ATTENZIONE! Questo è un blog dedicato alla politica pornografica, o alla pornografia politica! Aprire con cautela!
Scritto il 30 dicembre 2020 alle 14:48 nella Angela Laugier | Permalink | Commenti (7)
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Ripensando ad altre Pasque, cerchiamo di accettare serenamente e con un po’ di speranza nel cuore, i sacrifici durissimi di questi giorni e meditiamo su due bei film, adatti, nella loro diversità, all’insolita Pasqua 2020
Scorsese. (L’ultima tentazione di Cristo)…
Lasse Hallström (Chocolat)
A tutti il mio saluto più affettuoso.
Angela Laugier
Scritto il 19 aprile 2020 alle 08:00 nella Angela Laugier | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "LO SCEICCO BIANCO"(di Angela Laugier)
Regia: Federico Fellini
Principali interpreti: Leopoldo Trieste, Alberto Sordi, Giulietta Masina, Brunella Bovo, Gina Mascetti,
Lilia Landi, Ernesto Almirante, Fanny Marchiò, Enzo Maggio, Ettore Maria Margadonna, Antonio Acqua, Ugo Attanasio, Jole Silvani, Mimo Billi – 86′. – Italia 1952
Federico Fellini, forse il regista più grande del nostro cinema, era nato a Rimini il 20 gennaio 1920, un secolo fa.
Su questo blog, nel mio piccolo, intendo ricordarlo per quanto possibile degnamente, con qualche recensione che si aggiunge a quelle, già presenti, di La dolce vita (1960) e Amarcord (1973), nella speranza di invitare alla conoscenza delle sue opere. Oggi è possibile vederne cinque in edizione restaurata dalla Cineteca di Bologna nelle sale che si stanno organizzando in proposito. Molte altre saranno disponibili anche sui canali televisivi pubblici o privati, sulle piattaforme delo streaming o attraverso i supporti (DVD o BluRay), fermo restando che vederle al cinema, nelle sale per le quali Fellini le aveva volute, è la migliore di tutte le opzioni possibili.
LO SCEICCO BIANCO - Uscì nel 1952: era il primo film girato interamente dal giovane Federico che nel 1951 era stato co-regista di Luci del varietà, insieme ad Alberto Lattuada, dopo qualche esperienza da sceneggiatore per Rossellini e per Germi.
Il soggetto di Lo sceicco bianco, per la verità, era stato ideato da Michelangelo Antonioni che, successivamente, lo aveva abbandonato nelle mani del produttore, (il che di frequente avveniva), in attesa di uno sceneggiatore e di un regista. Fellini aveva letto lo script, l’aveva ritenuto interessante e aveva accettato di occuparsene, purché gli si garantisse il pieno controllo di tutte le fasi della lavorazione, anticipando di una decina d’anni le richieste dei più grandi registi internazionali che, dalla seconda metà degli anni ’60, rivendicarono a sé il diritto all’intera responsabilità realizzativa dei loro film.
I personaggi e il racconto - La storia è quella di due sposini, arrivati in treno a Roma dalla Calabria nel 1950, l’Anno Santo, in occasione del quale il Papa aveva previsto udienze straordinarie per le coppie dei giovani sposi in viaggio di nozze.
Fu così che Ivan e Wanda Cavalli (rispettivamente Leopoldo Trieste e Brunella Bovo) iniziarono nella città eterna la loro luna di miele e insieme la loro … separazione, forse la prima, o forse l’unica…Non è dato saperlo.
Wanda, inopinatamente, aveva abbandonato Ivan con uno stratagemma, per un’avventura che nelle intenzioni avrebbe dovuto durare poco più di un’ora, ma che si era protratta fino al giorno dopo. Aveva, infatti, voluto vedere e conoscere da vicino l’uomo che aveva acceso la sua ingenua immaginazione: lo sceicco bianco, al secolo Fernando Rivoli (interpretato dal giovane Alberto Sordi), eroe di un popolare fotoromanzo, all’epoca molto letto dalle ragazze alfabetizzate della piccola borghesia che alla lettura dei fumetti si affidavano per evadere dalla realtà paesana alquanto monotona e priva di attrattive, allettate da un mondo altro, perfetto ma inesistente, che offriva elementi di facile identificazione sentimentale.
Con ingenua trepidazione, eludendo la sorveglianza possessiva del marito, era uscita di corsa dall’albergo e si era avventurata per le strade di Roma che stava per celebrare una festa civile, portando con sé il regalo che aveva preparato per il suo sceicco (gli aveva già indirizzato tre lettere, sempre ricevendone risposta): un ritratto che lei stessa avea disegnato e firmato con lo pseudonimo Bambola Appassionata.
Ivan non si era accorto di nulla: stanco del lungo viaggio in treno, si era addormentato, né si sarebbe svegliato senza il concitato bussare della cameriera: l’acqua calda del bagno, di cui Wanda aveva fatto richiesta, era traboccata (nella fretta di fuggire la sciagurata non aveva chiuso il rubinetto…).
Si precisano a poco a poco, nel corso del racconto, i tratti caratteristici del giovane sposo, che, all’inizio del film, appare anche troppo presuntuoso e vanaglorioso, emblematicamente rappresentativo dell’uomo del Sud di media cultura classica, convinto di avere, perciò stesso, diritto a un posto prestigioso nella pubblica amministrazione e anche alla carriera in vista di un futuro come politico democristiano: la sua famiglia, nella sua propaggine romana, e uno zio, impiegato in Vaticano, erano la garanzia di queste aspirazioni ambiziose; Ivan era anche convinto del diritto alla proprietà di Wanda, a cui avrebbe voluto insegnare a vivere secondo la stereotipata divisione dei ruoli della famiglia tradizionale.
