Recensione del film "Le Fidèle (di Angela Laugier)
Regia: Michaël R. Roskam
Principali interpreti: Matthias Schoenaerts, Adèle Exarchopoulos, Jean-Benoît Ugeux, Eric de Staercke, Nathalie Van Tongelen, Sam Louwyck, – 120 min. – Belgio, Paesi Bassi, Francia 2017
Gino, detto Gigi, e Benedicte, detta Bibi, si erano conosciuti al termine di un raid automobilistico: lei, di famiglia alto borghese, era pilota di una vettura in gara; lui, spettatore, si trovava lì per interesse professionale: si occupava (o almeno così le aveva fatto credere) di import-export di automobili. Era nata dopo questo incontro la loro irresistibile attrazione, sfociata subito nell’amore più appassionato, quello che cambia la vita e le dà un senso. Per lui avrebbe potuto anche diventare l’occasione per lasciare alle spalle il proprio penoso passato da orfano, quello che dall’adolescenza gli aveva insegnato a difendersi con feroce determinazione, insieme al gruppo di amici con i quali aveva condiviso le strade delle periferie fiamminghe e la solidarietà violenta, unica difesa di chi vive abbandonato dal mondo. Con loro era diventato adulto e con loro aveva accuratamente progettato e organizzato numerose rapine a mano armata che avevano assicurato all’intera banda di che sopravvivere per qualche tempo. Della sua vita segreta, da sbandato delinquente, aveva accennato a Bibi, che dapprima non l’aveva preso molto sul serio, ma che aveva dovuto presto prendere atto della realtà quando, dopo l’ultima audacissima rapina, fallimentare, era arrivato il carcere e la loro forzata separazione. La fortuna ora sembrava aver abbandonato Bibi; l’azienda paterna era finita sotto il controllo della mafia albanese, mentre la sua salute era compromessa irreparabilmente: non era riuscita a portare a termine la gravidanza a lungo desiderata e la sua stessa vita era in pericolo, né al ritorno dopo la condanna, Gigi avrebbe potuto rivederla…
Preceduto da una fama discreta, presentato lo scorso anno a Venezia, quindi al Film Festival Internazionale di Toronto, interpretato da attori di tutto rispetto, sotto la direzione di Michaël R. Roskam, giovane e talentuoso regista fiammingo al suo terzo lungometraggio*, questo film è, per me, nel suo insieme, molto deludente. Eppure l’attesa di un buon film sembra all’inizio realizzarsi: molto promettente il flashback rapido dell’infanzia di Gino mentre scorrono i titoli di testa; molto bella la successiva narrazione dell’amore nascente e dei primi incontri appassionati fra Gino e Benedicte (rispettivamente Matthias Schoenaerts e Adèle Exarchopoulos, entrambi ottimamente calati nella parte). A questi momenti rapidi e folgoranti (di quelli che non si dimenticano facilmente, grazie al racconto brioso e veloce, spesso ellittico, e subito molto coinvolgente), che occupano all’incirca la prima parte del film, fa seguito la violentissima rappresentazione delle sciagurate imprese di lui, e l’incupirsi progressivo dell’intera seconda parte sotto i colpi delle disgrazie che, con effetto cumulativo, travolgono lei, il suo desiderio di maternità, il suo amore per la vita, nonché l’aspirazione a rivedere lui, ciò che trasforma la loro bella storia d’amore in un mélo noir dal crescendo così banale da annullare l’aspetto tragico della vicenda. Che peccato!
* (QUI la mia recensione molto positiva della sua precedente pellicola)
In un post introduttivo, avevamo raccontato di Joan Chamorro, questo straordinario scopritore ed allevatore di talenti, capace di mescolare ragazzetti poco più che bambini ad affermati jazzisti coi capelli bianchi, facendo crescere i primi, e ridonando a volte freschezza ai secondi.
Questa volta il post è dedicato a Rita Payés, una giovanissima cantante, nonché ottima solista di trombone. Una ragazza che sotto l'aspetto un po' trasgressivo, presenta delle qualità musicali di assoluta serietà e preparazione. Un video da non perdere.
Dopo il caso delle minacce ai tecnici del Tesoro, il premier si è schierato dalla parte del suo portavoce. Dobbiamo quindi pensare che quelle idee siano le sue di MARIO CALABRESI
La domanda è semplice e molto chiara: il presidente del Consiglio pensa che il ministro Tria e i funzionari del Tesoro siano infedeli e remino contro il governo? Pensa che vadano sostituiti come da giorni ripete una campagna di stampa orchestrata dal Movimento 5 Stelle e - ora lo sappiamo - guidata dal suo portavoce Rocco Casalino? Non era difficile rispondere, sarebbe bastato un sì o un no, una frase di circostanza di difesa delle istituzioni. Ma forse anche questo è chiedere troppo a chi dimostra di non avere alcuna autonomia di scelta e di indirizzo.
Invece si è scelta la strada del distinguo burocratico: "La diffusione dell'audio che sta circolando in queste ore - ha affermato il premier - configura condotte gravemente illegittime che tradiscono fondamentali principi costituzionali e deontologici". Il problema non è il contenuto del messaggio, non sono le minacce, ma il fatto che quell'audio sia stato diffuso (sic!)
A questo punto non ci resta che tirare una conclusione logica: Casalino è il portavoce del presidente del Consiglio, dobbiamo quindi pensare che quelle idee sono di Conte. Il premier lascia fare e si ritaglia - anche grazie alla sua condotta nel concorso per diventare professore - un nuovo ruolo: da avvocato degli italiani ad azzeccagarbugli nazionale.
Sconfortante il tutto. Le minacce di Casalino, il fatto che queste minacce provengano dal portavoce del maggior partito italiano, i toni fin troppo morbidi usati da Mario Calabresi, il fatto che questo Conte, pro-tempore Vice Secondo Ministro, asservito a due padroni che non sono s'accordo su nulla fra di loro, abbia accettato - ed eserciti nel peggiore dei modi - il ruolo di materasso silenzioso e obbediente fra du padroni che fanno a botte.
Vergognosa la trovata di tentare di spostare l'attenzione non "sulla luna, ma sul dito che indica la luna".
No, caro Vice Secondo Ministro: gli italiani non ci stanno, ad adottare la SUA scala di valori di comodo. Il problema che quell'audio sia stato diffudo è solo "il dito". La luna è da cercare nel contenuto in stile minaccioso e ricattatorio di ciò che abbiamo potuto ascoltare. E l'episodio vergognoso è che questo personaggetto, sbalzato su un seggiolone più grande di lui, abbia dimostrato ancora una volta la sua totale incapacità di governare le crisi.
Si faccia e ci faccia un favore, Vice Secondo Ministro: metta la sua roba in mezza dozzina di scatoloni, e lasci perdere la politica. Non è per lei. E rischia di rovinare una bellissimo (e lunghissimo - anche se non affidabilissimo) curriculum vitae, con un aggiornamento che non servirà a migliorarlo.
