestibilità” (nonostante gli innumerevoli tentativi di addomesticarla da parte della politica) insita nella sua stessa natura.
Lo storytelling, quindi, sublima la necessità di identificazione nel leader in una meravigliosa storia di partecipazione: una vera e propria incorporazione degli stereotipi del vecchio PCI (dura e pura aggregazione sotto il Capo), della DC (decidi DC, anche se alla fine decidiamo noi), di FI (Berlusconi benedicente il proprio popolo inneggiante) in un unico stilema che riecheggia tutti e nessuno: il M5S (uno vale uno).
Geniale.
Un’operazione di marketing assolutamente perfetta: il vaffa-day non è servito a mandare alcun messaggio, ma esclusivamente a rafforzare il concept proposto.
Una vision perfetta in questo panorama politico: un leader si deve dedicare allo storytelling con una sistematicità assoluta, gestendo contenuti e processi in maniera tale da veicolare la sensazione di coerenza tra il suo mondo di valori e quello dei suoi elettori, esattamente quello in cui Renzi ha mancato venendo punito pesantemente sia al referendum di dicembre 2016 che alle elezioni del 4 marzo.
Possiamo dire che lo storytelling, che da sempre esiste in modo informale, è diventato una disciplina scientifica e sistemica che è indispensabile per chiunque voglia comunicare a un pubblico.
Come è sempre avvenuto in Italia l’elettore ha bisogno di una condivisione con i suoi rappresentanti ed una chiusura nei confronti dell’avversario (Guelfi/Ghibellini, DC/PCI, Coppi/Bartali, Rossi/Biaggi) e lo storytelling aiuta a costruire questo “ponte”, questa connessione, in cui il politico genera una narrativa (un mondo di significato valoriale e personale) e il cittadino elettore si riconosce e supporta incondizionatamente la politica del leader, magari “contro”.
In altri termini, un “fatto” non comunica senza il racconto che lo veicola, per cui per esempio se decidiamo di procedere ad una azione politica tramite i famosi “80 euro” ai dipendenti aziendali o a “creare 1 milione di nuovi posti di lavoro” di per sé stesse queste due azioni rimangono lettera morta se in parallelo non azioniamo un effetto di racconto, o in parole povere colleghiamo questa scelta ad una storia condivisibile che possa portare alla creazione di una massa critica di “groupies” che a loro volta aggregano altri groupies.
Banalizzando, il concetto è che questi “fatti” di per sé non vogliono dire nulla se non viene impiantata la motivazione e la narrazione politica, che imprimono nel cuore e nello stomaco dei groupies lo spirito di appartenenza al gruppo.
Lo storytelling diviene funzionale allo sviluppo di una identità di gruppo grazie al meccanismo di rivestimento della realtà di racconti artificiali: certamente, quando ben utilizzato chiama in causa i groupies-elettori, li incita alla partecipazione, e li fidelizza alla filosofia del leader contro gli avversari, veri o immaginari.
Non è un caso che Berlusconi abbia identificato nei “comunisti” prima e nei 5 Stelle poi il “nemico” contro cui lottare: lo stesso ha fatto Salvini con un bersaglio molto più adatto, i migranti.
Questo però ingenera il problema della responsabilità del leader politico, che a differenza delle filosofie stile “decidi DC” (il buon vecchio marketing dello slogan di bel suono ma privo di qualsiasi impegno) lo rende ancora più critico nella sua funzione di garante della promessa: si tratta di un’evoluzione del legame fra elettori e leader che comporta (diversamente da quanto preconizzato dagli spin doctor di stile mediaset) una responsabilità precisa.
In altri termini, se rivesti il ruolo dello storyteller al racconto deve seguire un effetto, e dimenticare le promesse o peggio rimangiarti la parola ha effetti devastanti.
Il racconto ti costringe a mantenere una tua promessa, altrimenti l’elettorato invece di seguire incondizionatamente il leader si disamora e si sente tradito, portando il leader dalla condizione di idolo a quella di bugiardo, e dalla figura di “rottamatore” (quindi innovatore contro i poteri forti) si diventa “il bomba”, cioè il venduto agli stessi poteri che si è giurato di combattere.
In questo senso storytelling vuol dire richiesta di coerenza, non artificiosità, e le continue promesse non mantenute di Renzi hanno fatto il lavoro che ci si sarebbe dovuto aspettare: dal 40% delle Europee al 18% delle politiche appena svolte.