In realtà Ivan era fragile e disorientato almeno quanto lei: due giovani inesperti entrambi, sperduti nel mondo caotico e volgare della capitale nell’immediato dopoguerra, popolata di uomini e donne apparentemente accoglienti, ma in realtà avidi, capaci di alternare cinismo e falsa condiscendenza, pur di accaparrarsi qualche mancia, o qualche favore.
Il film segue in parallelo le avventure di entrambi, prigionieri, anche se in modo diverso, di un’identità fittizia, e invischiati, senza volere in un tourbillon di eventi che li travolgono, privandoli di ogni capacità reattiva.
Fellini disegna perfettamente i due provinciali sperduti, attraverso scene che, tra lo scherzoso e il pietoso, ne definiscono il comportamento.
Di lui vorrei ricordare lo smarrimento durante la sfilata dei bersaglieri; la sosta al ristorante, costretto a recitare contro voglia una sua vecchia poesia d’amore e ad ascoltare i due menestrelli che per lui cantano un’insensata canzone; la presenza all’opera (il Don Giovanni, che Fellini riprende – con allusione maliziosa alle vicissitudini di Wanda – nel momento della seduzione di Zerlina: Vorrei e non vorrei…); l’inevitabile e dolorosamente comica denuncia alla polizia e, infine, l’incontro con le due prostitute romane (indimenticabile la Cabiria di Giulietta Masina), alla debole luce della luna.
Di lei vorrei ricordare l’incantamento per l’incontro con Marilena Alba Vellardi, la segretaria dello sceicco, attraverso la quale passava la corrispondenza per lui, che non la leggeva; lo stupore per la sfilata delle odalische e delle comparse; lo smarrimento per la direzione del fumetto da parte di un regista che urla e sbraita, maltrattando gli attori; la meraviglia per l’arrivo in altalena dello sceicco (scena davvero magistrale per la sintesi, tutta felliniana, dell’epifania favolosa con la reale volgarità dell’uomo (superbo Alberto Sordi, all’inizio di carriera); il compiacimento di essere con lui mentre le ammiratrici sono in cerca di un autografo; la solitudine disperata.
Il film si avvale della bellissima colonna sonora di Nino Rota: chi l’ascolta noterà le analogie con la musica delle opere felliniane che seguiranno.
Cercate di non perderlo.
Angela Laugier
Scritto il 08 marzo 2020 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE" (di Angela Laugier)
Regia: Yi’nan Diao
Titolo originale: Nan Fang Che Zhan De Ju Hui
Titolo internazionale: The Wild Goose Lake
Principali interpreti: Hugh Hu, Lun-Mei Kwei, Liao Fan, Regina Wan, Liang Qi – 113 min. – Cina 2019.
Le notizie che troverete nell’articolo e che possono servire a comprendere il film, non tra i più facili, provengono da alcune interviste al regista Yi’nan Diao (se ne trovano molte sul Web), e anche dai Cahiers du Cinema (n°761 del dicembre 2019, pag.64-65).
Yi’nan Diao, come altri cineasti cinesi e come l’amico JiaZan-Ke*, è tra i maggiori esponenti di una nuova cinematografia di grande suggestione, che intende raccontare la realtà della Cina di oggi utilizzando le tecniche e i generi, che in occidente hanno fatto la storia della settima arte, e inserendo nelle rappresentazioni del paese, che sta rapidamente cambiando, elementi della tradizione storica locale – dall’organizzazione difensiva para-mafiosa del Jang-hu, alla prostituzione – nonché della raffinata tradizione figurativa dell’antichità cinese.
Dalla famigerata città di Wuhan prende le mosse questo film, girato e terminato quando ancora del corona-virus non si parlava: è stato presentato, infatti, in concorso all’ultimo festival di Cannes nello scorso maggio.
Da tempo il regista – che aveva girato precedentemente un bellissimo e originale giallo** con occhio attento ai noir europei e americani degli anni ’40 – desiderava realizzare un film sulle rive del lago nei pressi di Wuhan, megalopoli cinese, capitale di una vasta regione che, nonostante i suoi 130 moderni grattacieli con vista sul lago e sulla pianura, non era riuscita a cancellare il degrado delle umide periferie, eternamente piovose, labirinti di viuzze e vicoli che incrociandosi, rendono facile nascondersi e far perdere le proprie tracce: luoghi adatti alla guerra per bande in cui alcuni clan malavitosi si fronteggiano per la spartizione delle zone più adatte ai furti di moto.
Si tratta di un film, perciò, a lungo vagheggiato, che sarebbe rimasto allo stato di progetto se un fatto di cronaca nera, avvenuto da quelle parti, non lo avesse fatto riemergere nella memoria del regista, che si adopera per trovare i necessari finanziamenti, arrivati finalmente grazie alla sinergia di produttori cinesi e internazionali, e al prestigio di cui gode in tutto il mondo, oltre che nella sua Cina.
Questo è ancora un noir ed è la storia di un fascinoso balordo Zenong Zhou (Hugh Hu) ricercato per aver ucciso un uomo della polizia, sul quale pende una taglia piuttosto allettante, ciò che lo condanna, inevitabilmente a morire e che lo rende diffidente e cauto negli spostamenti, ostile alle confidenze e ai rapporti umani. Da un incontro, ambiguo, con la giovane prostituta che gli offre rifugio e protezione, ha inizio l’ odissea che il film ci racconta fra flashback e presente, fra realtà e sogno. Nulla svelerò.
È un’opera che di Yi’nan Diao porta l’inconfondibile firma, raggiungendo i risultati più astratti di sempre: gli elementi realistici trascolorano, le ferite sanguinanti diventano eleganti disegni, le atrocità più efferate perdono la loro consistenza nel buio dei notturni in cui si moltiplicano le sfumature dei blu e dei neri e in cui le sole luci tremolanti e indefinite dei neon e dei fari perdono la capacità di illuminare.