Recensione del film "Un affare di famiglia"(di Angela Laugier)
Titolo originale: Shoplifters
Regia: Hirokazu Kore’eda
Principali interpreti: Lily Franky, Sakura Andô, Mayu Matsuoka, Kirin Kiki, Jyo Kairi, Miyu Sasaki, Kengo Kora, Chizuru Ikewaki, Sôsuke Ikematsu, Yôko Moriguchi, Moemi Katayama, Yuki Yamada, Akira Emoto, Naoto Ogata – 121 min. – Giappone 2018.
Nelle nostre sale (poche) è distribuito in questi giorni il film che quest’anno ha vinto la Palma d’oro a Cannes, ovvero questo magnifico Un affare di famiglia, diretto da Hirokazu Kore’eda, regista giapponese che conosciamo per aver girato, sul tema della famiglia, alcuni tra i film più belli degli ultimi anni*. Il titolo in italiano, questa volta, sembra individuare la questione principale del film: quali valori distinguono una famiglia vera da altre forme di convivenza; quello inglese, adottato quasi universalmente, invece, sottolinea la singolarità dei personaggi che compongono la famiglia di cui si occupa il regista: Shoplifters, cioè taccheggiatori. I protagonisti dell’ultima fatica del regista, effettivamente, vivevano violando continuamente la legalità: piccoli espedienti, furterelli per arrotondare le loro magre entrate facevano allegramente parte della loro esistenza quotidiana: di quella della vecchia nonna (Kirin Kiki), la cui pensione non era propriamente quella di vecchiaia; di quella del capo-famiglia Oshamu Shobata (Lily Franky), discontinuo operaio edile nonché abilissimo ladruncolo; di quella di Nobuyo (Sakura Andò), sua moglie, impiegata in una tintoria, che senza problemi si impadroniva degli oggetti dimenticati nelle tasche degli abiti da lavare e infine di quella di Aki (Mayu Matsuoka), la cognata, che, per sostenere i costi dell’università, lavorava in un peep-show…Una famiglia, dunque, un po’ anomala, quanto meno, “trasgressiva” alla quale forse nessuno affiderebbe volentieri i propri figli…prima di aver visto il film, naturalmente!
Nella periferia degradata di Tokio, nascosta dietro siepi e alberi selvatici, si trovava l’abitazione fatiscente di questa gente marginale, ignorata dal mondo, che aveva scelto liberamente di condividere le poche risorse di ciascuno, per aiutarsi e difendendersi reciprocamente in uno spirito di piena solidarietà, di comprensione affettuosa, di ascolto e di amore generoso, capace di accogliere anche i bambini come Shota (Sôsuke Ikematsu), salvato dalla strada, nutrito e fatto crescere con cura, o come Yuri (Miyu Sasaki), chiusa fuori di casa a soli quattro anni, nel gelo dell’inverno dai “genitori” che l’avevano lasciata al freddo e alla neve, per continuare a litigare e a odiarsi indisturbati, perché nella ricca società giapponese, anche questo era stato possibile. La nonna, con la sua saggezza, era la guida prudente di ogni decisione familiare; era stata per questo un po’ riluttante ad accogliere la piccola, poiché temeva i guai che avrebbero potuto mettere in crisi quella sua famiglia unita: avrebbe preferito restituirla dopo averla sfamata e curata per le ferite reali e metaforiche di cui Yuri portava le tracce nel corpo e soprattutto nell’anima. Era stata lei, però, a voler rimanere scegliendo la famiglia vera, del tutto indifferente ai legami di sangue. I guai paventati sarebbero arrivati, purtroppo, in nome della difesa strenua della legge, applicata da giudici incapaci di intendere le ragioni dell’umanità, sostenuti però dal consenso di psicologi, assistenti sociali e benpensanti, mentre il battage di giornalisti alla ricerca di scandali, ne completava l’opera distruttiva. Ancora una volta, questo grande regista ci chiede che cosa sia davvero la famiglia, chi sia davvero il padre con questo film bello e disturbante, in cui la gioia è anche quella di una bella passeggiata sul mare che con le sue acque tranquille sembra capace di cacellare i dolori e le angosce del mondo, almeno prima della furia che potrebbe travolgere ogni cosa. Difficile dimenticare l’ansia di paternità di Oshamu Shobata, che di fronte a Shota, il ragazzino raccolto dalla strada e allevato con cura, che sta per tornare in collegio a cui i giudici lo avevano spedito… nel suo interesse, naturalmente, lo supplica di chiamarlo papà.
Non era il padre naturale, quello di sangue, l’unico riconosciuto dalla legge (benché sconosciuto al figlio), per il quale non restano, al di là delle sentenze, che le bellissime parole manzoniane: “non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre”.
Dunque Casa Calenda chiude la cucina. Ma il padrone di casa c’è rimasto male e ne ha per tutti: Renzi «si è comportato in modo non serio», prima accetta poi fa «uscire i retroscena», l’ex ministro voleva solo far parlare «due che non si rivolgono la parola dal 4 marzo» (Renzi e Gentiloni, ndr), Orfini che chiede lo scioglimento del Pd «è un tipo strano, quando io ho chiesto di superare il Pd mi ha dato del traditore», insomma tutti pazzi, «il PD sta diventando un posto in cui l’unico segretario che si dovrebbe candidare è il presidente dell’associazione di psichiatria».
Oggi Calenda ha convocato la stampa estera, si attendono nuove esternazioni. Intanto ieri le agenzie gli attribuivano persino l’augurio di «estinzione» al Pd (smentito), ma una parte dei renziani la prende malissimo. Il romano Luciano Nobili twitta severo: «Non hai votato Pd e sei stato accolto a braccia aperte. Per dare una mano. Non per chiuderci». Le reazioni sono a catena. Roberto Giachetti, in odore di candidatura a congresso, da buon radicale inizia un digiuno per ottenere la convocazione delle assise. Lo spettacolo che il Pd offre, dice un video, «è indecoroso», serve «un’assemblea straordinaria», «È inutile che ci avventuriamo in congressi regionali staccati da un disegno nazionale. Chiedo di unificare i percorsi congressuali e fare il congresso entro novembre», «Dobbiamo smetterla di suonare la nostra musichetta come l’orchestrina sul Titanic».
La maionese è impazzita, i dirigenti ormai litigano a pesci in faccia. Maurizio Martina, il segretario ignorato da Calenda e accusato di traccheggiamento da Giachetti, corre ai ripari: «Adesso basta», verga sull’Huffington post, «È possibile ora chiedere a tutti i dirigenti nazionali del mio partito una mano perché la manifestazione del 30 settembre a Roma sia grande, bella e partecipata?». Quanto al congresso, si farà: «Con le primarie a gennaio sarà un percorso cruciale per confrontarci sulla prospettiva e allargare al massimo la partecipazione».
