Se qualcuno vi dice: "Io non sono né di sinistra, né di destra",
é di destra. (Ezio Mauro)
La scena dei cretini - Impotenti prepotenti. Dilagano sui social e nei selfie. E sono arrivati al potere. Ma non sono nati oggi: sono figli di un modello che ha segnato gli ultimi 30 anni. Anche a sinistra. La società dei consumi non ha formato persone strutturate, ma creature semplificate. Euforiche e insieme ottuse. Arroganza, rozzezza, assenza di dubbi. Sembrano necessarie per esercitare il comando. Ma le masse possono stancarsi presto
(Massimo Cacciari per l'Espresso)
Il cretino, nella magistrale lettura di Fruttero&Lucentini, non è, banalmente, la persona stupida. È prima di tutto l'incosciente. È colui che si sente responsabile di nulla, a partire da ciò che fa e ciò che dice, perché la colpa è comunque degli altri. Incosciente e lagnoso. Impreparato alle delusioni e alle sconfitte. Incapace di farsi carico delle proprie disgrazie "senza dare la colpa all'epoca e alla storia" (Gaber). Una corolla di alibi circonda il suo ego, lo protegge da se stesso, da quella durissima prova che è la cognizione dei propri limiti.
Se il cretino è davvero questo tipo umano, un collezionista di pretesti, un mai cresciuto, un bimbominkia ampiamente over-trenta, non c'è dubbio che abbia infine espugnato, dopo un lungo e tenace assedio, i palazzi del potere (una volta si diceva: la stanza dei bottoni, ma i bottoni ormai sono in ogni stanza, ed è cliccandoli che si produce, in dosi atomiche, la bomba della cretineria di massa).
Non è un'osservazione polemica. È rassegnata cronaca. Basti, come documentazione probante, la mediocrità raggelante del discorso pubblico, quasi demente nelle sue espressioni social (fa testo l'ormai proverbiale "è finita la pacchia!" di Salvini), ma bene espressa anche nei discorsi farfuglianti in Parlamento, nelle dichiarazioni rudimentali ai telegiornali, fissando la telecamera come si fa nelle macchinette per la fototessera, nei residui tentativi di "fare politica" quando si fa, prevalentemente, una specie di ininterrotto selfie, tra l'altro quasi sempre sbagliando inquadratura, che nel selfie è tutto. Nei "ciaone" puerili rivolti al nemico, nel profluvio di punti esclamativi e di emoticon, nell'indignazione a buonissimo mercato, nell'aggressività da bullo da cortile, non c'è alcuna efferatezza. C'è soprattutto una sconsolante mediocrità. C'è una bassa definizione che, nella società dello spettacolo, è davvero il colmo…
Ma non vale farla, questa triste cronaca, affacciandosi da edifici limitrofi con un drink in mano, come se si fosse solo gli spettatori di un disastro. Come se tutto fosse avvenuto indipendentemente da noi, oppure contro di noi. Chiamarsi fuori è sempre - appunto - cretino. Meno cretino, e forse più utile, sarebbe ammettere che ognuno di noi è parte attiva del fenomeno, e che in parecchi casi noi siamo il cretino nella sua forma più subdola: siamo il cretino dissimulato, quello che se l'è giocata, negli anni, come l'intelligente emarginato. Sperando, con questo di farla franca. E così non vale.
Proviamo a fare uno sforzo di memoria. E anche di rischiosa, rozza sintesi, della quale mi scuso in anticipo. Secondo me è successo tutto, o quasi tutto, molto tempo fa: raccogliamo i frutti di una semina che ha almeno trent'anni. Il riflusso, gli spensierati anni Ottanta, l'edonismo reaganiano, l'uomo di Arcore che raccoglie quegli umori vitali e li trasforma, in tempi relativamente brevi, nella linfa del potere. L'idea che la cultura sia nemica della spensieratezza, che la sinistra sia triste perché non le bastano, per campare in allegria, la gnocca e i quattro soldi utili ad accaparrarsela, che la complessità sia uno sporco trucco per confondere le idee al popolo, già allora, in quanto consumatore, buono e utile per definizione, semplice, credulone e bendisposto. (È il marketing il vero inventore del populismo. «Il pubblico ragiona come un bambino di otto anni», disse Berlusconi, e non voleva essere una critica. Ma un complice elogio).
