La chiamano “Pax Draghiana”. È calata sull’Italia 90 giorni fa. Domani saranno tre mesi esatti da quel 17 febbraio, quando il nuovo governo presieduto da Draghi, dopo aver giurato il 13 nelle mani del Capo dello Stato, otteneva al Senato il suo primo voto di fiducia, bissato il giorno dopo alla Camera. Dunque è già tempo di bilanci. Stiamo meglio di prima? Il presunto Salvatore della Patria ci ha salvato davvero? Il tanto atteso “cambio di passo” c’è stato sul serio, o è solo materia per la rituale agiografia dei mass-media? I sondaggi di Alessandra Ghisleri dicono che per SuperMario la “luna di miele” con gli italiani si sta consumando: la fiducia nel premier, partito oltre quota 60, è scesa di una decina di punti. Forse è normale che sia così. Su Draghi si erano concentrate aspettative smisurate: compatibili forse con la statura del personaggio, ma non con la natura anomala del suo governo e con la struttura fragile del Paese.
Se guardiamo alle due emergenze che Sergio Mattarella ha indicato nel conferirgli l’incarico, non si può non vedere che il presidente del Consiglio di passi avanti ne ha fatti. Sul fronte Covid il piano vaccinale sta gradualmente rimontando, tenuto conto degli scandalosi ritardi di Big Pharma, dei sospetti sulle reazioni avverse di AstraZeneca e dei disservizi delle Regioni. Sul fronte Recovery il Piano di resilienza e rilancio è giunto al traguardo nei termini, consegnato alla Ue per lo stacco del primo “acconto” e rafforzato rispetto alla prima stesura (benché ancora carente su alcuni capitoli, come le risorse per la sanità e gli asili nido). I nostalgici che nei palazzi e nei giornali ancora si ostinano a osservare il presente con gli occhiali del passato, e a ripetere ogni volta “quando c’era Conte”, dovrebbero mettersi l’anima in pace.
L’era gialloverde è morta, quella giallorossa è moribonda (vedi il caos sulle amministrative), e anche l’Avvocato del Popolo non si sente più tanto bene (vedi il collasso dei Cinque Stelle). Il nuovo governo non fa miracoli, questo è evidente. Eredita una macchina normativa lenta e ipertrofica: dall’inizio della diciottesima legislatura, marzo 2018, i 98 decreti legge varati hanno richiesto la bellezza di 1.178 decreti attuativi, di cui 675 ancora mancanti. Vuol dire che il 57,3 per cento delle norme approvate dal Parlamento è rimasto scritto solo sulla carta. Per la quasi totalità si tratta di misure lasciate in eredità dal Conte Due (dal Decreto Rilancio al Decreto Semplificazioni, inattuato all’83,8 per cento). È il vero dramma del Belpaese: le leggi finiscono in Gazzetta ufficiale, ma lì restano, e per i cittadini non cambia mai niente.
Ma che ci sia discontinuità è altrettanto evidente. In tre mesi Draghi ha riscritto le regole della governance del Recovery e ha cambiato il capo della Protezione civile, il commissario per la lotta al coronavirus, il responsabile dei Servizi segreti. Con quattro mosse in altrettanti settori-chiave per l’azione di governo ha archiviato la stagione del “contismo”. Il modus operandi è stato sempre lo stesso: il premier ascolta tutti, poi decide da solo. Spiega le decisioni prese, e poi congeda chi si lamenta con un laconico “mi dispiace”. La scelta di Elisabetta Belloni è stata esemplare: un Consiglio dei ministri convocato quindici minuti prima, senza ordine del giorno, e poi il blitzkrieg che ha liquidato Gennaro Vecchione in un amen. Draghi è “metodo”. È un tecnico, ma non è un impolitico. Al contrario, è “totus politicus”. Per il modo in cui regola i conflitti nel governo di apparente “unità nazionale”. Per il modo in cui mette il sub-governo dei partiti di fronte al fatto compiuto. Ciò che fa, e come lo fa, è il riflesso dello stato di crisi e di minorità della politica che ne hanno giustificato la premiership. E le giaculatorie sulle “Camere umiliate” sono giuste, purché si riconosca che questa “umiliazione” ha radici antiche, che risalgono all’incirca alla fine della Prima Repubblica. Dovrebbe ricordarselo, chi alza il sopracciglio per l’esproprio di sovranità e legittimazione che tutto questo comporta.