In effetti Matteo Renzi è il sintomo più visibile in Europa di questo scivolamento della politica verso la pura comunicazione, come il movimento 5 stelle è in realtà una costola di una società di Media Marketing, come del resto Forza Italia lo era di Mediaset.
Renzi però va più lontano: ha fatto dello storytelling non solo una tecnica di comunicazione, ma il suo programma di governo per cui il leader politico è diventato un personaggio del nostro immaginario quotidiano, una figura delle democrazie mediatiche capace di domare la crisi, chiedendogli di incarnare un intreccio capace di portarci fuori dai problemi.
Il problema è che i cittadini hanno imparato a decodificare le storie che vengono loro raccontate: provano anche un certo piacere a seguirle, come se guardassero delle serie tivù, ma il discredito che colpisce gli uomini politici e la parola pubblica rappresenta il paradosso dello storytelling generalizzato.
C'è stato un tempo in cui il sovrano indirizzava i suoi editti e i suoi racconti a un popolo silenzioso e 'credente', ma oggi grazie a Twitter, Facebook ed a tutti i social network le figure mediatiche - che siano politici o sportivi, che vengano dalla moda o dalla sottocultura di massa - sono sottomesse a un'impietosa decostruzione o, peggio, alla costante verifica del rispetto del loro storytelling.
Sulla rete dei social network, dove innumerevoli racconti entrano in competizione, si scambiano e si combattono, il racconto non è una cibo magico nelle mani dei comunicatori, è una questione di quanto i groupie si sentano davvero rappresentati e difesi dal leader: in questo senso appare chiaro come la rappresentazione artificiale della TV (addomesticata e di fatto schiava dei partiti) soccombe davanti a quella variegata sì ma più aderente alla percezione degli utenti.
Alla descrizione della “generosità” dello Stato Italiano che accoglie i profughi con le loro storie strappalacrime in diretta TV sulle emittenti nazionali si contrappone la percezione degli utenti, che vedono gli stessi profughi spacciare per le strade quale parte operativa della criminalità organizzata: a questo punto il blogger che presenta questa realtà (non importa quanto vera, ma quanto sia verosimile) si ammanta immediatamente dell’aurea del giornalista serio.
La reazione politica a questo stato di cose è quella solita, dilettantesca e poco professionale, di tentare di screditare la rete come portatrice di “fake news”: effetto immediato di questo tentativo è la differenziazione epocale della tipologia di voto, che viene dirottato immediatamente dai fruitori della rete (tendenzialmente i giovani) verso il M5S che della rete ha fatto la sua bandiera, mentre i fruitori della TV (tendenzialmente le persone più anziane) credendo allo storytelling Mediaset si rivolgono a FI come dimostra facilmente l’analisi del voto per tipologia ed età.
Nel mondo di mezzo, però, si ingenera una crisi generale di credibilità, che getta il sospetto su tutte le figure pubbliche dell'«enunciazione», tutti gli autori della mediasfera: giornalisti, animatori tivù, sportivi, star, manager, medici, intellettuali ed è causata dalla percezione che i media abbiano abbandonato la funzione giornalistica e le loro missioni originali - l'inchiesta, il reportage, l'analisi politica, l'attualità, l'informazione - per abbandonarsi alla mera funzione di storytelling, a differenza della rete che viene percepita come strumento necessario alla decodifica delle storie raccontate.
Lo storytelling politico di Renzi si è giocato dicendo alla gente: «Questo Paese è magnifico, ci sono dei talenti e delle potenzialità immense, ma ci sono dei blocchi, dei chiavistelli. Basta farli saltare per liberare la gioventù, l'energia, l'innovazione, la crescita».
Dall’altra parte c'è invece un racconto che prende a prestito dalla sinistra radicale la critica della globalizzazione neoliberale e della costruzione europea, mentre dalla destra neoliberale la denuncia degli immigrati approfittatori, dei rom, dei truffatori della previdenza statale.
Renzi ha raccontato una storia, chiedendo a chi lo ascolta di assecondarne lo sviluppo e di farne parte integrante.
La sua è stata una storia a rischio, che si sarebbe fatta solo se chi ascoltava allo stesso tempo lo avesse aiutato, e dove il racconto può non avere il lieto fine e può interrompersi, perché è una storia che non è stata raccontata prima, in cui la sconfitta è parte del gioco ma è causata non già dalla debolezza della proposta ma dal popolo che non ha capito la grandezza della proposta e lo ha tradito.