Se tiro in ballo quella ormai antica riduzione dell'uomo a cliente - e a bambino! - avvenuta con partecipe entusiasmo, è perché penso che sia proprio quella la vera matrice del cretino odierno. La società dei consumi non ha formato uomini strutturati; ha formato creature semplificate, soggette all'umor leggero quando le cose vanno bene, fragili e furibonde quando vanno male. «Euforico e ottuso» lo definì Marcuse nel suo "Uomo a una dimensione" (scusate la citazione ma non riesco a resistere, sono il tipico cretino di sinistra).
Certamente quel processo di alleggerimento psicologico e culturale nacque in antitesi allo spropositato carico che "l'impegno", nei due decenni precedenti, aveva caricato sulle spalle di un sacco di brava gente che aveva già il suo bel daffare per sbarcare il lunario, e mica poteva sentirsi responsabile, proprio lei, dei destini del mondo. Volendo, possiamo anche stabilire che fu, "l'impegno", una forma opposta di cretineria, perché sentirsi responsabili di TUTTO è uguale e contrario a sentirsi responsabili di NIENTE. Il cretino di sinistra, ai tempi, fu dunque l'incubatore involontario, per contrasto, del successivo cretino di destra (mi perdonino i paninari, ma non posso fare a meno di citarli come paradigma).
Sta di fatto che la restaurazione, come spesso accade, fu largamente più pervasiva e longeva della rivoluzione. Tutto venne ribaltato, niente restò impunito. Per dirne una, se oggi cercate sul web notizie dell'engagement di Jean-Paul Sartre (l'impegno, appunto), scoprirete che quel termine è usato per misurare il successo che un contenuto promozionale, o un contenuto in generale, riscuote in rete. Sartre arriva parecchio in coda. Appunto.
(...Roma, Milan, Inter... Il giorno in cui andrà a fare un comizietto e cento selfie a San Benedetto del Tronto o a Barcellona Pozzo di Gotto mettere il nome della squadra del cuore sulla felpa, saranno cazzi acidi...)
Bene, provando a venire al dunque: che fa il cretino di sinistra, nel corso della interminabile restaurazione? In molti casi si pente di essere stato troppo pensoso e diventa uno dei tanti fresconi che festeggiano la fine dell'impegno, effettivamente barbosissimo (non che le convention aziendali siano più divertenti di un convegno sull'operaismo; e ho forti dubbi, quanto a divertimento, anche sulla movida). In altri casi si apparta disgustato perché il popolo bue ha dimostrato di non meritare la sua scienza. In prevalenza, e con lodevoli eccezioni, o si integra oppure si ritrae dall'apocalisse. Il campo, per chi punta tutte le sue carte sulla morte di quella dannata complicazione che è homo sapiens, e sul trionfo dell'uomo semplificato, rimane quasi sgombero.
È il periodo in cui la Rai, terrorizzata dal confronto, scimmiotta Mediaset, e per i critici televisivi l'accusa di fare "televisione pedagogica" diventa la più infamante. In cui le feste dell'Unità, considerando in scadenza il proprio glorioso armamentario artistico, invitano star e starlette del pop più dozzinale, poi spariti nel nulla. In cui comincia il declino dapprima sociale, oggi social, delle competenze e del sapere, degli intellettuali (compreso quell'intellettuale di massa che furono i partiti) e della "cultura libresca", materia lentamente surclassata, ben prima che lo facesse la rete, dalla convinzione che NON serve, per essere felici, altro che buon reddito e buon umore.
