Interessante questo articolo de lastampa.it che è quasi un annuncio ufficiale del ritorno di Giletti in grembo a mammarai. Il titolo della sua probabile prossima trasmissione sarà "Non è non è non è la RAI"? Si sa... Giletti è fatto così. Non si fa una rete sua, rischiando soldi propri, ma pretende di dettare la linea editoriale alla rete che gli passa il pane e il companatico.
Tafanus
Massimo Giletti: “Non escludo il ritorno in Rai, ma alla mia tv serve libertà”
L’intervista al giornalista televisivo (conduttore per quattro anni su La7 di “Non è l’Arena”), su Specchio
Funziona sempre così. Tu pensi di mettere le persone con le spalle al muro e loro ti fregano facendo il contrario di quello che ti aspetti. Massimo Giletti, per esempio, piange. Rispondendo a una domanda su suo padre, che se n’è andato poco più di un anno fa, dice: «ero con lui, l’ho vestito per l’ultima volta mettendogli la cravatta rossa della Ferrari», poi fa una pausa, respira a bocca aperta, sbuffa e farfuglia l’assurdo «scusa» di chi si sente indifeso perché il cuore gli è scivolato nelle scarpe. E allora bisogna ricominciare daccapo, rivedere tutto. Perché Giletti – nell’iconografia diffusa - è una specie di Superman dark dell’informazione, dialetticamente muscolare, aggressivamente in controllo, istrione con tendenze destrorse del serio e del faceto, dalla mafia ai lanzichenecchi No Vax. Un inquieto sempre alla ricerca di un porto migliore, perennemente pronto a chiudere col passato (la Rai, forse La7) in nome di un principio tradito o semplicemente di una nuova scommessa. Purché sia pubblica, purché racconti molto del suo mestiere e niente di lui, cinquantanovenne abbottonato, succinto, ma irrimediabilmente cortese. Abituato a gestire la popolarità coprendosi con un velo che lo rende irraggiungibile. Felice che quel velo resti intatto. Poi però la vita tracima. Il Covid. La scorta. I tradimenti dei colleghi. Gli amori. La persona a cui tieni di più al mondo che vola via. Tutto cambia. E forse raccontarlo è l’unico modo per dare un senso. Anche se un senso non ce l’ha.
Giletti, lo fa un’altra volta?
«Che cosa?».
«Sono vivo, combatto, spero di andare e venire molte volte. Ma qui siamo alle solite, è più facile raccontare la storiella di Giletti che lascia. Banalmente ho fatto la scelta di non diventare un impiegato della tv. Quando Cairo mi offrì un contratto di cinque anni, come aveva fatto con la Gruber e Floris, gli risposi di no».
Quanti ne chiese?
«Due. Gli dissi che mi sembrava il tempo giusto e che magari sarebbe stato un vantaggio anche per lui. Quando la lampadina rossa della telecamera si accende ho bisogno di emozionarmi. Sono abituato a lavorare stando sul pezzo. Mi sento un po’ come Conte».
L’ex premier?
«L’allenatore. Alla mia squadra chiedo il massimo perché sono abituato a dare il massimo. Ecco perché faccio contratti più brevi, non perché amo il tira e molla».
Magnifico, ma non ha risposto. Salutando gli spettatori di “Non è l’Arena” ha detto: sono stati 4 anni straordinari.
«È vero, lo sono stati. Ma io non sono più l’uomo che arrivò a La7. Lasciai la Rai per non rinunciare alla mia dignità. Volevo continuare a fare inchieste e cercavo una strada diversa. Oggi la mia vita è un’altra, giro con la scorta. Sono cambiato io, è cambiato il mio modo di ragionare. Era giusto che parlassi col mio editore dei disagi che sento».
Ultimo tentativo. Da zero a cento, quante possibilità ci sono che resti a La7?
«Cinquantuno. L’uno in più è per il legame che ho con Cairo. Il giorno del funerale di mio padre ho sentito una mano appoggiata sulla spalla. Mi sono girato e l’ho visto lì. Ci siamo abbracciati. Sono cose che restano».
La cito: Floris, Gruber, Formigli, un silenzio che non dimentico. Anche questo resta?
«Non ricevere neppure un sms di solidarietà dai colleghi della tua azienda, con l’eccezione di Mentana, è una cosa che ti colpisce. Da quando ho fatto la battaglia contro la scarcerazione dei mafiosi e sono stato minacciato di morte da Cosa Nostra, nessuno di loro mi ha invitato a parlarne pubblicamente. Un segnale di isolamento che umanamente non riesco a cancellare».
Floris, Gruber e Formigli sono l’ala sinistra de La7. Lei l’ala destra. Lettura troppo facile?