Questo è ciò che c’è in gioco, narrativamente, ed è per questo che ha bisogno di un pubblico attivo, che creda alla possibilità di quella specifica storia, e voglia parteciparvi: ma davanti alla storia raccontata dalla destra e dal M5S (provata spesso sulla propria pelle dagli elettori) e storie raccontate dal PD renziano hanno bruciato la credibilità di chi le ha raccontate crollando alla prova dei fatti.
Del resto come l'inflazione rovina la credibilità di una moneta, così l'inflazione di storie (e la loro mancata verifica) rovina la credibilità del narratore politico.
Quindi parte la necessità della lotta alle “fake news” in contemporanea sulle reti TV, ma identicamente a causa di questa lotta le stesse reti perdono la percezione di autorevolezza dei telespettatori.
Nel suo celebre articolo sulle lucciole (1975), Pasolini parlava del discredito che colpisce la classe politica italiana in questi termini: “Loro non sospettano per nulla che il potere reale agisca senza di loro e che hanno tra le mani solo un apparecchio inutile. Cosa resta dell'uomo di Stato, nel momento in cui il potere è privato dei suoi mezzi d'agire ? Maschere, spettri vestiti di tutto punto”
Il legame tra il potere d'agire e l'incarnazione del potere si è perduto. Da un lato si hanno dei poteri senza volto: i mercati, le agenzie di rating, Bruxelles, Wall Street ,dall'altra dei volti impotenti che vengono finalmente smascherati come nudi.
E lo specchio che li presenta è rappresentato dallo sviluppo dei social network e dei canali di informazione 24 ore su 24, che non hanno fatto altro che aggravare questa situazione, per cui più gli uomini politici si espongono mediaticamente, più appare chiara la loro incapacità e la loro impotenza.
Notizie come questa http://www.msn.com/it-it/money/storie-principali/il-fallimento-del-bonus-di-renzi-17-milioni-di-italiani-costretti-a-restituirlo/ar-BBKPbks?ocid=ientp rendono micidiale il boomerang dello storytelling: Renzi, agli occhi dell’elettorato, rappresenta drammaticamente il politicante che prima, surrettiziamente, ha chiesto il voto dei propri fan per condividere la sua storia, e poi ha agito contro gli stessi groupie come novello Crono.
Il risultato appare in tutta la sua crudezza tramite l’analisi del voto, che ha evidenziato un calo della metà esatta degli elettori Dem nell'arco di 10 anni esatti: dai 12 milioni di votanti alla Camera nel 2008 per il Pd di Walter Veltroni ai 6 milioni alle politiche del 2018, appena quattro anni dopo il clamoroso exploit delle europee.
L'Italia si è risvegliata il 5 marzo divisa a metà, fra il Nord virato sulla Lega e un centro-sud che ha scelto in blocco i Cinque stelle, condividendo lo storytelling di Grillo.
Anche parte dell'elettorato Pd ha seguito la corrente, oscillando tra Di Maio e Salvini a seconda della collocazione geografica: rispetto alle elezioni del 2013, l'anno della «non vittoria» di Pierluigi Bersani, il Pd ha conservato solo il 53,1% dei suoi voti, perdendo il 16% a favore dei Cinque stelle e il 5,7% in direzione Lega.
Una tendenza identica a quella che si è ripresentata nel confronto fra 2014 e 2018: rispetto alle europee, il Pd renziano ha conservato solo il 49,5% dei voti, cedendo il 16,5% dei suoi elettori ai Cinque stelle e addirittura il 6,9% alla Lega di Salvini.
Va tutto sommato meglio alle (tante) liste che si collocano a sinistra dei dem: gli elettori che nel 2013 avevano scelto Sinistra ecologia e libertà, la lista capeggiata dall'ex presidente della regione Puglia Vendola, sono poi confluiti nel 2018 in due partiti coerenti con la scelta come Liberi e uguali (46,4%) e Potere al Popolo (22,2%), per un totale di quasi 7 voti su 10 rimasti nell'alveo della sinistra.
Ora la palla passa ad altri due storyteller: alla prova dei fatti vedremo chi rispetterà le promesse e quindi confermerà la fiducia acquisita dai propri elettori.
Axel”
SOCIAL
Follow @Tafanus