Il cretino di sinistra, con il senno di poi, ha il dovere di domandarsi se si poteva fare qualcosa di più e di meglio. Buttarsi nella mischia cercando di sorridere, ma anche di piazzare qualche gomitata bene assestata. Fare sì che il "nuovo" non fosse necessariamente "degli altri", ma anche suo, forgiato dal cretino di sinistra almeno quanto dal cretino di destra. Così che il cretino definitivo (quello odierno) fosse la risultante di vizi assortiti e perfino di qualche virtù, non lo stampo derelitto, la replica sfinita, dell'uomo "euforico e ottuso" di Marcuse. Perché la storia, poi, presenta il suo conto a tutti, ma proprio a tutti: l'uomo semplificato, l'uomo consumatore sul quale la società di mercato, e il suo potere politico, hanno costruito il proprio trionfo, è un materiale fragile. Proprio perché semplificato, può diventare in un attimo l'uomo incazzato, l'uomo incattivito. Basta una crisi economica dura come quella in corso, e il sorriso si trasforma in un ghigno truce, che cerca ovunque il suo capro espiatorio. E risalendo dalle strade ai piani alti genera un potere rozzo, sbrigativo, semplificato anch'esso, metà puerile metà violento.
Il cretino di sinistra non può chiamarsi fuori. Avrebbe dovuto, avrebbe potuto. C'era bisogno di lui e ce ne sarebbe ancora bisogno, se riuscisse a spendersi nel corpo a corpo, da pari a pari, con una cretineria di massa che è pur sempre vita pulsante. Non è il monito schifiltoso, è la lotta sorridente, è l'urto generoso a potere riscattare le legioni di cretini di sinistra che hanno trascorso gli ultimi anni soprattutto a lagnarsi della cattiva piega presa dagli eventi.
Lo dico perché è capitato spesso anche a me, di lagnarmi dei tempi, ed è dimostrato che la lagna è uno dei cavalli di battaglia del cretino. Lagnarsi, ecco una cosa che bisognerebbe smettere di fare, per diventare un poco meno cretini.
(Vi do una notizia: abbiamo sconfitto definitivamente la povertà. Abbiamo fatto in sei mesi quello che gli altri non hanno fatto in sei anni)
Infine, rileggendomi, mi resta da dire che ho messo decisamente troppa carne al fuoco, per un solo articolo. Ma il mito della complessità è una delle componenti costitutive del cretino di sinistra, un tratto irrimediabile. Se bisogna avere pazienza con i cretini di destra, non vedo perché non se ne debba avere anche con noi cretini di sinistra.
I termini che spesso usiamo come sinonimi - cretino, stupido, idiota - comprendono in realtà tipi e caratteri ben distinti. Il loro tratto comune sembra consistere nell'indicare una specie di inabilità a pensare e ad agire con prontezza ed efficacia, un'innata difficoltà a comprendere e affrontare le situazioni critiche. Per questo verso, il cretino non ha nulla a che fare col pazzo o col fool, che può essere invece, Shakespeare insegna, colui che più radicalmente vede e denuncia la stupidità che pervade la vita e le azioni dei suoi simili. Anzi, potremmo dire che fool è chi è cosciente anche della propria stessa cretinità. Sembra infatti che questa voce provenga da cristiano, come l'espressione "un povero Cristo" lascia supporre. Il fool ci ricorda che tutti lo siamo, "poveri Cristi", e con spietata ironia mette a nudo borie, vanaglorie, superbie, supponenze e insolenze. La cretinità è segno della nostra finitezza, e il folle colui che ci impedisce di dimenticarlo. Cretino, almeno etimologicamente, varrebbe allora come un sano segno di modestia, o addirittura di bontà (ricordiamo l'Idiota di Dostoevskij, in cui la bontà convive drammaticamente con l'"inabilità" a vivere nel mondo); altra cosa è la stupidità che il fool-cretino smaschera. Lo stupido ha lo sguardo ebete del semplice stupore: facile a incantarsi e lasciarsi incantare, preda di ogni pifferaio magico, credulone superstizioso, vittima predestinata di promesse e cieche speranze. Nulla a che fare con quella meraviglia che afferra lo scienziato e il filosofo di fronte allo spettacolo del cielo stellato e li fa cadere nel fosso, suscitando il riso del passante, come accadde al povero Talete. Allo stupido sembra sempre stupido chi si affatica intorno a problemi che a lui sembrano "astratti"; lo stupido è irresistibilmente sedotto da riposte semplici e rapide, che sembrino garantire tornaconto e soddisfazione; egli è propenso a credere senz'altro a chi sbandieri ovunque facili soluzioni. Tuttavia, chi non sia stupido, e cioè riconosca che problemi come quelli che angustiavano Talete non possano trovare risposte semplici, sa che la stupidità svolge un suo ruolo nelle vita comune e che, in qualche modo, tutti vi siamo immersi. Per vivere siamo, infatti, costretti a semplificare, per comunicare o fra-intenderci gli uni con gli altri non possiamo rinunciare a luoghi comuni, banalità, pregiudizi. Almeno occasionalmente vestiamo tutti anche gli abiti dei Bouvard e dei Pécuchet, i profeti dell'età dell'informazione-chiacchiera e della frase fatta inventati dal genio di Flaubert. La differenza forse essenziale tra stupidità e intelligenza sta nel fatto che la seconda è consapevole di questo suo limite.