Ciò, però, non significa che perdano la loro verità: questo è l’aspetto più sorprendente, perché dopo la visione di questo film ci accorgiamo che l’eleganza della forma non riesce a celare l’orrore di una società nella quale in nome del denaro, supremo valore, si accetta lo spaccio della droga, la prostituzione senza riscatto, l’omicidio perpetrato dai teppisti di strada, la malavita, lo sperdimento di sé, l’omertà e la corruzione diffusa che inghiotte, quasi ridicolizzandole, le luci catarifrangenti delle belle scarpe sportive, indossate dalle guardie e dai ladri, nonché le bianche e buffe “ali” che ricoprono con eleganza il capo delle donne che si vendono. Nessun altro regista, prima di Yi’nan Diao, aveva reso con tanta evidenza l’annullarsi dell’uomo negli oggetti del desiderio, testimonianza della catastrofe drammatica di un grande paese che sta perdendo se stesso.
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* prestigioso regista di grandi film, come Still Life, Il tocco del peccato, Al di là delle montagne, I figli del fiume giallo
**il bellissimo Fuochi d’artificio in pieno giorno
Angela Laugier
Scritto il 01 marzo 2020 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "ALICE E IL SINDACO" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Alice et le maire
Regia: Nicolas Pariser
Principali interpreti: Fabrice Luchini, Anaïs Demoustier, Nora Hamzawi, Léonie Simaga, Antoine Reinartz, Maud Wyler, Alexandre Steiger, Pascal Reneric, Thomas Rortais, Thomas Chabrol – 103 min. – Francia 2019
Dopo tanta sociologia, la politica torna al cinema con questo bel film francese di Nicolas Pariser, che cerca di coniugare la migliore tradizione del pensiero politico della sinistra con il conte philosophique, caro alla cultura d’Oltralpe.
Il regista, già studente alla Sorbonne, tra i migliori discepoli di Eric Rohmer*, si sofferma, in questo suo secondo lungometraggio, sull’eterno problema del rapporto fra le teorizzazioni ideali – non necessariamente utopiche, che orientano le scelte politiche – e la prassi ovvero l’agire politico di chi per cambiare il mondo deve non solo conoscerlo, ma individuare gli obiettivi intermedi realizzabili col massimo consenso possibile in uno stato democratico, evitando il doppio rischio che il pensiero si lasci sedurre dall’eccesso di astrattezza e che la prassi si riduca al piccolo cabotaggio dei provvedimenti hic et nunc, senza alcuna considerazione per la storia del passato e senza prospettive per il futuro.
Il sindaco di Lione Paul Théraneau (magnifico Fabrice Luchini) in crisi di idee sembra rappresentare la generale difficoltà di quei politici che “ci hanno provato”, per dirla con il Gorbaciov di Herzog, con onestà e con buon successo, promuovendo e realizzando importanti progetti di grande valore sociale, ma che ora si sentono spiazzati dalla tecnologia.
Egli, infatti, pur mantenendosi fedele agli ideali democratici e socialisti che ne avevano guidato le realizzazioni, avverte l’esigenza di risposte nuove, per le quali gli mancano le idee, forse l’immaginazione, forse, come dirà Alice, (incarnata benissimo da Anaïs Demoustier) la modestia.
Alice insegna letteratura e di filosofia, dopo essersi laureata brillantemente a Oxford. Al suo prestigioso curriculum di ricercatrice sono andate le preferenze dello staff del povero Théraneau svuotato e in affanno, che confessa la propria inadeguatezza a far fronte alla frenesia delle giornate sempre più affollate di impegni, di spostamenti, di discorsi. Potrebbe essere lei la persona giusta per aiutarlo: è giovane a sufficienza per orientarsi fra le trasformazioni post-moderne e ha cultura da vendere per valutarne i rischi e le contraddizioni.
Lo seguirà, pertanto, ovunque nel corso della giornata, soprattutto ora che, in mancanza di meglio, il sindaco si è lasciato trascinare nell’impresa folle di coordinare un evento molto impegnativo e solenne: Lione 2520, la celebrazione, cioè, dei 2500 anni dalla fondazione della città, voluta fortemente dalle banche che, finanziandone il progetto, intendono trasformarlo in un affare utile ai soci, sia pure qualificandolo culturalmente e socialmente, in previsione di nuove assunzioni e della creazione di molti nuovi posti di lavoro.
Il film, come si vede, sviluppa temi di strettissima attualità, raccontando benissimo l’incepparsi della politica tradizionale, il crescere delle ambizioni personali e di rivalità invidiose all’interno del gruppo di collaboratori che vedrebbe bene la corsa di Théraneau all’Eliseo per succedere a lui, snaturando completamente le ragioni ideali delle sue scelte.
Nello stesso tempo, diventano ai nostri occhi sempre più chiare le ragioni dello smarrimento di un uomo che alla politica si era dedicato completamente e che non ritrova nella realtà post- moderna la spinta a proseguire. Alla lettura delle Rêveries rousseauiane, forse, il sindaco dovrebbe sostituire quella melvilliana del negarsi all’impegno di Barthélby, lo scrivano**, come infine gli suggerirà amabilmente e con un po’ di ironia Alice, durante il loro ultimo incontro.
Particolarmente apprezzabile che il regista abbia evitato sia il racconto psicologico, sia il mélo sentimentale, sia il sarcasmo feroce a cui i riti della politica si sarebbero prestati, sia il qualunquismo dei populisti fai-da-te, mantenendo alla sua opera il carattere rigoroso del racconto filosofico, amaro e talvolta doloroso, che ci induce a riflettere sul disincanto dell’oggi, profondissimo per chi ha militato con onestà e passione, come il sindaco, ma difficile da affrontare anche per chi, come Alice, si affaccia sul presente col privilegio di saperlo analizzare e comprendere, ma non trova risposte per viverlo da protagonista.
