Caro Giorgetti, ci dica la verità sull’economia dopo Draghi
Se questo è lo schema, conviene ripristinare l’ordine delle priorità. La stessa premier le ha indicate più volte. Al primo Consiglio dei ministri dopo il giuramento: «Saremo giudicati solo per la crescita del Pil e dell’occupazione». Nel discorso sulla fiducia davanti alle Camere: «Per l’Italia il 2023 sarà un anno di recessione: meno 0,2%, il peggior risultato tra le principali economia mondiali». Al vertice con i sindacati a Palazzo Chigi: «Stiamo affrontando il momento più difficile della Storia della Repubblica». Lasciamo che spurghino fumi, miasmi e veleni dell’ideologismo un tanto al chilo, e concentriamoci sulla vera “missione”, a partire dalla prossima manovra finanziaria: rafforzare l’economia di fronte all’urto della crisi, sostenere il reddito di famiglie e imprese più a rischio, razionalizzare il mercato del lavoro con le politiche attive, gettare le basi per il rilancio del Sistema-Italia. Il tutto, possibilmente, senza sfasciare i conti pubblici. Cosa ci dobbiamo aspettare? Che segnali ci sta lanciando il governo?
Di “sovrano”, per il momento, regna solo un certo disordine. Protagonista della fase, forse suo malgrado, è il ministro “competente”. Giancarlo Giorgetti si ritrova a sorpresa seduto su una vera sedia elettrica. È noto che al Tesoro la presidente del Consiglio avrebbe voluto Fabio Panetta, tecnico riconosciuto e stimato a Washington, a Francoforte e a Bruxelles. È altrettanto noto che il membro italiano nel board della Bce ha gentilmente declinato l’offerta, e così è toccato al più draghiano e al meno salviniano dei leghisti. Abile e manovriero, Giorgetti si sa muovere nelle stanze del potere italiano, mentre al di là di Chivasso deve ancora costruirsi un profilo personale e un circuito relazionale. Il suo esordio in Parlamento, per illustrare la Nadef, è stato rassicurante. Il governo affronterà l’emergenza con «un approccio prudente e responsabile». Dunque, come prescrive il rito (Super)Mariano, niente sole in tasca, nessun volo pindarico, ma solido ancoraggio al reale e al possibile. Senza debito aggiuntivo, alla faccia del Capitano che pretende i famosi e fumosi «50 miliardi nelle tasche dei cittadini». Bravo, signor ministro. Ma è davvero così? In attesa di conoscere i contenuti della Legge di Stabilità, il dubbio è legittimo. Su almeno tre dossier.
Il primo dossier riguarda le politiche contro le iniquità sociali e a favore dei più deboli. Con 6 milioni di poveri assoluti, anche tra le classi di età più basse, è il problema più urgente. Giorgetti lo ha rivendicato alla Camera, rivolto ai banchi dell’opposizione: «Sulle disuguaglianze avrete sorprese da questo governo: le limitate risorse a disposizione verranno indirizzate verso i soggetti più vulnerabili».
Il decreto Aiuti-quater, purtroppo, non pare un buon inizio. L’innalzamento del tetto ai fringe benefits esentasse, da 600 a 3 mila euro, utili a pagare anche le bollette di luce e gas, darà benefici solo a 3 milioni di lavoratori dipendenti su 18, cioè a meno di un lavoratore su cinque.