Ma la pace non torna. Anzi. Neanche è sopita la storia della cena che il Pd si infila in un’altro litigio interno. L’oggetto stavolta è il rinvio dell’ospitata di Barbara D’Urso alla trasmissione di Bianca Berlinguer su Raitre. Mezzo Pd si scatena contro la Rai. Alessia Morani parla di «svolta peronista del regime gialloverde», Pina Picierno di «censura incomprensibile», Raffaella Paita di «atto inqualificabile». E invece Michele Anzaldi, uno che di Viale Mazzini è esperto, bacchetta le colleghe: «Non capisco cosa c’entri la censura, D’Urso è diventata un esponente politico? Qui siamo di fronte ad un caso di ricerca di audience con ogni mezzo, mi pare. Ma che il servizio pubblico eviti di dare a un conduttore concorrente ulteriore visibilità e legittimazione mi sembra un’ovvietà». In effetti dall’azienda c’è chi spiega: «D’Urso, conduttrice di Pomeriggio 5 su Canale 5, domenica scorsa è stata battuta dalla nostra Mara Venier, conduttrice della Vita promessa su Raiuno: perché la Rai dovrebbe dare un aiutino alla concorrenza?» (...lo confesso... il Grande Problema Barbara D'Urso che infiamma il PdR mi mancava... Non si può seguire tutto! NdR)
Ma il Pd ormai ha perso la bussola. Non si divide solo fra pro e contro D’Urso, c’è anche una terza posizione: quella di chi regola vecchi conti in famiglia (renziana): «Bianca Berlinguer, che accusò il Pd di averla censurata dal Tg3, dimostri oggi che quella battaglia fu per la libertà e non per sé», intima Tommaso Cerno (*), deputato ed ex condirettore di Repubblica.
(*)Un piccolo appunto alla peraltro stimatissima Daniela Preziosi: parlando di "Tommaso Cierno che intima" sarebbe stato opportuno ricordare chi sia Roberto Cierno: un tizio che del 1995 è stato candidato alle amministrative di Udine per Alleanza Nazionale; nel 2016 Cierno fa una folgorante carriera nel gruppo Renzi/De Benedetti, editore di Renzubblica e de l'ESpresso. il 26 luglio viene nominato Direttore de l'Espresso; esattamente tre mesi dopo (il 25 ottobre dello stesso anno) conquista anche lo strapuntino di Vice Direttore di Renzubblica.
Sarebbe stato un ottimo modo per ricordare sia la barzelletta dell'indipendenza del gruppo Renzubblica/l'Espresso dalla politica e dal grande capitale carico di debiti, sia per ricordare uno dei tanti modi adottati dal PdR per suicidarsi.
Voglio quindi ringraziare sia coloro che mi seguono dalle origini (11 anni e 9 mesi fa), sia i "newcomers". Ringrazio chi è spesso d'accordo, e ringrazio anche chi è in disaccordo, ma resta capace di esprimere il suo dissenso mantenendo toni civili, rispettando le regole della casa, e magari argomentando il suo dissenso. Di quelli (ce ne sono) che avevano creduto di trovare il questo blog LIBERO una valida alternativa alla playstationj, ho sempre fatto volentieri a meno, e continuerò a fare a meno.
Un grande traguardo per un blog personale, perchè negli ultimi anni l'esplosione dei social ha mandato in pensione molti blog e siti individuali. Il nostro è ancora qui, e continuerà fin quando avrò occhi, mani e cervello funzionanti a fare il suo mestiere: quello del tafano.
Dieci milioni di post scaricati in 11 anni e nove mesi vuol dire, tradotto, oltre 850.000 pagine scaricate all'anno. Quasi 12 anni senza padroni. Una battaglia continua contro tutti i fascisti, i razzisti, gli evasori, gli sfruttatori, i politici ladroni, e quelli incompetenti (che forse fanno più danni dei ladroni).
Infine, ringrazio di cuore per la pazienza la mia famiglia, alla quale la gestione di questo sito ha rubato tanto del mio tempo.
In questa serie di post, dedicata da anni a quelle che sono a mio giudizio le migliori "Perle Musicali" (pezzi dedicati a singoli musicisti o vocalist) non si parla solo di un esecutore, ma di un prodigioso "allevatore" catalano di talentuosi giovani jazzisti, che scova scrutando nei conservatori, e in ogni luogo dove si pratichi musica a qualsiasi livello; li "imbarca", li raffina lavorando di cesello, e alla fine li lancia nella mischia delle grandi platee.
Joan Chamorro non ha un modulo fisso: ha un suo sestetto (con presenze stabili di jazzisti adulti e affermati), ma ha creato anche una grande orchestra costituita in gran parte da professionisti adulti, fra i quali inserisce sistematicamente giovanissimi talenti, non relegati solo ai ruoli di suonatori di fila. In genere (non so se per vezzo o per via della calvizie) Joan Chamorro - 56 anni - veste di nero, con un cappellaccio calcato sulla testa... Gli mancano solo gli occhialoni scuri da cieco per sembrare uno dei Blues Brothers. A volte si limita a dirigere, ma molto più spesso suona nei suoi gruppi (di preferenza il contrabasso, ma non disdegna il sax - dal tenore al soprano).
E oggi, grazie a lui, la Spagna - abituata a canzoni melodiche piuttosto banalotte - si ritrova con un esercito di giovanissimi jazzisti (a volte quasi dei bambini), e con una produzione musicale sterminata.
Da alcuni anni il suo "frutto prelibato" è una giovanissima ragazza, Andrea Motis, che canta, suona la tromba e il sax, e adesso ha iniziato anche a registrare delle sue composizioni. Bravissima, ma diamole il tempo di crescere ancora. Evitiamo di far nascere il "motismo". Andrea Motis deve crescere col suo passo, senza che nessuno la carichi di aspettative troppo pesanti da portare sulle spalle a 22 anni. Ci ha già provato Repubblica, dopo un concerto di Chamorro e Motis in Italia, a sparare paralleli fra Andrea Motis cantante con Norah Jones, e di Andrea Motis solista di tromba con Chet Baker. Succede, quando chi scrive di jazz lo fa dopo aver ascoltato poco jazz, ed averne capito ancora meno. Fra Norah Jones (a proposito, sapete che Norah è stata "scoperta" dal mio compianto amico Renato Sellani?) e Andrea Motis c'è un abisso: non di qualità, ma di timbri. La voce adulta, vellutata, vagamente allusiva di Norah è una voce calda, intrigante, morbida: bravissima. La voce di Andrea Motis è una voce capace di swingare a interpretare benissimo i classici del jazz, ma ha (non è colpa sua, ma dell'età) alcune "asprezze" quasi da voce infantile. Prima di sparare paragoni impropri, diamole il tempo di far "maturare" le corde vocali. Ed iniziamo col ricordarvi la voce di Norah Jones in un celeberrimo duetto con Tony Bennett:
Stesso discorso per il parallelo avanzato dall'articolista di Repubblica fra la tromba di Motis e quella di Chet Baker. Anche qui una topica, ma di segno opposto. Bravissima, ma in modo diverso. Nessun parallelo possibile. Ascoltate qualche pezzo di Motis, e poi ascoltate (se ne trovano ancora molti, su youtube, qualche brano di Chet Baker degli anni sessanta/settanta, quando non era ancora devastato dalla droga. I suoi "But not for me", "Time after time", "My funny Valentine", sono delle autentiche pietre miliari dell'epoca del vinile. Chet sembra suonare quasi solo per se stesso, per ascoltarsi. La giovane Motis sa essere dolcissima, nei suoi assolo (sia alla tromba che al sax - che frequenta di meno), ma la sua sintassi è incommensurabilmente più dura di quella di Baker.