*il film, e la scelta dell’interprete Fabrice Luchini sono un chiarissimo riferimento-omaggio a L’Arbre, le Maire et la Médiathèque che Rohmer girò nel 1993.
** Melville è anche il nome del cardinale che, durante il conclave che lo aveva eletto papa, fugge per sottrarsi a un compito per il quale non si sente adeguato.
Il riferimento è a Nanni Moretti e ad Habemus papam, ed è il regista stesso ad ammetterlo nel corso di un intervista concessa a Nicolas Azalbert e Stéphane Delorme il 5 settembre 2019 (Cahiers du Cinéma n° 759 dell’ottobre 2019).
Angela Laugier
Scritto il 23 febbraio 2020 alle 23:42 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (2)
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Recensione del film "RICHARD JEWELL" (di Angela Laugier)
Regia: Clint Eastwood.
Principali interpreti: Sam Rockwell, Kathy Bates, Jon Hamm, Olivia Wilde, Paul Walter Hauser Dexter Tillis, Wayne Duvall – 129 min. – USA 2019.
Ultima fatica dell’infaticabile Clint, quasi novantenne, che ormai dirige a occhi chiusi, mettendo la sua invidiabile esperienza di cineasta, il suo gusto infallibilmente sobrio, al servizio del suo credo civile: l’amore per gli Stati Uniti, e per i valori della Costituzione americana, che da sempre garantisce la libertà di tutti i cittadini, nonostante le deviazioni interessate di governanti, magistrati, uomini della polizia e dell’esercito, che come tutti gli altri possono errare e peccare, ma che, infine, sono tenuti ad esserle fedeli e a rispettarla.
Rassomiglia all’altro suo eroe, Sully * Richard Jewell (Paul Walter Hauser) il generoso protagonista del film che era nel servizio d’ordine ad Atlanta, durante le Olimpiadi estive (1996), quando, di sorveglianza al Centennial Park il 27 luglio, aveva sventato un gravissimo attentato terroristico, che senza la sua vigilanza e la sua iniziativa coraggiosa avrebbe prodotto una strage.
Il vero terrorista, tale Eric Rudolph, aveva continuato a muoversi negli Stati Uniti del tutto indisturbato, mettendo ancora a segno tre attentati prima di essere individuato e arrestato, ma gli uomini della polizia locale e dell’FBI, nell’intento di assicurarsi encomi e promozioni, avevano cercato addossare la responsabilità del reato, al più presto – con l’aiuto della TV e della stampa locale e nazionale – proprio a Richard, il reo buon uomo, che nel giro di due giorni era stato trasformato da eroe a traditore un po’ squilibrato, che aveva agito allo scopo di mettersi in mostra.
Meno ottuso di quanto la polizia avesse creduto, il povero Richard, da sempre bullizzato, per la sua obesità (veniva chiamato Omino Michelin), legatissimo alla madre, e anche collezionista di armi, aveva intuito un po’ tardivamente la trappola della polizia e aveva nominato il proprio avvocato nella persona di Watson Bryant (magnifico Sam Rockwell), un po’ pigro e un po’ dandy, ma fermamente convinto dell’innocenza del suo assistito che, infatti, sarebbe stato scagionato dopo qualche mese per mancanza di prove.
In ogni caso, determinante per la sua piena riabilitazione, agli occhi dell’opinione pubblica, sarebbe stato l’appello accorato di sua madre (Kathy Bates) in Tv, diretto a Bill Clinton, allora presidente, che con tutta la forza dell’amore per quell’unico, straordinario figlio (oh, my boy aveva esclamato fra sé quando le era arrivata la notizia dell’impresa eroica di Richard) onesto e buono come ogni vero americano, aveva reclamato piena giustizia, per tornare a vivere nella dignitosa semplicità di sempre,
Ancora una volta Clint, utilizzando la vasta gamma di registri narrativi che padroneggia come pochi altri, alterna il racconto asciutto e cronachistico del dramma di Richard, con il racconto amaro delle oscure trame dei potenti per fini inconfessabili, impedendo lo scadere nel mélo grazie alla vigile ironia tanto più tagliente quanto più chiara appare la sproporzione fra l’enormità dell’accusa e le povere cose sequestrate nella modesta casa materna di Richard, dove persino i Tupperware di plastica, di uso casalingo, vengono portati via solennemente, come elementi probatori. Indimenticabili ed esilaranti scene, così come quelle della loro restituzione!
Non ha dubbi, dunque, il vecchio Clint di vivere nel migliore dei mondi possibili: basta attendere con paziente serenità che la verità si faccia strada. Purtroppo, com’è naturale, il mondo perfetto disegnato dalla più perfetta delle Costituzioni si scontra con la meschinità incorreggibile dell’animo umano! Non è colpa di Clint se gli uomini sono così.
Un film da vedere.
*il valoroso pilota che aveva portato in salvo 155 persone con una rischiosa manovra nelle acque gelate dell’Hudson, animato esclusivamente dal senso del dovere
Angela Laugier
Scritto il 16 febbraio 2020 alle 11:24 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Cinema: "Herzog incontra Gorbaciov" (Recensione di Angela Laugier)
Titolo originale: Meeting Gorbachev
Regia: Werner Herzog, Andre Singer
Documentario – Gran Bretagna, USA, Germania 2018.