Lo stupido si fa davvero pericoloso solo quando viene manipolato e diretto da chi stupido non è, ma prospera soltanto se immerso nella stupidità, e dunque non ha alcun interesse a fare in modo che essa si riconosca tale, proprio ciò in cui invece consiste la provvida azione del fool. Lo stupido, per natura, è un superstizioso, non immagina la propria sicurezza se non sul fondamento di qualche Autorità, religiosa o politica che sia. Nella stupidità si esalta quel tratto infimo della nostra natura che consiste nel tendere a obbedire e servire in cambio della tutela del proprio "particulare". Chi progetta di affermarsi facendo leva su questo aspetto del nostro carattere non è affatto stupido, ma dovrà assecondare e promuovere la stupidità, affermare che essa sola è buona e ragionevole. E "educarla"perciò a divenire un movimento di massa. Lo stupido, di per sé, è un solitario "privato" (la figura di idiota opposta a quella dostoevskiana), che ha cura esclusivamente dei propri affari; l'Autorità che da esso trae legittimità e di esso si alimenta vuole farne invece una massa.
(Siamo tutti sulla stessa barca... dobbiamo cercare tutti insieme uno scoglio sicuro...) Qui il pericolosissimo passaggio. Lo stupido al potere dismette anche la più lontana parentela con il cretino, diventa arrogante e insolente, il suo atteggiamento assume i timbri dell'imposizione e del comando. Rozzezza e volgarità vengono da lui esibite come virtù. Il suo era il linguaggio della semplice ovvietà (verba obvia sono quelli che si incontrano per la strada, che girano su tutte le bocche senza mediazione o riflessione), ora egli pretende che proprio questo sia l'unico dotato di senso. I linguaggi che non capisce appartengono a "intellettuali" estranei all'anima del popolo sovrano, quando non a barbari nemici. Prestare loro ascolto può diventare anche un crimine. La stupidità al potere trasforma in certezza il proprio opinare, espone come calcolati obbiettivi le proprie vaghe speranze, nasconde con prepotenze verbali la propria reale impotenza.
Quando grandi sono i mutamenti sotto il cielo il rischio di forme di potere che fondino le proprie fortune sulla nostra naturale stupidità crescono a dismisura. Sarebbe da stupidi stupirsene. Ma dà qualche speranza di poterne uscire la loro intrinseca contraddittorietà: più profonda è la crisi che si attraversa, e drammatico lo stesso modo in cui è percepita, più cresce la domanda di sicurezza, meno questa potrà essere soddisfatta da politiche corrispondenti esclusivamente alla sua espressione più elementare, immediata, semplice, e cioè stupida. Si sarà allora costretti a moltiplicare annunci e promesse, a surrogare con una sorta di permanente agitazione l'assenza di una coerente linea di condotta, con l'evocazione di oscure inimicizie e sabotaggi nell'ombra. Ma si tratta di pratiche e retoriche meramente difensive. Quando la stupidità si avveda che il potere esercitato in suo nome non risponde affatto ad alcuna delle sue reali esigenze potrebbe disincantarsi molto rapidamente. Il passaggio tra stupidità e intelligenza può essere altrettanto breve di quello che ha portato ad aver fede in chi , non stupido, stupidamente predicava che superare la crisi era cosa semplice e apriva porte e finestre a frustrazioni, risentimenti e paure. Questo passaggio, ostruito da decenni di populismi più o meno mascherati, può essere aperto, il ciclo dell'incantamento può finire, ma soltanto se una politica davvero responsabile saprà convincere la nostra intelligenza e vincere la nostra stupidità.
di Massimo Cacciari - l'Espresso
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