In questo lungo (forse troppo) post introduttivo, sono inseriti alcuni brani che tendono a far capire quale sia la latitudine nella quale spazia questo autentico genio della musica, e questo benemerito dell'educazione musicale giovanile.
E prima di chiudere, voglio darvi un'assaggino di cosa stia facendo Joan Chamorro coi giovani (a volte bambini...) Vi segnalo in particolare la perfezione musicale, unita ad un aspetto decisamente infantile, della piccola "solista di tromba" in blue jeans, della occhialuta sassofonista di fila (seconda da sinistra), della tranquillissima chitarrista... cercate da soli, c'è di tutto, nella "Sant Andreu Jazz Band" creata da Chamorro mettendo insieme stelle affermate e bambini/ragazzi. Per fortuna, non si tratta di bambini prodigio, ma di frutti della passione, dello studio, del lavoro. Quando questi ragazzini ascoltano suonare "quelli grandi", sembra che vogliano succhiare dalle loro tecniche e dalle loro improvvisazioni tutto ciò che possono...
In seguito, proporrò singoli post monografici destinati ad alcune dellepiù grandi performances sue e dei suoi giovanissimi adepti. Se un giorno l'Europa dovesse istituire un "Premio per la Diffusione della Cultura Musicale fra i Giovani" sarò in prima linea per proporre Joan Chamorro, il Pigmalione.
Mr Long (Cheng Chang) era un fascinoso e tenebroso giovanotto taiwanese che conduceva una doppia vita: quella del cuoco raffinato, e quella del killer che, per denaro, diventava una impassibile macchina di morte, grazie alla destrezza dei suoi movimenti felpati e alla sua abilità di muoversi nell’ombra.
Si spostava velocemente, in silenzio, senza lasciare tracce, avendo studiato accuratamente ogni volta il piano che lo avrebbe reso insospettabile e inafferrabile… o quasi! L’ultima sua impresa, in Giappone, infatti, non era andata così: messo in un sacco e più volte ferito con colpi d’arma da fuoco, era riuscito a sopravvivere, non si sa come; era addirittura guarito, grazie all’assistenza affettuosa di un bambino che, silenziosamente, gli aveva fatto trovare l’occorrente per disinfettarsi e curarsi.
Inizia in questo modo, sotto il segno dell’amicizia disinteressata col piccino la rigenerazione fisica e “morale”di Long, che ora, nella perferia di una grande città giapponese, riprende a fare il mestiere di cuoco, facendosi conoscere, apprezzare e stimare da molti e, purtroppo, anche riconoscere da qualcuno che avrebbe preferito dimenticare…
Forse perché era stato preceduto dal battage che di solito si riserva ai film ammessi in concorso al Festival di Berlino, questo Mr. Long aveva acceso la mia curiosità, cosicché, senza altre informazioni, ho voluto vederlo prima che venisse sostituito dai film della nuova stagione. Dico subito che le mie attese, forse eccessive, sono state parzialmente deluse, ciò di cui mi dispiaccio. Riconosco, però, che si tratta di un’opera singolare, in cui si mescolano e si fondono con grazia favolistica temi, stilemi e registri di culture diverse, nell’intento evidente di costruire un film che fa dell’amicizia e dell’umana comprensione il centro narrativo, al di là della diversità delle tradizioni, dei comportamenti e delle culture: nulla è insormontabile se si riconosce l’umanità dell’altro che viene da fuori, bisognoso di cure e di cibo. Un ottimismo sorridente, quasi alla Kaurismaki, accompagna una vicenda che si colloca fra il gangster-movie ( violentissimo e grandguignolesco) e il Wuxiaplan (col suo cavaliere errante e solitario) senza disdegnare, per altro, le suggestioni del teatro interculturale europeo e giapponese sviluppatosi nel corso del ‘900. È un film un po’ “facile” e sicuramente anche un po’ ruffiano, ma è girato con eleganza e interpretato con grande professionalità da Cheng Chang, che già avevamo visto all’opera in The Assassin (2015), affiancato dal piccolo Kenji (Shô Aoyagi). bravissimo e simpaticissimo.
Stipendi, sprechi, vitalizi: le tre promesse dimenticate di Di Maio
Il 2 marzo il leader grillino annunciò in piazza il primo decreto del suo governo. L'esecutivo Conte ha compiuto cento giorni, ma i soldi dei parlamentari non sono stati toccati. Come i presunti sperperi. E le pensioni sono state solo ricalcolate
ROMA - Adesso che i fatidici cento giorni della luna di miele giallo-verde sono passati, è arrivato il momento di chiedere a Luigi Di Maio - già candidato premier e attuale vicepresidente del Consiglio - che fine abbiano fatto le nove pagine che lui sventolava in piazza del Popolo la sera del 2 marzo scorso. Non è una domanda oziosa, perché in quelle nove pagine non c'erano gli appunti per il suo ultimo comizio prima del voto, ma qualcosa di molto più importante.
M5s, quando Di Maio prometteva in piazza: "Al primo consiglio dei ministri taglio stipendi, vitalizi e 30 miliardi di sprechi"
«Vi presento – disse quella sera, con il tono del presentatore che sta introducendo sul palco un ospite a sorpresa – il primo decreto legge del primo Consiglio dei ministri del Movimento 5 Stelle». Naturalmente eravamo tutti curiosi di sapere cosa ci fosse scritto in quei fogli che lui mostrava al pubblico. E lui lo rivelò: «E’ un decreto in tre punti. Al primo punto dimezziamo lo stipendio ai parlamentari della Repubblica! (fragoroso applauso della piazza). Al secondo punto togliamo i vitalizi ai politici! (altro lungo applauso). E al terzo punto di questo decreto tagliamo 30 miliardi di sprechi e privilegi e li rimettiamo in aiuti alle famiglie che fanno figli, a chi perde il lavoro e ai pensionati!(coro entusiasta: “O-ne-stà, o-ne-stà”)».
Giuseppe Conte, il burattino che non riesce a diventare Pinocchio
Non vanno liquidate con le risate le ricorrenti piccole-grandi truffe curriculari del premier Giuseppe Conte che accademicamente è una figura ben più drammatica che ridicola. Innanzitutto perché trucca la grande tradizione italiana del professore-politico, da Moro a Spadolini, da Amato a Monti, da Colletti a Melograni, da Marco Biagi a Rodotà. Se politicamente è infatti il burattino che non riesce a diventare Pinocchio, dal punto di vista universitario è il professore delle mezze misure spacciate per intere nel curriculum gonfiato, delle mezze porzioni in biblioteca, delle mezze calzette indossate alla New York University, dei mezzi perfezionamenti e del finto gran rifiuto a un concorso invece rinviato, tan-to-chi-se-ne-ac-cor-ge: tié
Cominciamo appunto da quest’ultima, dalla sua mezza rinunzia al concorso per la cattedra di Diritto Privato da Firenze alla Sapienza di Roma, che non è una facile formalità perché la legge Gelmini ha reso incomprensibilmente impervio il trasferimento dei professori da una sede ad un’altra. Conte sa dunque che l’occasione non si ripeterà e lo sa pure il suo maestro Guido Alpa che del Diritto è un’eccellenza e dunque ha l’audacia tosta di affrontarlo: “Farebbe bene a presentarsi perché non violerebbe nessuna legge”. Più contortamente il premier si rifugia, con l’astuzia della paglietta napoletana, nella mezza rinunzia che è, come dicevamo, una recidiva perché giocata sugli stessi imbrogli linguistici del curriculum che Conte stesso presentò gonfiato. Ora ha detto “riconsidero la mia candidatura” dove “riconsidero”, nella sua vaghezza, spaccia per orgogliosa rinunzia il furbo rinvio. Allo stesso modo, cento giorni fa spacciò, nel curriculum accademico, i suoi turistici passaggi nelle biblioteche americane per visiting professorship e i suoi studi di lingue per titoli giuridici ottenuti in sedi prestigiose, come l’International Kultur Institut di Vienna che però è solo una scuola di tedesco.