Un gran bel documentario questo che purtroppo ha poca visibilità in Italia. Questo mio breve commento vuole essere un invito a vederlo, prima che sparisca dalle nostre sale. È l’intervista, condotta in tre tempi, dal grande regista tedesco Werner Herzog e dal famoso documentarista britannico Andre Singer a Mikhail Gorbaciov, l’uomo che aveva introdotto nel sistema dell’economia sovietica le riforme della Perestroika e nella politica del suo paese il principio della Glasnost, ovvero qualche elemento di libero mercato nell’economia ingessata dalla burocrazia, nonché qualche elemento di trasparenza e di controllo nei confronti di un potere politico imbalsamato nell’immobilismo più asfittico e chiuso ostinatamente a ogni forma di confronto.
Alla morte di Breznev, (1982) dopo il susseguirsi grottesco di leader vecchi e malati, finalmente il giovane Gorbaciov era diventato il nuovo segretario del Comitato centrale del Partito comunista sovietico (1985) nonché capo del governo, assumendo insieme alla straordinaria responsabilità nei confronti del proprio paese, l’immagine carismatica di un leader che, venendo incontro alle attese del mondo, diventava simbolo delle speranze dell’umanità, in vista di una pace duratura e senza confini, fino al 1991, quando un colpo di stato della vecchia guardia aveva messo fine al sogno, aprendo in Europa e nel mondo la strada a molti dei processi disgregativi ancor oggi in atto.
È un film costruito grazie al montaggio sapientissimo che alterna le interviste, i ricordi storici e le malinconiche rimembranze personali di un uomo malato e vecchio, ma ancora giovane nel cuore e lucidissimo nell’analisi politica, in cui – tra vecchie fotografie, giornalistiche presenze e immagini di repertorio che avevano fatto il giro del mondo – rivediamo, con i grandi di quegli anni*, anche i tempi delle nostre illusioni, che sarebbe un bene per tutti se non andranno smarrite e diventassero oggetto di conoscenza delle giovani generazioni.
Oggi, quando si va perdendo troppa memoria storica, questo film può aiutare davvero l’umanità disorientata e distratta a riflettere su quel passato e anche sugli errori di chi… ci aveva provato, generosamente. Come lui, che lo dirà alla fine della bellissima lunga chiacchierata, ma anche come noi che altrettanto generosamente avevamo creduto a quella politica e che ostinatamente continuiamo a credere e a sperare.
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*fra gli altri: Ronald Reagan, durante la sua presidenza degli USA, il sindacalista polacco Lech Walesa, ex leader di Solidarność e presidente della Polonia, ed Helmut Kohl, artefice dell’unificazione tedesca dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989 e Margaret Thatcher.
Che sia un film da vedere, dunque, ça va sans dire.
Angela Laugier
Scritto il 11 febbraio 2020 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "JOJO RABBIT" (di Angela Laugier)
Regia: Taika Waititi
Principali interpreti: Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Taika Waititi, Rebel Wilson, Sam Rockwell,
Scarlett Johansson, Archie Yates
– 108 min. – Germania 2019
Un insolito film questo, firmato da un regista neozelandese semi-sconosciuto, mahori per discendenza paterna ed ebreo-russo per discendenza materna, che ci ha dato un film spiazzante e persino un po’ lezioso (all’inizio può essere irritante) su un argomento duro e difficile quale la fine della seconda guerra mondiale nell’est tedesco, quando il terzo Reich stava perdendo i pezzi, ma non era ancora rassegnato alla sconfitta e intensificava la propaganda reclutando nei suoi ranghi persino i bambini, indottrinandoli e fidelizzandoli nel modo più strumentale, convincendoli di essere i più puri rappresentanti della privilegiata razza ariana, che presto avrebbe dominato il pianeta, spazzando via ogni altra impura presenza.
Allettati col dono di piccole armi, giocattoli micidiali, esaltati dall’orgogliosa e stolta propaganda filo-nazista, i piccoli venivano esercitati alla guerra, al disprezzo della vita attraverso tecniche ripugnanti, che appellandosi alla crudeltà incosciente propria dei bambini, cercavano di temprarli all’insensibilità di fronte al dolore e alla sofferenza dei più deboli e dei più indifesi.
La prima parte del film si sofferma a lungo su quest’aspetto che forse avrebbe richiesto una maggiore sintesi, aggiungendo, per di più, la presenza dello stesso Hitler, interpretato dallo stesso regista, visione fantasiosa, prodotto della mente del piccolo Jojo (Roman Griffin Davis), il protagonista biondo e riccioluto che non ha più visto il padre ufficiale e neppure la sorella ed e rimasto solo con la mamma, Rosie (meravigliosa Scarlett Johansson).
Rosie è una madre amorosa e paziente: sa che l’orribile guerra che ha distrutto la sua famiglia, privandola del marito e dell’altra figlia adolescente, ha le ore contate e che Jojo è troppo piccolo e ingenuo per capire chi siano davvero i nazisti che lo stanno indottrinando; sa che ha bisogno di lei e del suo ascolto attento ed è pronta ad aspettare che maturi in lui il frutto dell’educazione che lei gli ha trasmesso, senza prediche o sermoni moraleggianti, ma coll’amore.
Gli cela prudentemente, invece, di aver accolto negli scantinati della loro grande casa Elsa (Thomasin McKenzie), piccola ebrea sola e disperata che accudisce e protegge, ben conscia dei rischi per lei, che infatti non avrebbe tardato a pagare molto cara la sua generosità solidale.
Questa parte del film è raccontata molto bene, ed è la più coinvolgente ed emozionante, poiché, senza celare l’efferatezza orrenda dei nazisti ormai allo sbando, offre alla nostra meditazione alcune pagine sublimi, che ci parlano della continuità degli affetti più profondi, anche oltre la morte, del tramandarsi dei gesti dell’amore, i più semplici e anche i più banali, come quello dell’allacciare le scarpe…, potentissima metafora della persistenza salvifica della memoria che attraversa tutto il film dall’inizio alla fine (come comprenderemo), senza stemperarne la durezza.
