Recensione del film "Cafarnao - Caos e miracoli" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Capharnaüm
Regia: Nadine Labaki
Principali interpreti: Zain Alrafeea, Yordanos Shifera, Boluwatife Treasure Bankole, Kawsar Al Haddad – 120 min. – Libano, USA 2018.
Capharnaüm è l’antica città della Galilea, da cui iniziò la predicazione di Gesù. Nei millenni il suo nome ha acquisito il significato di confuso bazar, senza regole, in cui tutto è acquistabile.
Nel Libano miserabile e caotico dei campi che accolgono milioni di rifugiati dal vicino Oriente e anche dal Corno d’Africa, la regista Nadine Labaki ambienta una parte della dolorosissima storia di Zain (Zain Alrafeea), un frugoletto dodicenne, intelligente e triste, figlio di profughi siriani insediati nei pressi di Beirut.
Zain compare in manette nell’aula del tribunale della capitale libanese: è in stato d’arresto, avendo ferito gravemente, con un coltello, l’uomo che aveva comprato dai genitori sua sorella Sahar, di soli undici anni, che invano egli aveva cercato di proteggere da lui. Sahar ne era morta poiché il suo corpo gracile e ancora infantile non aveva retto alla prima gravidanza. L’accoltellamento del cognato pedofilo era stata la vendetta di Zain, che ora, in tribunale, stava chiedendo giustizia per sé, denunciando quei genitori per il reato di averlo messo al mondo, col solo fine di ricevere i sussidi che l’alto numero dei figli garantisce ai profughi.
La stessa regista assume il ruolo di avvocato difensore del piccolo, a cui chiede di raccontare la propria storia.
Il film, pertanto, ripercorre a colpi di flashback la dolorosissima infanzia di Zain, la sua fuga dalla famiglia, il suo vagare incerto e pericoloso lungo le strade e i mercati in cui i profughi si mescolano ai libanesi, sempre pronti a lucrare sui loro bisogni e sulla loro disperazione.
Il mio giudizio su questo film è incerto: pur riconoscendone i pregi formali, ribadisco la mia avversione per i film ricattatori, che esibiscono il dolore senza ritegno, ingigantendolo col racconto del susseguirsi ininterrotto di sciagure che si abbattono sugli indifesi, soprattutto quando insopportabilmente i bambini, perfetti per commuovere, ne diventano i protagonisti. Le vicende sono sicuramente “storie vere”, forse addirittura al di sotto della realtà, in un mondo in cui tutto è merce, e in cui corpi e anime dei più deboli diventano oggetto di compravendita cinica, da parte di chi sfrutta senza scrupoli la disperazione degli uomini in fuga dalla fame, dalle persecuzioni politiche e dalla tortura, proprio là dove sono accolti in attesa degli aiuti umanitari.
Mi chiedo, tuttavia, per quale motivo, di fronte a questa dura realtà, Nadine Labaki, invece di denunciare le responsabilità politiche e storiche che l’hanno prodotta, si sia accontentata di una semplicistica rappresentazione sociologica, alla ricerca delle colpe individuali, mettendo inevitabilmente sullo stesso piano gli sfruttati e gli sfruttatori, le vittime e i carnefici.
Angela Laugier
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