Diciamo la verità: noi italiani nel finto curriculum tendiamo a cascarci come nelle buche dell’asfalto romano. Quando Conte accettò di fare il premier per procura capimmo che sarebbe stato il pupazzo di Di Maio&Salvini, il vice dei suoi vice, ma non ci accorgemmo della dilatazione dei titoli forse perché nell’università italiana nessuno controlla registrazioni e documenti e si dà per approssimativamente vero il curriculum di chi ha comunque cercato di migliorare la propria preparazione all’estero. Anche adesso, quando abbiamo sentito da Conte che avrebbe “riconsiderato” la candidatura, abbiamo creduto all’ovvietà del rifiuto per amor proprio e non al prender tempo, che in Italia è la morbidezza del peggio.
E’ vero che aveva presentato la domanda quando neppure immaginava che sarebbe diventato presidente del Consiglio, ma è altrettanto vero che, da premier, avrebbe voluto superare il concorso di nascosto per non esibire quei conflitti di interesse che sono evidenti. E non perché esista una legge – Guido Alpa ha ragione – che esplicitamente vieta a un premier di partecipare a un concorso, ma perché la presidenza del consiglio è una funzione palesemente incompatibile con qualsiasi altro lavoro statale: quale professore potrebbe serenamente valutare il responsabile ultimo della macchina amministrativa dello stato di cui è dipendente? E come mai Conte, avvocato e dunque giurista, mostra di non saperlo? Forse perché si sente anche lui una finzione giuridica dell’Italia a 5 stelle, l’Agilulfo di Calvino, che non era un cavaliere ma una lucida armatura vuota. Sono del resto impalpabili emanazioni della piattaforma Rousseau quasi tutti i parlamentari che Grillo e Casaleggio reclutarono in Rete, più numerosi e più fake delle loro fake news. Conte è il loro leader supplente. E forse è così consapevole di fare le veci a fuoco lento da dire con sincerità drammatica che la cattedra a Roma è il sogno che insegue da una vita, come se la presidenza del Consiglio, che occupa senza avere conquistato, non fosse un sogno veramente realizzato ma un incubo: “da precario” ha commentato il New York Times. Insomma Conte è il “quo vado” di Zalone: cerca ancora il posto fisso.
E veniamo ai giornali americani che hanno sgamato l’italica furbizia del professore. Conte se l’è presa con noi di Repubblica quando, per la seconda volta, e con il tono solenne della sofferta abdicazione, ha annunziato di rinunziare alla cattedra-trono di Roma. Sino ad oggi, per la verità, non ha ancora scritto la prevista, formale lettera al responsabile amministrativo del concorso e dunque solo su Facebook ha abbandonato con una gravità pontificale, – mancava solo il latino: “declaro … renuntiare“. Ma, come dicevamo, ha accusato un giornale di denigrarlo ” e non ne faccio il nome – ha aggiunto sventolando platealmente repubblica – perché sono il premier e credo nella libertà di stampa”.
In realtà il Conte universitario è stato sempre smascherato dai reporter americani, ora da quelli di politico.eu, e cento giorni fa dal New York Times. Più di noi,infatti, gli anglosassoni credono in quella, a volte inafferrabile, eccellenza dell’accademia italiana che diventa politica. La considerano diversa dalla loro che non ha mai commistioni di nessun genere con la politica, – out of the question – ma ne apprezzano la qualità essenziale anche se antiquata, classica, barocca. In Conte hanno invece fiutato la solita, sostanziale furbizia italiana, che conoscono altrettanto bene. Perché, bisogna dirlo, nell’università italiana, ci sono tanti professori alla Conte, ma nessun altro prof arcitaliano era mai arrivato alla presidenza del Consiglio. Anzi, i professori, nella nostra storia politica, dovunque abbiano militato, sono stati la risorsa della democrazia, la riserva della repubblica. E stiamo parlando, per allungare l’elenco, anche di Quintino Sella e Giovanni Gentile, Luigi Einaudi e Concetto Marchesi, Gaetano Martino, Aminore Fanfani, Beniamino Andreatta, sino a Sergio Mattarella.
Giuseppe Conte, parodizzando questa tradizione, è una personalità drammatica della nuova Italia nazionalpopulista. Non perché è un premier ectoplasma, forma cui altri danno forma, il “provvisoriamente al posto di”, il “signor nel frattempo”, ma perché non appartiene a quella nobiltà, ed è solo un cadetto dell’accademia, un professore dimezzato.
Francesco Merlo
In "Renzubblica", dopo la morte clinica dello spaccone Matteo Renzi, qualcosa sta cambiando: il padrone. Una volta era Renzi. Oggi Renzubblica tira fuori dal freezer, dove li aveva surgelati, due fior di giornalisti: il giornalista d'inchiesta Sebastiano Messina, e l'epigono di Fortebraccio Francesco Merlo. Ma De Benedetti "tiene famigghia", e coi suoi due pezzi da novanta, indovinate chi attacca, del "Duo delle Meraviglie", i due comici prima del 4 marzo avversari feroci e adesso compagni di merende a presidio della salvaguardia delle poltrone? Avete indovinato: attacca il perdente, l'uomo in Facis, quello che non ha niente da dire ma lo dice anche male, sbagliando i congiuntivi, i condizionali, le capitali, e persino la regione di appartenenza di Matera, Capitale della Qultura".
E poi si lamentano che la ggente da questo giornale, che ho testardamente comprato per 40 anni, si stia allontanando in maniera inarrestabile... Quello che era stato per decenni un giornale d'opinione, nonostante gli ultimi tentativi di riacquistare (a metà) la sua verginità, ora rischia di diventare il servo di due padroni. Come di regolerfà l'Ingegnere? Targhe alterne? Misurazione settimanale dei sondaggi? Per ora sembra orientato a deridere di più il "poliziotto buono" (e perdente), che non il razzista. Si sa mai che possa durare...
Presentarvi in maniera sintetica Alexa non è un compito facile. Non si finisce di approfondire circa una delle sue molteplici attività, che Alexa ne ha inventate altre due o tre. La gara ad inseguimento con Alexa è una gara persa. Chi vuole approfondire quale sia il vastissimo range delle sue attività, trova tutto sulSUO SITO WEB , molto articolato, che da metà luglio è stato completamente rinnovato. Ma per darvi un'idea, vi consiglio caldamente la visione di questo filmato, preso dal sito di Alexa, che descrive una sua "ordinaria giornata di straordinaria follia". Poi passerò all'inglese, perchè questa è una intervista ad Alexa, e domande e risposte saranno ovviamente espresse nell'unica lingua che ci accomuna.