«Credo che la ricchezza di una rete sia la diversità di pensiero. Ho fatto battaglie durissime contro la gestione politica di una regione di destra come la Calabria e ho attaccato la regione Lombardia per il piano pandemico. Per me il prodotto viene prima di tutto».
Che cosa significa vivere con la scorta?
«Perdere la libertà e pensare ogni giorno al rischio che si corre».
Ha paura?
«Ce l’ho. Ho fatto l’inviato in Afghanistan e in Iraq in prima linea, non negli alberghi di lusso. E la paura è sempre stata mia compagna. Chi non la prova è un incosciente e io nella vita accetto tutto, ma l’incoscienza no».
Se l’è mai immaginato?
«Che cosa?».
L’agguato.
«Quando viaggio in macchina ci penso spesso. Penso che se ti vogliono colpire lo possono fare con facilità, anche se sono convinto che finché resterà l’ergastolo ostativo nessuno farà nulla».
Oggi Saviano le è un po’ più simpatico?
«Ho ricordi bellissimi di Saviano a casa mia. Spesso io e lui abbiamo idee diverse, ma come le dicevo prima, per me diversità non significa separazione o, peggio, odio. Per me significa ricchezza. E Saviano ha sempre dimostrato un grande coraggio».
“Non è l’Arena” è stata mafia e vitalizi, ma anche Terrazza Sentimento, fabriziocoronismo e gracchianti medici No Vax come Mariano Amici.
«Sa che cosa mi colpisce?».
No.
«Che se Amici va da Formigli nessuno dice nulla. Se viene da me si scatenano le critiche. Anche su un tema delicato come la pandemia è giusto sentire chi racconta altre verità».
Il fabriziocoronismo?
«Corona è un uomo complesso, con delle capacità che altri non hanno e io guardo alla sua anima positiva. Riesce a parlare con le persone. Capisce i giovani. È stato in grado di farsi ascoltare da uno dei ragazzi del caso Grillo, è entrato nel bosco dei tossicodipendenti di Rogoredo dove non era mai stato nessuno. Agisce rapidamente. Sa come farlo. Per chi, come me, è totalmente concentrato sul prodotto, sono cose importanti. Ma capisco che si faccia fatica ad accettarlo».
In trasmissione vale tutto?
«In trasmissione entro in una specie di trance agonistica. Non sono un conduttore normale. Io sono quella roba lì. Esprimo la mia diversità, quella che è in tutti noi. E se non mi rispondi alla prima domanda io faccio la seconda, non mi fermo. Ad alcuni piace. Ad altri no. Ma fondamentalmente resto un anarchico. Sul prodotto faccio un lavoro certosino, ma non sono uno da salotti».
Che cos’è per lei il politicamente corretto?
«Una forma di ipocrisia che non amo. Il perbenismo porta alla paura di essere scomodi, dunque a ritirarsi e io non lo faccio. Con il mio gruppo ci siamo accorti che quest’anno abbiamo avuto pochi nomi importanti della grande politica. Forse è un bene. Forse la tv andrebbe giudicata per sottrazione. Lì non vanno perché sono più tosti».
Lei è vanitoso?
«Chiunque faccia questo lavoro ha una parte di vanità, la mia ha un peso molto relativo».
Aiuta essere belli?
«Aiuta avere presenza scenica, saper gestire il palco. Pippo Baudo un giorno mi disse: i conduttori veri si vedono in piedi. Per un po’ non l’ho capito. Ma poi ci sono arrivato. Il mezzobusto da Tg non è detto che sia in grado di condurre un programma. Quanto alla bellezza, poi, quella sbiadisce. Il punto vero è che devi saper ballare».
Quattro gennaio 2020, che cosa cambia per lei?
«Molto. La morte di mio padre. Che poi io continuo a dire il 4, ma mio padre è morto il 3. È tutto così sconvolgente che ancora non riesco a essere lucido. Se ne va una parte di te e tu lo capisci solo quando l’hai persa. Abbiamo avuto un rapporto complesso, contrastato, con diversi non detti. Ho lavorato con lui in azienda due anni, poi ho preso una strada diversa. Lui c’è sempre stato, con la sua onestà intellettuale, con il suo esempio fatto più di gesti che di parole».
Dov’era quando se n’è andato?
«Con lui. E ho pensato a tutti coloro che per colpa del Covid non avevano potuto seppellire i propri cari. Io sono stato più fortunato. L’ho vestito. Gli ho messo la cravatta della Ferrari. Sa, mio padre aveva vinto una 1000 miglia. Sono stati momenti impagabili». (Ecco, è esattamente qui che piange)
Che cosa gli direbbe, se potesse?