Film sicuramente da vedere e, io credo, da offrire alla riflessione dei più giovani, proprio per l’inattesa singolarità del racconto. Non un capolavoro, tuttavia accreditato a più di un premio la notte degli Oscar.
Angela Laugier
Scritto il 09 febbraio 2020 alle 18:31 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "JOJO RABBIT" (di Angela Laugier)
Regia: Taika Waititi
Principali interpreti: Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Taika Waititi, Rebel Wilson, Sam Rockwell, Scarlett Johansson, Archie Yates – 108 min. – Germania 2019
Un insolito film questo, firmato da un regista neozelandese semi-sconosciuto, mahori per discendenza paterna ed ebreo-russo per discendenza materna, che ci ha dato un film spiazzante e persino un po’ lezioso (all’inizio può essere irritante) su un argomento duro e difficile quale la fine della seconda guerra mondiale nell’est tedesco, quando il terzo Reich stava perdendo i pezzi, ma non era ancora rassegnato alla sconfitta e intensificava la propaganda reclutando nei suoi ranghi persino i bambini, indottrinandoli e fidelizzandoli nel modo più strumentale, convincendoli di essere i più puri rappresentanti della privilegiata razza ariana, che presto avrebbe dominato il pianeta, spazzando via ogni altra impura presenza.
Allettati col dono di piccole armi, giocattoli micidiali, esaltati dall’orgogliosa e stolta propaganda filo-nazista, i piccoli venivano esercitati alla guerra, al disprezzo della vita attraverso tecniche ripugnanti, che appellandosi alla crudeltà incosciente propria dei bambini, cercavano di temprarli all’insensibilità di fronte al dolore e alla sofferenza dei più deboli e dei più indifesi.
La prima parte del film si sofferma a lungo su quest’aspetto che forse avrebbe richiesto una maggiore sintesi, aggiungendo, per di più, la presenza dello stesso Hitler, interpretato dallo stesso regista, visione fantasiosa, prodotto della mente del piccolo Jojo (Roman Griffin Davis), il protagonista biondo e riccioluto che non ha più visto il padre ufficiale e neppure la sorella ed e rimasto solo con la mamma, Rosie (meravigliosa Scarlett Johansson).
Rosie è una madre amorosa e paziente: sa che l’orribile guerrra che ha distrutto la sua famiglia, privandola del marito e dell’altra figlia adolescente, ha le ore contate e che Jojo è troppo piccolo e ingenuo per capire chi siano davvero i nazisti che lo stanno indottrinando; sa che ha bisogno di lei e del suo ascolto attento ed è pronta ad aspettare che maturi in lui il frutto dell’educazione che lei gli ha trasmesso, senza prediche o sermoni moraleggianti, ma coll’amore.
Gli cela prudentemente, invece, di aver accolto negli scantinati della loro grande casa Elsa (Thomasin McKenzie), piccola ebrea sola e disperata che accudisce e protegge, ben conscia dei rischi per lei, che infatti non avrebbe tardato a pagare molto cara la sua generosità solidale.
Questa parte del film è raccontata molto bene, ed è la più coinvolgente ed emozionante, poiché, senza celare l’efferatezza orrenda dei nazisti ormai allo sbando, offre alla nostra meditazione alcune pagine sublimi, che ci parlano della continuità degli affetti più profondi, anche oltre la morte, del tramandarsi dei gesti dell’amore, i più semplici e anche i più banali, come quello dell’allacciare le scarpe…, potentissima metafora della persistenza salvifica della memoria che attraversa tutto il film dall’inizio alla fine (come comprenderemo), senza stemperarne la durezza.
Film sicuramente da vedere e, io credo, da offrire alla riflessione dei più giovani, proprio per l’inattesa singolarità del racconto. Non un capolavoro, tuttavia accreditato a più di un premio la notte degli Oscar.
Angela Laugier
Scritto il 09 febbraio 2020 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Sorry, we missed you" (di Angela Laugier)
Regia: Ken Loach
Principali interpreti: Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor, Ross Brewster, Charlie Richmond – 100 min. – Gran Bretagna, Francia, Belgio 2019.
Sorry, we missed you è un’espressione di cortesia che probabilmente conosciamo, almeno nella sua versione italiana: spiacenti, non vi abbiamo trovati! È esperienza diffusa che il nostro pacco sia arrivato fino a casa nostra e che ora a noi tocchi cercarlo perché il corriere non ci ha trovati. Il nostro stato d’animo indispettito ci suggerisce di non fare più acquisti on line, proposito che presto si vanifica di fronte alla mutata realtà: stanno scomparendo, uno dopo l’altro, i negozi sotto casa; si moltiplicano invece i furgoni degli addetti alla consegna, così come i motorini o i monopattini che sfrecciano veloci e quasi ci sfiorano, per recapitare pacchi, pacchetti e pacchettini con le merci di cui abbiamo fatto richiesta: effetti della globalizzazione e dell’accelerazione (?) impressa da Internet agli scambi commerciali. Questa è la quotidianità con cui facciamo i conti, della quale il vecchio Ken Loach si occupa in questo film, e lo fa come al solito mettendosi nei panni di chi lavora nei centri di smistamento delle merci che, trasportate dagli aeroporti, arrivano ai magazzini per essere separate e assegnate agli addetti che le portano a destinazione, ovvero a noi.