An (extra)ordinary day in the life of Alexa Tarantino
Hi Alexa
First of all, let me thank you for this interview. I'll start by a short intro for you and for my readers. I must confess that until April, 2017, I wasn't aware of your existence. I discovered you by a pure chance: I knew of the two-days gala at the N.Y. Lincoln Center to celebrate 100 years from he birth of Ella Fitzgerald, with guest stars Joe Lovano, Kenny Washington and Roberta Gambarini, and I asked Roberta whether there was any streaming for those dates. Roberta was very kind and sent me in minutes the URL of the "Jazz at the Lincoln Center" (JALC). I'll put this URL down here, so that my friends can enjoy the events of JALC free of charge frome their homes (just in case: donating is non prohibited, and the amount of donations is free). At the URL you can find the dates, and you can receive the streaming in very good quality. Just remember that Italy's time is six hours later then NY time:
This was the first time I saw you, and I noticed you, for many reasons:
-a) you were the only female musician in the orchestra;
-b) you were the youngest member of the orchestra;
-c) you were playng an instrument not so usual within women
-d) you had an italian family name..
-e) last but not least, you were so "giving" in relations to the other musicians.... showing appreciation for their performances, and great amusement for the "chases" between Roberta Gambarini and Kenny Washington, or with Joe Lovano...
But now let's start with the interview
-01) Alexa, first of all thank you for your interview. I know that it's not fair to ask the age to a young lady, but you look so young, that I feel I can dare: how old are you? and what's your birth place?
Grazie Antonio, for asking me to do the interview, and for supporting and following my career. I am 26 years old. I was born in Hartford, Connecticut. I grew up spending time in West Hartford, CT and Rockport, Massachusetts, which is where I direct my summer jazz program, Rockport Jazz Workshop
-02) I have already asked you whether your family's name has something to do with Italy, and you told me that your family comes from "an Italian town called Taranto". May I ask you which generation of your family moved from Taranto to the US? Your father? Your grandfather? My great-grandfather, I think his name was Elio Tarantino, moved from Italy to the US. My grandfather was born in Connecticut, and my father was born in Washington, D.C. However, my family went back to Italy every other year when I was a little girl. All of the Tarantino family would travel and spend three weeks there together. Those are some of my favorite memories!
-03) Is italian still in your family? Unfortunately, no. We still use some of our favorite words and phrases, but nobody is really fluent. I spoke my best Italian as a little girl when we would travel back and forth. I studied it in college for two years to keep up with it, but wish I could say I was fluent!
-04) Tell us about the first time you put your lips on a sax. How old were you? It was a sort of thunderbolt, or somebody pushed you? Who? and did HE or SHE had to push strong, or were you happy to receive that push? Did you start with the alto-sax, or with something else? I believe I was 9 or 10 years old when I first played a saxophone. I was in the fourth grade of elementary school. It was definitely a “thunderbolt”, as you put it. I was inspired by a live performance that I had seen. There was a young woman playing the saxophone and I just knew I had to play it too. Nobody had to push me. In fact, my parents bought me the saxophone and then told me, “we are not going to push you to practice or audition or anything, this is all up to you.” They wanted me to love it and to work at it myself. That was the best thing they could have done for me. They made me responsible for my own success and fulfillment. I started on alto saxophone but also played piano pretty seriously until high school, where I decided to focus only on saxophone.
-05) I guess that you went to a regular music school later. At what age? How long? And did this happen in your birth-place (the Connecticut), or in NY? My high school in Connecticut was a very serious jazz school, although it was just a normal public high school. It happened to have a great jazz program with great educators. When I was 18, I moved to Rochester, New York (about 6 hours from New York City) to study at a music conservatory called the Eastman School of Music. I stayed here for five years, and I received my Bachelor of Music in Jazz Saxophone Performance and Music Education.
-06) Tell us about "you first dollar" earned going on stage to play jazz. How old were you? Were did this happen? And do you remember how "high" (or low) was your first cachet? I think that my first dollars were earned when I was busking (playing on the streets) in Rockport, Massachusetts during the summer. Rockport is a small, quaint beach town. It’s very safe and everyone knows everyone. When I was in middle or high school, I went to Town Hall to buy a license to perform on the street. I used to stand out there and play songs, with a bucket for tips. I would make anywhere from $60-80 per hour!! It was amazing! The town is a big tourist attraction, so tour buses would unload maybe 50-100 people, and that would be what brought me the most money. I have to thank my family too…aunts, uncles, grandmother, cousins…I am sure that they would throw in maybe $5 to $20 at times.
-07) As far as I remember, I saw you playing alto and contralto sax, clarinet, flute, and maybe I saw you also playing a bariton-sax bigger than you. Did I forget something? Have you ever played what I consider to be the sax "by default", i.e. the tenor sax? (I felt in love with it when I listened to the super solo of John Coltrane playing "Violet for your furs") I started on the alto saxophone, which really is my preferred saxophone. I also play the soprano saxophone, which is my second favorite. Those two are my strongest. I did play tenor saxophone rather seriously in college big bands, but I prefer to only play it on more commercial gigs/recordings. I prefer to improvise on either alto or soprano, because I think that my musical mind just hears things comfortably on those horns. I played baritone for the first time this year. It was a lot of fun! But it is not my voice. So, I CAN play those instruments, but for creative improvising, I prefer to stick to alto or soprano. I also play flute, piccolo, and clarinet regularly. At the Umbria Jazz Festival in 2012 I played these instruments: alto saxophone, piccolo, flute, alto flute, bass flute, clarinet, bass clarinet, oboe, and bassoon. However, I do not own a bass clarinet, oboe, or bassoon, and I learned them for a very specific project. I would need to take serious time to get them up to that performance level again.
-08) I know that you have been also, once , at the Jazz Festival known worldwide as "Umbria Jazz". How do you rate that festival? Did you have the time to visit something of Umbria Region? Did you like that experience? Do you think you'd like to come again to Umbria Jazz? The Umbria Jazz Festival is my favorite jazz festival in the world! It was the first jazz festival that I ever attended - ero una bambina! When my family took those long trips to italy, we spent lots of time in Umbria, so I was somewhat familiar with the area. I performed there with Ryan Truesdell’s Gil Evans Project. I would love to return to Umbria Jazz, and hope to get there again soon!
-9) A stupid question: after "a day in the life" as the one described in the Julliard clip, when you go back home, do you still have the energy to keep you shoes off? My days balancing Juilliard with performing, teaching, and touring, are very long. Sometimes it can be hard to make time to relax. I try my best to schedule in time for myself so that I can recharge. I am learning how important it is to recharge so that I can always bring my best to any work that I do.