«Lo abbraccerei e gli direi: grazie comunque, grazie di tutto».
Adesso lei è presidente della Giletti spa, azienda leader nella produzione di filati.
«Emanuele e Maurizio, i miei fratelli, sono loro che mandano avanti l’azienda. Assieme abbiamo deciso di proseguire il progetto di mio padre, anche per aiutare la valle. Quando mi sono laureato io c’erano 120 filature, oggi sono rimaste una ventina. Un disastro per il biellese. Mio padre non ha mai voluto delocalizzare. Credeva in questa terra e in questo Paese. Ci crediamo anche noi».
Giusto il blocco dei licenziamenti?
«Personalmente credo che ci dovrebbe essere una gestione diversa della cassa integrazione e che il blocco dei licenziamenti non serva. Ma molti stipendi sono troppo bassi. Bisognerebbe dare più soldi a chi lavora e meno allo Stato».
Salvini o Meloni?
«Non amo il gioco della torre. Sono poco utile a questo tipo di domande».
Poco è meglio di niente.
«Dico Meloni perché è rimasta all’opposizione dimostrando di essere politicamente scaltra».
Conte o Grillo?
«Odio i radicalismi. Il vaffa è stato importante, ma oggi non è più quel tempo».
Quindi Conte?
«Oddio, non saprei, è difficile».
Draghi o Conte?
«Draghi sempre».
Giletti, che cos’è la destra italiana?
«Ma esiste ancora? Ricordo che al liceo D’Azeglio di Torino, dove studiavo, nessuno firmava per la lista liberale. Erano gli anni delle Br. Lo feci io, semplicemente perché avesse un suo spazio. Erano tempi duri, ma ci sono due cose che rimpiango: la capacità oratoria dei leader, da Berlinguer ad Almirante, e l’ideologia».
Rimpiange l’ideologia?
«Sì. Se non sai definire che cos’è la destra e che cosa è la sinistra, significa che per non essere etichettato preferisci la confusione».
Perché questo braccio di ferro sul disegno di legge Zan sull’omotransfobia?
«La presenza della Chiesa nella storia del nostro Paese è molto forte. Eppure ci sarebbero temi più importanti sui quali perdere energie, anziché scontrarsi su vicende che dovrebbero essere ovvie. Le differenze vanno amate, lo ripeterò all’infinito, e in questo la destra rivela la sua debolezza».
Damiano dei Maneskin ha baciato il collega Thomas alla Tv polacca.
«A me piacciono tutte le provocazioni. L’importante è che non siano fini a sé stesse. Altrimenti diventano retorica. Come la storia dei calciatori in ginocchio».
Gli azzurri si inginocchiano se lo fanno gli avversari. È ridicolo o solo molto italiano?
«È ridicolo e molto italiano. Già nella prima guerra mondiale non sapevamo quali alleati scegliere e nella seconda è successa la stessa cosa. Se pensi che sia giusto inginocchiarsi lo fai, diversamente no. Amen».
Chi li vince gli Europei?
«Chi ha più fisico, coesione e coraggio. Mbappé e Ronaldo dimostrano che i fenomeni non bastano. Una bella lezione per chi crede che i soldi comprino le vittorie. Il mio modello è l’Atalanta».
Da juventino: Platini, Del Piero o Cr7?
«A Del Piero sono legato personalmente, mi ha regalato vittorie di cui gli sarò sempre grato. Ma l’ironia di Platini sdraiato su un fianco, con la testa appoggiata sulla mano dopo un gol annullato contro l’Argentinos Junior nella Coppa Intercontinentale del 1985 è la sintesi dell’ironia e dell’intelligenza. Il calcio come lo vorrei. Gesti che possono permettersi in pochi».
È vero che l’ha cercata anche Discovery?
«A queste domande non rispondo mai né sì né no. Ma chi fa buoni ascolti diventa appetibile per il mercato. Ricordo una persona, in Rai, che mi disse: se vai a La7 sei morto. Si sbagliava».
Ci tornerebbe?
«In Rai? È stata casa mia per 30 anni. Escludere un ritorno sarebbe un errore. Ma la mia tv ha bisogno di libertà e di un editore forte».
Guglielmi, Freccero, Enzo Biagi, Zavoli: ci viene nostalgia perché siamo vecchi o banalmente perché erano più bravi?
«Perché erano straordinariamente più bravi».
Giletti, perché non si è mai sposato?
«Magari lo farò. Chi lo sa, nel cambiamento che sto vivendo forse c’è anche questo. Mio padre, il Covid, la scorta. Tutto sembra dirmi: condividi la tua vita con chi ami».
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