Il “quoziente familiare”, introdotto al posto dell’Isee per agevolazioni connesse all’efficientamento energetico delle villette, darà sconti molto più elevati per i redditi alti. La stessa cosa vale per le misure contro il caro energia: il rinnovo dei crediti d’imposta per le imprese sugli acquisiti di elettricità e gas, il taglio dell’Iva sui consumi di metano e la riduzione delle accise sulla benzina non sono sussidi mirati su chi ha più bisogno. Viceversa: a dispetto di quel che la stessa Meloni ha annunciato in Parlamento («è ora di archiviare i bonus da campagna elettorale») sembra riaffermarsi il modello dei sussidi a pioggia. E poco importa abbattere il superbonus dal 110 al 90%, in base al sacrosanto principio che «mai una massa così ingente di risorse è stata destinata a una fetta così limitata di cittadini», se per il resto si tiene in piedi l’intera filiera dei micro-sostegni indiscriminati, dal monopattino allo psicologo. In questo momento non basta «non disturbare chi vuol fare», come dice la premier: bisogna «aiutare chi non ce la fa». Su questo, ministro Giorgetti, cosa dobbiamo aspettarci?
Il secondo dossier è quello fiscale. Anche qui, i segnali sono contraddittori. L’esecutivo non rinuncia alla Flat Tax, sia pure solo come spot iper-politicista da Istituto Luce invece che svolta turbo-liberista da scuola di Chicago. Per il 2023 prende piede la versione “incrementale”, cioè quella che premia con un’aliquota fissa del 15% gli aumenti di reddito rispetto agli anni precedenti. Dovrebbe valere per tutti, ma calcolata sui redditi 2022 finirà per non riguardare i lavoratori dipendenti, per agevolare soprattutto una parte degli autonomi (le partite Iva fino a 65 mila euro di reddito annuo già fruiscono di tassa piatta) e per premiare i ceti già abbienti con benefici che crescono all’aumentare dei guadagni.
Se a questo aggiungiamo l’aumento a 5 mila euro del tetto all’uso del contante e la rottamazione delle cartelle esattoriali, ecco che prende corpo un Leviatano fiscale che strizza l’occhio agli evasori e arretra solo di fronte alle classi più agiate e a chi ha urgenza di rimettere in circolo un bel po’ di nero, ma che resta intatto per tutti gli altri. Aspettiamo poi di capire se e come cambierà l’Irpef, in che modo sarà articolato il taglio di 5 punti del cuneo fiscale, e se è vero quello che dice il ministro Urso, che ne chiede almeno due terzi a vantaggio dei lavoratori. Ma in generale, ministro Giorgetti, è tutto qui il “Nuovo Fisco” al tempo della destra?
Il terzo dossier si chiama previdenza. È persino più spinoso degli altri, sia perché è da sempre ad altissima intensità socio-politica, sia perché investe il patto tra le generazioni. La Sorella d’Italia sulle pensioni ha parlato la lingua dell’Apocalisse. «Sono una vera e propria bomba sociale», ha detto all’assemblea di Montecitorio. «Oggi le pensioni sono inadeguate, domani rischiano di essere inesistenti», ha aggiunto all’incontro con le parti sociali. Ha ragione da vendere. Secondo la Nadef la spesa previdenziale italiana raggiungerà il 16,5% del Pil nel 2025: il livello più alto dell’area Ocse e quasi il doppio della media Ue. Lo stesso responsabile del Tesoro, in audizione parlamentare, ha ribadito le cifre della catastrofe: solo per effetto dell’indicizzazione all’inflazione, «le stime a legislazione vigente indicano un incremento della spesa di 21,3 miliardi nel 2023, di 18,5 miliardi nel 2024 e di 7,4 miliardi nel 2025». Dunque, per il prossimo triennio la spesa per pensioni assorbirà risorse aggiuntive per oltre 50 miliardi. Se questo è il quadro, ministro Giorgetti, come fa a dire che dal gennaio prossimo, scaduta la sciagurata Quota 100 voluta dal suo leader e costata la bellezza di 23 miliardi in tre anni, «Quota 41 è una misura che non è esclusa»? Ci risiamo con le pezze a colori? E come farà, con questi numeri e con questi oneri, a trovare i fondi per le future pensioni dei giovani?