-10) For a while I didn't know you as a solo player, until I discovered a video of you and your friend Lauren Sevian bariton sax) and of the quintet (LSAT, acronym of "Lauren Sevian and Alexa Tarantino"), in a concert a the Dizzy's Club in NY... Great intro of the theme in sinc between you and Lauren, great solos of both of you, super-great chase of the two sax) Amazing! The tune was "Lamb and Bunny". It would be interesting to hear something about the birth of your association with Lauren. Will this experience go ahead?
LSAT Quintet (Lauren Sevian and Alexa Tarantino)
Thank you! Lauren and I are best friends and absolutely love making music together. I first met Lauren when I was a student at Litchfield Jazz Camp, where she was teaching. We didn’t really reconnect until we performed with Sherrie Maricle and the DIVA Jazz Orchestra as a part of Maurice Hines’ Off-Broadway Show “Tappin’ Thru Life”. We grew very close during this time, because we would play the show multiple times a day for about 6 months and then go on to do various other performances with Maurice Hines. We formed LSAT because we wanted to make music together in a different setting as well. So far, we’ve played at venues such as Dizzy’s Club Coca-Cola, the Xerox Rochester International Jazz Festival, and won the Made in NY Jazz Competition.
-11) And then in April I discovered you as a leader of your own quartet, and as a composer. You already know my opinion: your composition "Breeze" is excellent:
As you know better then me, jazz has a syntax, and when you listen to the great sax players (such as Dexter Gordon, Stan Getz, John Coltrane, Jimmy Heath), after two phrases you can often imagine "what's coming next", and if that happens, you've got what is called "easy listening". The audience feel relaxed because the audience receive just what they expect to receive. You often get out of the narrow syntax, and come out with some surprising passages. This shows courage and talent, but I hope you are aware that this could shrink the number of your fans, but in the mean time you'll get growing appreciation in the segment of the "diggers". Do you have a strategy for the future? Thank you! I don’t mind taking the “easy listening” approach once in a while. But, I really like to challenge myself and my thoughts and ideas. I am always thinking of how to create fresh and unexpected material. It helps me to grow as a saxophonist and composer. I do not like when I find myself playing the same vocabulary over and over. Even just tweaking things a bit helps me to access a new mindset. I am still working on my composing skills, but I like to take things that are perhaps familiar and then throw in something a little unfamiliar :) Anyone who wants to listen is welcome!
-12) Many people (besides myself) have really appreciated your surprising solo next to the jazz-legend Chick Corea, and Dan Nimmer. You looked relaxed. Were you REALLY relaxed? Did you notice the empaty of Chick during your solo? And what about the surprising double-call of Alexa Tarantino from Wynton Marsalys at the end of the concert? Did this happening strenghten your self-confidence?
...playing with a "legend"? it doesn't panic Alexa...
Thank you! That week of playing with Chick Corea is certainly a highlight for me. He was so kind and relaxed, very open to letting the music go wherever it wanted to. Before the solo, I was a bit nervous. My dad would always tell me that it was good to be nervous, and that it means that you care. That has always been helpful to remember. I can get a little nervous leading up to something, but once I get on stage, it all goes away. So, when I walked up to play with Chick, I just wanted to enjoy the once-in-a-lifetime experience, and to really dig in to playing with him and playing the music of Thelonious Monk. I had a blast and I appreciate the warmth and support from both Chick and Wynton.
-13) Last but not least - Dear Alexa, I really appreciate what you do to introduce jazz to young generations, gifting them with a meaningful quota of you free time. Go ahead, please. Give them an opportunity. Thank you! I appreciate that. I am working to grow and strengthen my program so that we can work with as many eager young jazz musicians as possible. I am grateful to those who have helped me along the way, and am happy to help others however I can.
Thank you for this long interview. I wish you a long, successful love-story with this great music called "jazz". I'm happy to close this interview with something that should represent a very sweet memory for you: your "bachelor" concert at the end of your studies at the "Eastman Music School". Considering that you were only 22 (and not - like now - an old 26 years old lady), I found impressive both your improvvisation fluidity (minute 5) , and your technical skills. Brava, bravissima.
Alexa at the BM Concert at the Eastman School of music - NY
Thank you very much, Antonio. I hope to get back to performing in Italy soon!
Recensione del film "In dubious battle - Il coraggio degli ultimi (di Angela Laugier)
Regia: James Franco
Principali interpreti: James Franco, Nat Wolff, Vincent D’Onofrio, Selena Gomez, Ahna O’Reilly, Analeigh Tipton, Robert Duvall, Ed Harris, Bryan Cranston, Sam Shepard. – 110 min. – USA 2016
Da un celebre romanzo di John Steinbeck, pubblicato (fino ai nostri giorni) in Italia da Valentino Bompiani* con la bellissima traduzione di Eugenio Montale, è tratto questo film che si attiene, con qualche curiosa e significativa infedeltà, al testo del grande scrittore americano, che racconta le lotte dei raccoglitori di mele nei grandi frutteti della California, nel corso degli anni ’30. La grande depressione, che era seguita alla crisi del ’29 aveva spinto fuori dalle città impoverite migliaia e migliaia di lavoratori disoccupati, insieme alle loro famiglie, in cerca di lavoro e di abitazione.
Molti uomini erano stati reclutati dagli emissari di Bolton (Robert Duvall), latifondista privo di scrupoli, che con la promessa di tre dollari al giorno, li dirigevano verso le piantagioni fruttifere, presso le quali sorgevano i capannoni-lager sudici e promiscui, squallide dimore di uomini, donne, bambini nonché di topi e parassiti. La paga si era intanto ridotta a un dollaro giornaliero e lo scontento cominciava a serpeggiare, senza mai apertamente esplodere, per la reale mancanza di alternative praticabili al disumano sfruttamento. Erano giunti dalla città anche due intellettuali, clandestini per scampare alle persecuzioni riservate a chi professava pubblicamente idee radicali e socialiste: Mac (James Franco, anche regista del film) e il depresso Jim ( Nat Wolff). Lo scopo di Mac era quello di farsi assumere come raccoglitore e, da quella condizione, riuscire a scuotere dal torpore i suoi compagni di lavoro organizzando uno sciopero; Jim, meno fiducioso, avrebbe raccolto da parte sua anche le più piccole tracce di malcontento e gliele avrebbe segnalate. I rischi erano enormi per entrambi, anche per l’agguerrito sistema di spionaggio dei sorveglianti di Bolton, sempre attentissimi a informare il padrone e sempre pronti a massacrare di botte fino alla morte chi fosse sospettato di boicottare la raccolta e di organizzare qualche forma di sciopero.
La rivolta nonostante tutto era avvenuta e la dura risposta padronale non si era fatta attendere, ma era stata rintuzzata da Mac, che in precedenza aveva organizzato con un piccolo proprietario locale, Mr. Andersom (Sam Shepard) l’accoglienza dei lavoratori in fuga e la loro sistemazione in un campeggio dotato di qualche comfort, e anche di un ambulatorio, mentre il Dr. Burton, medico “liberal”, sensibile ai diritti delle persone (Jack Kehler), avrebbe garantito la propria presenza. Siamo circa alla metà del film (i cui sviluppi non intendo rivelare), condotto con passione dal giovane regista-attore che ricalca forse un po’ troppo parafrasticamente le pagine del romanzo senza rinunciare, talvolta, a un’insistenza enfatica, che può risultare fastidiosa. Il film tuttavia, almeno secondo me, càpita nelle nostre sale nel momento più opportuno, per ricordare a tutti noi che il caporalato con i suoi orrori, è quasi connaturato al processo di accumulazione del capitale, difeso dai liberisti che ancora oggi ribadiscono le proprie convinzioni con gli stessi argomenti di quei tempi terribili.