Il lavoro - Si chiama Ricky Turner (Kris Hitchen) il lavoratore da troppo tempo disoccupato e ormai quarantenne, di cui seguiremo le peripezie. Aveva deciso di “automunirsi”, acquistando a rate il furgone bianco per la consegna delle merci che gli avrebbe facilitato il nuovo impiego. Questo infatti richiedeva l’inserzionista, il padrone che non si chiama più così, ma che da padrone gli parla quando gli spiega che cosa dovrà fare. Il furbacchione, infatti, si limita a organizzare i trasporti di quelli come lui e anche di quanti, non disponendo di mezzo proprio, si mettono alle sue dirette dipendenze come lavoratori subordinati. Nonostante l’apparente differenza delle condizioni, però, quel lavoro è infernale per tutti, sfruttamento allo stato puro, senza garanzie e senza limiti d’orario, sempre spiati dall’implacabile “telecomando” elettronico che registra tempi e spostamenti, e che impedisce soste, riposo e solidarietà di classe.
La famiglia - Un inferno per tutti sta diventando anche la vita delle famiglie. La cinepresa di Ken Loach segue ancora una volta Kriss, nella vita privata: ha una moglie, la dolce e paziente Abbie (Debbie Honeywood), che lavora occupandosi con rispettosa dedizione di anziani e malati, sacrificando il proprio tempo soprattutto sui mezzi pubblici: le rate del furgone rendono impossibile alla famiglia sostenere le spese per una seconda auto. I figli, adolescenti smarriti, soffrono, nel corpo e nell’anima, il disagio crescente di chi ha perso i riferimenti affettuosi ed è costretto a vivere senza l’amorosa fermezza dei genitori che aiuta a orientarsi nella vita.
Come si vede, il film non ci dice cose molto diverse da quelle che nei loro articoli ci comunicano i sociologi, che sono diventate, nella vulgata giornalistica, noiose ovvietà. Eppure, questo film non contiene ovvietà: si piange con i suoi infelici protagonisti, perché nelle riprese del grande Ken Loach essi sono uomini, donne e ragazzi veri nel loro dolore e nelle loro sofferenze, credibili nelle loro aspirazioni, sanguinanti nelle loro ferite, tumefatti per i continui colpi che ricevono. Il film diventa, perciò, ancora una volta, non solo una potentissima denuncia, ma una rappresentazione del nostro vivere e soffrire in un mondo sempre più ingiusto e sempre più indifferente. Ken Loach, l’ottantaduenne lucidissimo nella sua disperazione, ancora ci commuove ed è certamente, come spesso gli si rimprovera, uomo di parte nonché cineasta schierato. Aggiungerei che è un grande vecchio ancora appassionato per le sorti dell’umanità, per nostra fortuna!
Angela Laugier
Scritto il 02 febbraio 2020 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "The farewell – Una bugia buona" (di Angela Laugier)
Titolo originale: The Farewell
Regia: Lulu Wang
Principali interpreti: Zhao Shuzhen, Awkwafina, X Mayo, Lu Hong (I), Kong Lin, Tzi Ma, Diana Lin, Gil Perez-Abraham, Ines Laimins, Jim Liu, Aoi Mizuhara- 98 min. – USA, Cina 2019.
Mentire non sempre è cosa riprovevole: alcune menzogne possono persino allungare la vita! È uno dei messaggi che ci lascia questo bel film, secondo lungometraggio di Lulu Wang, regista cinese, ora cittadina americana, che ha forti legami con la terra delle sue origini e con quella parte della famiglia che è là e intende rimanerci.
In quest’opera, presentata con successo al Sundance Film Festival, la regista racconta un’esperienza vissuta, distaccandosene in parte: quel tanto che occorre per non rendere facilmente riconoscibili le persone reali che profondamente ama; si ringiovanisce di molto, perciò, e diventa la trentenne Billi che un po’ le rassomiglia e che è interpretata dalla rapper Awkwafina.
Newyorkese di origine cinese, come i suoi genitori, Billi, non diversamente dai suoi coetanei, ha trovato un lavoro precario per una paga così bassa che non riesce neppure a garantirsi l’indipendenza dalla famiglia, con la quale non vive più: non ha un buon rapporto con la madre che, pienamente americanizzata, le attribuisce ogni responsabilità per l’incerta condizione in cui si trova: non ha grinta; non è intraprendente..
Billi vuole molto bene alla nonna paterna, l’ultra ottuagenaria Nai Nai (Zhao Shuzhen), che, dopo averla allevata, era tornata nella sua Cina lasciandole l’indelebile ricordo della speciale tenerezza solidale che da sempre lega i nonni ai nipotini che hanno viziato e fatto crescere, accettandone capricci e difetti senza riserve.
Per la saggia Nai Nai, che vive serenamente la propria vecchiaia, e che sente spesso anche Billi (per lei si era convertita allo Smartphone), si sta sta avvicinando ora il triste momento del commiato dal mondo. Sembra, infatti, che non le resti molto da vivere: un brutto tumore ai polmoni, inarrestabile nella sua progressione, sta indebolendo le sue forze mentre l’inevitabile calvario delle terapie che le si prospettano mobilita tutti i parenti, compresi gli “americani”, che lasciano le loro abituali occupazioni per “proteggerla” dalla verità della malattia: la paura sicuramente la aggraverebbe.
Billi è combattuta fra l’esigenza di rinnovare, con la sua presenza, l’amore di un tempo, e quella, tutta americana, di essere sincera con lei, ma la sua ostinata voglia di verità rimane isolata: un po’ per volta comprenderà che la sua visione del mondo nasce dall’antropocentrismo della cultura occidentale, dalla convinzione che ogni uomo sia dominatore della natura e padrone della propria vita, e che a ognuno perciò tocchi decidere di sé e del proprio futuro, ingaggiando, come Antonius, il cavaliere bergmaniano, una sfida perdente con la morte.
