Recensione del film "Il corriere" (di Angela Laugier)
Titolo originale: The Mule
Regia: Clint Eastwood
Principali interpreti: Clint Eastwood, Bradley Cooper, Laurence Fishburne, Michael Peña, Dianne Wiest, Alison Eastwood, Andy Garcia, Taissa Farmiga, Clifton Collins Jr., Jill Flint, Manny Montana, Noel Gugliemi, Katie Gill. – 116 min. – USA 2018.
Ancora un film con Clint Eastwood, che, alla vigilia dei novant’anni, è il vivo e vegeto protagonista del racconto che egli stesso dirige, interpretando da vecchio leone il personaggio di Earl Stone, l’incredibile corriere di questa storia, che, a quanto pare (ma è così importante?), è “una storia vera”. Fondamentale è invece la verità profonda del personaggio quale emerge a poco a poco, dopo la breve premessa del film, che ce lo presenta al lavoro. Earl era stato un vivaista, ma soprattutto un appassionato ibridatore dei suoi prediletti Hemerocallis, i fiori bellissimi, che durano un solo giorno, ma che paradossalmente assicurano la fioritura più lunga dell’anno, poiché la loro esile eppure robustissima piantina è una vera fabbrica di fiori a getto continuo. Earl ne commerciava ingenti quantità trasportando le pianticelle col suo vecchio pick-up lungo le strade americane durante le fiere; li esponeva; li forniva agli organizzatore dei convegni e delle feste. I guadagni gli erano sufficienti a sopperire alle necessità familiari, mentre non era sufficiente la sua presenza in casa.
La moglie (Dianne Wiest) e la figlia (Alison Eastwood) non lo vedevano mai: se non era in giro per i fiori, era alle adunate dei reduci della Corea, suoi ex commilitoni, oppure alle Convention del Partito repubblicano, a cui andavano le sue simpatie di uomo amante del proprio paese e delle individuali libertà. La moglie, perciò, lo aveva lasciato divorziando da lui, sostenuta dalla figlia.
Si profilavano per il futuro, però, momenti difficili: l’accelerazione impressa da Internet alle comunicazioni e al commercio avrebbe di lì a poco travolto anche lui, come tutti i bravi piccoli produttori di beni per il consumo di nicchia. Earl non era riuscito, infatti, a salvare quei suoi fiori bellissimi. Alla vigilia degli ottant’anni non aveva pensione, era solo e anche sfrattato per morosità dal suo vivaio, che dopo il divorzio era diventato la sua abitazione. Né, d’altra parte, era pensabile per lui vivere da pensionato, tranquillamente osservando dalla panchina di un giardinetto la vita degli altri, in attesa di morire, quando come trasportatore o come corriere avrebbe ancora guadagnato qualcosa per vivere: il suo glorioso pick-up, in fondo, era stato una bella risorsa.
Con quel catorcio del vecchio pick-up, in realtà, non avrebbe fatto molta strada come corriere; con quello nuovo, invece, così bello, lucido e nero, la sua vita era davvero cambiata. L’aveva acquistato grazie alle buste piene di dollari che i suoi discutibili (a dir poco) committenti gli facevano regolarmente trovare, dopo che aveva consegnato ai clienti quei borsoni che mai e poi mai egli avrebbe dovuto aprire; quei soldi (maledetti e subito, ma certo non pochi) gli avevano permesso qualche piacere ben più importante del nuovo pick-up: aveva mantenuto la promessa di pagare il proseguimento degli studi della nipotina, ricuperandone l’affetto riconoscente; aveva comprato e rimesso a posto il vecchio vivaio; aveva finanziato le organizzazioni dei reduci dalla Corea, e sostenuto le campagne repubblicane. A quei suoi committenti, trafficanti di droga, non pareva vero di aver trovato uno come lui: i capelli bianchi, lo sguardo diretto, il corpo sottile spesso tremante, come la sua voce, le frequenti deviazioni anarchiche rispetto al percorso prefissato, alla ricerca di qualche buon cibo, ne facevano un trasportatore insospettabile, che si guadagnava il rispetto e l’ammirazione persino dei poliziotti….
Non anticipo altro del racconto del film, ma posso dire che non sarebbe andata sempre così e, d’altra parte, nessuno, soprattutto a ottant’anni, potrebbe illudersi di vivere per sempre felice e contento: la durata della vita, come quella dei fiori, è quanto mai breve; le rifiorenze vanno accuratamente seguite e coltivate, prima di esservi costretti, dall’ apparir del vero, a interrogarsi sul senso della vita e su come la si è vissuta.
Il film, infatti, senza perdere il carattere avventuroso del racconto on the road, mette progressivamente in luce le implicazioni metaforiche che ne fanno una appassionata riflessione sulla vita e sulla morte, attraversata da una costante ironia, ciò che rende amabile e leggero tutto il racconto.
L’immagine che del proprio volto e del proprio corpo Clint ci offre, senza nascondersi, ci permette di cogliere, al di là dei segni dell’età, l’energia ancora vitale dell’uomo deciso a non lasciarsi morire senza offrire a sé qualche momento di gioia, sottolineato dalla musica che accompagna il viaggio e dal suo cantare, così “vero” da indurre a imitarlo persino i suoi committenti, quei farabutti che lo seguono a distanza.
Clint, perciò, offre a noi uno dei suoi “fiori” più belli, rendendo più morbidi i sentieri selvaggi dei suoi percorsi, smorzandone i contrasti attraverso una fotografia molto luminosa; ci fa spesso sorridere con indulgenza e ci sorprende con le citazioni dei grandi film del passato: i suoi e anche i film altrui, ciò che talvolta davvero ci spiazza. Non mi sarei aspettata, infatti, di riascoltare, in questo diversissimo contesto, e con un completo capovolgimento dei ruoli, il suo Earl (che, come gli era stato detto, tanto rassomigliava a Spencer Tracy), pronunciare le parole di ringraziamento del finale di Vincitori e vinti, il grande film sul processo di Norimberga diretto e prodotto da Stanley Kramer (1961), interpretato da un indimenticabile Spencer Tracy.
Attendo altri bei fiori!
Angela Laugier
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