Draghi è anche “sistema”. Meglio: come scrive Lucio Caracciolo, è “leader sistemico”. Il vincolo esterno cogestito dall’interno. Le sue relazioni con l’establishment dell’economia e della finanza mondiale sono una risorsa da sfruttare, non un problema da denunciare. Lo abbiamo visto in Europa dove l’Italia, complice il lungo addio di Angela Merkel, si è distinta per un nuovo protagonismo. Dalla parziale liberalizzazione dei brevetti vaccinali al rilancio del piano per le politiche sociali, l’ex presidente della Bce ha lasciato un’impronta tangibile sugli ultimi due Consigli Ue. E ha dato una chiara assertività al riposizionamento atlantico del Paese e ai rapporti con l’America di Biden: il transito ai vertici di Goldman Sachs è fonte di prestigio riconosciuto, molto più che di sospetto diffuso. Per capirlo, se proprio non ci si vuole soffermare sulla curva dello spread e sulla famigerata “dittatura dei mercati”, basta leggere un po’ di stampa estera, che parla di “Supermario come ultima istanza prima della Troika”. Questi sono fatti, non opinioni. E anche in questo caso, gli orfani di Conte se ne dovrebbero compiacere, invece che rammaricarsene.
Intendiamoci: tutto questo non significa che Draghi sia il nuovo Unto del Signore. Sul fronte interno, gli vanno addebitate azioni discutibili e omissioni inaccettabili. L’ennesimo condono nel primo Decreto Ristori è un’onta ai contribuenti onesti che ci saremmo volentieri risparmiati. Il plauso alla Guardia costiera libica, dopo la visita a Tripoli, è un’offesa ai migranti morti in mare che non avremmo mai voluto ascoltare. Al contrario restano assordanti i silenzi su Zaki e Regeni, sul disegno di legge Zan e in generale sui diritti civili. Sul fronte internazionale, poi, ci vuol ben altro che un trimestre da Draghi per ricostruire la credibilità perduta. Restano vere le parole pronunciate alla Camera il 6 febbraio 1855 da Camillo Benso Conte di Cavour: “Siamo una nazione di secondo ordine”. Oppure quelle scandite il 2 ottobre 1930 al Gran Consiglio del Fascismo da Dino Grandi: “Noi non siamo ancora i protagonisti della vita dell’Europa, ma i protagonisti dell’Europa non possono fare a meno di noi”.
Dunque, ammesso che esista, la “Pax Draghiana” è tutt”altro che compiuta e niente affatto definitiva. Sotto Draghi, per quanto stremata e screditata, la politica mena e si dimena. Dovrebbe approfittare di un governo autorevole e sopra le parti per ricostruire le sue macerie. E invece fa l’esatto contrario. Toccato il fondo non rimbalza, si mette a scavare. La lotta continua tra Salvini e Letta è ormai diventata una sfida di sumo, dove i due avversari imbolsiti si sfiancano per buttarsi reciprocamente fuori dal campo di gioco. La missione di Conte, prendere in mano il M5S e ridargli leadership e progetto, si sta ormai rivelando impossibile. Nonostante l’abilità di Draghi nel fare slalom tra le “bandierine identitarie”, questa confusione logora il governo. E in ogni caso ne rallenta l’azione. Domani l’ennesima cabina di regia deve decidere sulle riaperture, poi tocca al Decreto Ristori 2 e al nuovo Decreto Semplificazioni. L’agenda è fitta: ogni ulteriore ritardo è solo un favore per la Meloni e un danno per l’Italia. Non sbaglia il Capitano leghista a dubitare che questa sgangherata “Grosse Koalition” tricolore possa fare grandi riforme. Ma dirlo è già un modo per frustrare ogni tentativo.
Sabotare la “Pax Draghiana” è peggio che un delitto: è un errore politico. Salvo che, per liberarsene, non si voglia spedire Draghi al Quirinale nel febbraio 2022. Ma in quanti, tra i parlamentari, sono pronti a dargli il benservito alla fine del semestre bianco, sapendo che poi non ritroveranno lo scranno sul quale stanno ancora comodamente seduti?
Credit Massimo Giannini - lastampa.it
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