Molto interessante è per altro la dialettica delle posizioni politiche e strategiche di Mac, di Jim, di Anderson e del dottor Burton, ognuno dei quali incarna un aspetto del pensiero della “sinistra” di allora (e anche di oggi?) con la quale si confrontava l’esperienza umana di London (grande Vincent D’Onofrio), il leader naturale dei lavoratori in lotta. Da vedere.
—————————————— * la prima coraggiosa edizione (di cui possiedo la copia da sempre presente, a mia memoria, in famiglia) è del 1940 (finito di stampare il 25 agosto “coi tipi delle arti grafiche Chiamenti in Verona“) ed è preceduta da una curiosa introduzione dell’editore, che cerca, con molta diplomazia, di legittimarla agli occhi del potere, mantenendo la propria dignità di uomo libero in un momento rischioso: il 10 giugno 1940 l’Italia fascista era entrata in guerra a fianco di Hitler!
Il romanzo ricava il titolo originale da alcuni versi del Paradiso Perduto di Milton: “And, me preferring, His utmost power with adverse power opposed In dubious battle on the plains of Heaven, And shook His throne“
che così qui traduco (Milton mi perdonerà): E, preferendo me, opposero alla sua enorme forza la loro forza in incerta battaglia sulle pianure del Cielo, e scossero il suo trono.
Recensione del film "La sposa in nero"(di Angela Laugier)
Titolo originale: La mariée était en noir
Regia: François Truffaut
Principali interpreti: Jeanne Moreau, Claude Rich, Michel Bouquet, Michael Lousdale, Jean-Claude Brialy, Charles Denner, Daniel Boulanger, Alexandra Stewart, – 107 min. – Francia 1968
Altro film tanto imperdibile quanto introvabile, il cui DVD, miracolosamente, ho reperito in versione originale. Ho faticato parecchio anche a trovare il trailer: quello che conclude questa pagina ne aveva promosso la distribuzione negli Stati Uniti. Eppure è un gran bel film, nonché l’occasione per rivedere Jeanne Moreau in una interpretazione indimenticabile.
L’antefatto e il racconto - Il racconto ha un antefatto importante che viene ricostruito con un lungo flashback, durante la “confessione” di Morane (Michael Lonsdale), verso la metà del film. Morane è uno dei cinque balordi giovanotti i quali, non sapendo come passare il tempo libero, avevano organizzato una sorta di tiro al piccione dalla finestra di un appartamento di fronte alla chiesa in cui si stavano celebrando le nozze di Julie (Jeanne Moreau) e di David (Serge Rousseau), Era stato un altro di questi sfaccendati, però, ovvero il malavitoso di mezza tacca Delvaux (Daniel Boulanger perfetto nel suo phisique du rôle), a deviare il tiro verso il basso, centrando in pieno il giovane appena sposato, che Julie sgomenta aveva visto cadere e morire senza un perché. Mentre i cinque erano fuggiti subito, separandosi e giurando che non si sarebbero mai più rivisti, Julie, dopo aver cercato invano di togliersi la vita, per lei ormai senza significato, aveva indagato a lungo per identificare il responsabile dell’azione criminale riuscendo a individuare tutti coloro che avevano partecipato al macabro gioco e a raccogliere, per ognuno di loro, le notizie indispensabili per vendicare con la morte la tragedia del suo David, l’uomo che aveva amato da sempre, fin dall’infanzia. Confidava infatti che ciascuno sarebbe caduto nella sua trappola, da Bliss (Claude Rich) il dongiovanni sedotto dal suo fare capriccioso, a Coral (Michel Bouquet), l’impiegato timido e complessato, soggiogato dal suo mistero, a Morane, il politico così narcisista (e così disattento) da non riuscire a evitare l’inganno di cui sembrava essersi accorto persino il figlioletto, il piccolo Cookie. Più difficile del previsto, invece, “giustiziare” il pittore Fergus (Charles Denner) e l’ottuso Delvaux, il vero assassino, ma, infine, la sua vendetta avrebbe raggiunto anche loro.
Il modo del racconto - Il film non rispetta la diacronia degli avvenimenti, perché Truffaut vuole prima di ogni altra cosa presentarci, con la forza delle immagini, la disperazione di Julie: la vediamo all’inizio, a qualche anno dal delitto che l’aveva resa vedova, sfogliare un album di fotografie, così evidentemente dolorose per lei da spingerla a gettarsi dalla finestra, prontamente bloccata dalla madre, che già altre volte le aveva impedito il suicidio. Il suo volto bellissimo e pieno di dolore, la sua fierezza e anche la gentilezza d’animo che si intuisce in queste prime scene non possono che conquistarci. Con la benedizione di Truffaut, dunque, Julie entra subito nel nostro cuore, dove rimarrà per il resto del film: solidarizzeremo con lei sempre, proprio perché il regista ci aveva predisposti a partecipare affettuosamente alla sua ansia di “giustizia”, né abbandoneremo questa nostra simpatia nel corso dell’intera vicenda, nonostante l’efferatezza della sua infallibile vendetta, preparata con razionale precisione nei minimi particolari, ma attuata sul momento, in modo quasi sempre imprevedibile, perché la donna è sempre pronta ad adattare i suoi piani alle circostanze, ad afferrare ogni opportunità, a far fronte prontamente agli inciampi inattesi. I progetti omicidi di Julie, tessere diverse di un solo unitario mosaico, si presentano come una sua doppia scommessa: col destino, beffardamente capace di scombinarli, e con se stessa. Emblematico, a questo proposito, il penultimo e assai complesso episodio, quello dell’uccisione del pittore Fergus, l’uomo che in lei aveva trovato dapprima la modella ideale, poi la donna sognata da sempre: i ritratti a lei somigliantissimi, che Fergus aveva dipinto ben prima di conoscerla, erano nel suo studio a testimoniarlo; il turbamento di Julie, le sue esitazioni angosciose, il suo procrastinare le sedute, nonostante il pericolo incalzante di venire smascherata da Corey (Jean-Claude Brialy), il gallerista, ci pongono alcuni dubbi sulla specificità del film: davvero solo un revenge movie, o un giallo hitchcockiano, condotto dal regista (e dalla straordinaria Moreau) come una ironica sfida? Il giudizio che me ne sono fatta, per quanto poco possa valere, è che si tratti di un’opera assai più complessa, (senza escludere, naturalmente, che la vendetta e la sfida ne siano temi centrali): un film sull’amore e sulla morte, la compagna inevitabile della vita e di qualsiasi amore che, per la sua durata nel tempo, venga fatto coincidere con la vita stessa. Questo è probabilmente il senso profondo del penultimo episodio, molto illuminante per comprendere l’intera pellicola, che continua a interrogarci e a farci riflettere a cinquant’anni dalla sua uscita.
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