Sono solo tre capitoli del Grande Libro dell’Economia, sui quali il governo sta pasticciando. E solo per carità di patria non aggiungiamo anche quello del lavoro e del Reddito di cittadinanza, sul quale dotti, medici e sapienti sproloquiano a gettone. Qualcosa è stato già scritto, per lo più male. Molto è ancora da scrivere, e speriamo bene. L’unica cosa certa è che il tempo dei diversivi identitari e delle furbate ideologiche sta finendo. Anche se allora aveva solo 7 anni, Meloni farà bene a ricordare quel che Craxi diceva ad Andreotti: prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria.
Credit: Massimo Giannini - La Stampa
Siamo grati a Massimo Giannini che ogni giorno prova (non sappiamo con quali risultati) a riportare alla ragione quel 40% di italiani che si è fermato al massimo alla licenza di terza media inferiore, e che è culturalmente poco attrezzato a separare i fatti dalle pugnette.
Ci riuscirà? Un po' di scetticismo è d'obbligo. Sono decenni che noi italiani plebiscitiamo a turno i peggiori miracolieri su piazza. Dopo la catarsi del "Raphael" e delle monetine contro Craxi, che hanno segnato la fine e l'inversione di direzione dell'onda lunga, è arrivata l'era dei "Checco Zalone", che a turno hanno conquistato l'ammmore della parte meno attrezzata culturalmente dell'elettorato.
Abbiamo così visto i peggiori rappresentanti del popolar-checcozalonismo conquistare a turno un terzo dell'elettorato: dopo la "Milano da bere" abbiamo dato il potere a "L'Italia è il paese che amo". Andato anche quello "a puttane" (si fa per dire...), è arrivato il momento di Alberto da Giussano, della "Sacra Ampolla del Monviso", e del Dio Po. Abbiamo dovuto sopportare anche il vaffanculismo dei Cinque Stalle, e adesso (al peggio non c'è mai fine) siamo ritornati finalmente indietro di un secolo: siamo tornati ad eja eja alalà, allo squadrismo poliziesco contro gli studenti della Sapienza, agli editti contro le "manifestazioni" di 51 persone, e alla "Seconda Carica dello Stato" che non ha ancora deciso cosa farà il 25 Aprile. Roma o Predappio? Ci farà sapere. Nel frattempo, accontentiamoci di quello che passa il governo di "sonounadonaaaaaaaaaaa !!!!!!", che ha nominato in 24 posizioni da ministri con portafoglio 23 maschietti e una femminuccia, e una "dona" su tre agli strapuntini da sottosegretari (fra i maschietti non ci siamo fatti mancare alcuni "portatori sani" di saluti romani, di eja eja alalà, e persino si croci naziste).
Per chiudere, assistiamo con una certa nausea allo spettacolo dei "moderati" Renzi&Calenda che nuotano a vigorose bracciate verso la sponda destra del fiume, per cercare di salvarsi dal vuoto spinto nel quale hanno scelto di rifugiarsi.
Lo spettacolo è di infimo livello. La destra-destra sta cercando di suicidarsi, perchè adesso, dopo le chiacchiere alla Checco Zalone della campagna elettorale, ciascuna delle fazioni deve fronteggiare la delusione del proprio elettorato di riferimento. Cosa non facile, e speriamo mortale. Ma neanche noi vinceremmo, perchè Enrico Letta continua a non capire che il tempo del PD non è molto, e forse sta già scadendo; che rimandare addirittura la resa dei conti a marzo o aprile è una follia suicida; e che a botte di veti incrociati, qualunque cosa a sinistra di Renzi&Calenda deve andar bene al netto di divisioni di dettaglio, altrimenti al prossimo giro (ad iniziare dalle regionali in Lazio e Lombardia, dove già sono iniziati gli allenamenti per perdere bene), saremo liquefatti dal destra-centrismo e dalla nostra inguaribile incapacità di esercitare un minimo pediatrico di cinismo pre-elettorale.
Primum vivere, deinde philosophari
Buona domenica a tutti (o quasi).
Tafanus
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