Ogni cinese, invece, sa da sempre che la morte non è che il naturale ritorno a quel grembo materno che è la terra, che dà la vita e che se la riprende per riproporla in altra forma, ad altri esseri viventi, nell’incessante e ciclico alternarsi della vita e della morte.
Le immagini del film accompagnano il trascorrere del tempo con dolcezza, mentre le inimicizie e le incomprensioni si compongono nel ricordo di chi è stato e che tutti sentono ancora vicino.
Una bella lezione di serenità che può aiutarci a vivere meglio.
Uno dei film più profondamente “natalizi” che mi sia capitato di vedere.
Angela Laugier
Scritto il 26 gennaio 2020 alle 16:25 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "La ragazza d'autunno"(di Angela Laugier)
Titolo originale: Dylda
Regia: Kantemir Balagov
Principali interpreti: Viktoria Miroshnichenko, Vasilisa Perelygina, Andrey Bykov, Igor Shirokov, Konstantin Balakirev, Kseniya Kutepova, Olga Dragunova, Timofey Glazkov, Alyona Kuchkova, Veniamin Kac, Denis Kozinets, Alisa Oleynik, Dmitri Belkin, Lyudmila Motornaya, Anastasiya Khmelinina – 134 min. – Russia 2019.
È arrivato in sala l’attesissimo secondo film di Kantemir Balagov, regista del bellissimo Tesnota, ora reperibile in DVD.
Nato nel 1991 e cresciuto alla scuola di A. Sokurov, l’enfant prodige ha imparato perfettamente a maneggiare gli strumenti del suo lavoro e questa volta ci ha raccontato, con impassibile distacco, alcune storie terribili dell’immediato dopoguerra (1945) a Leningrado, quando i nazisti se n’erano finalmente andati ed era consentito sperare che con la pace sarebbero tornate le condizioni della normalità quotidiana, per riprendere a vivere. Ai sopravvissuti si richiedevano però cure urgenti: a quelli, che erano rimasti e avevano patito la fame e il freddo resistendo per eroismo o per disperazione; a quelli che erano tornati dal fronte e che portavano nel corpo e nella mente i segni incancellabili dell’orrore più feroce e che ora, in ospedale, ricevevano le attenzioni e, quando possibile, le cure del medico e delle infermiere pietose e premurose, che tuttavia dovevano misurarsi con la scarsità dei farmaci, dei disinfettanti, dei bendaggi e persino dell’acqua, poiché il ritorno alla normalità non era questione di ore, ma di giorni e talvolta di mesi: tutto scarseggiava, persino i cani, che gli abitanti avevano sacrificato per sopravvivere.
Questo film, ispirato al romanzo La guerra non ha un volto di donna, della scrittrice Premio Nobel Svetlana Alexievich, tuttavia, non è un film sui reduci, o sui disperati che hanno perso in guerra i loro affetti, ma è una storia di donne, un racconto molto complesso e molto personale del regista che scava nel dolore femminile, spiegandone le ragioni.
Mi interessa il destino delle donne e, in particolare, di quelle che hanno combattuto nella seconda guerra mondiale […], la guerra che ha visto in assoluto la più massiccia partecipazione da parte delle donne. Come autore, mi interessa trovare una risposta alla domanda: cosa succede a una persona che la natura ha previsto per creare la vita, dopo essere sopravvissuta alle prove della guerra?
Era tornata dal fronte Masha (Vasilisa Perelygina), che a Leningrado aveva incontrato l’amica Iya (Viktoria Miroshnichenko), arruolata come lei nell’esercito, con compiti di “supporto”, eufemismo per nascondere la prostituzione organizzata dallo stato sovietico a sostegno delle truppe. Iya, detta la Spilungona (Dylda) o Giraffa per l’altezza spropositata, era presto tornata alla vita civile, ovvero a condividere con gli assediati la fame e il freddo, avendo manifestato la propria inidoneità all'”attività di supporto” nella forma di una transitoria epilessia che ne bloccava, all’improvviso, i movimenti. A lei, Masha aveva affidato Paska, il piccolo che aveva quasi miracolosamente partorito, fra un aborto e l’altro, perennemente a rischio in quella zona di guerra.
Al suo ritorno, Paska non c’era più e Iya si era assunta la responsabilità di quella scomparsa, accettando di risarcire l’amica con una maternità “per procura”, che avrebbe restituito a entrambe una ragione per vivere, allontanando i sensi di colpa e le umiliazioni accumulate nel passato e anche nel presente, quando tutti i nodi erano venuti al pettine e la disperazione era sembrata impadronirsi inesorabilmente delle loro giovani vite.
È un film sull’amicizia femminile, perciò, sugli sguardi e sui gesti della compassione e della pietà, che si esprime senza parole, con i tempi lunghi necessari a lasciare intendere l’indicibile; a confessare l’inconfessabile, a esprimere con timido pudore un’ambivalenza erotica che non può o non vuole palesarsi.
Sono anche altri i temi nascosti sotto il “velame de li versi strani” e sono tutti molto moderni: l’estrema pietà dell’eutanasia di fronte al dolore inutile e senza rimedio; le ingiustizie di classe e i privilegi di chi non ha dovuto sacrificare il proprio cane per nutrirsi; le lunghe code per un lavoro; l’ottusità dei burocrati; il permanere di un’arcaica cultura maschile che confina le donne e anche i “diversi” a un ruolo di perenne subalternità.
Dal film, che sembrerebbe molto triste, emerge invece la voglia di vivere dei personaggi, che sentono di nuovo in sé l’impulso a superare il momento più critico. Tutto questo diventa credibile grazie alla sinergia che si stabilisce fra le bravissime protagoniste, la volontà del regista di evitare un film “storico” per parlare con il linguaggio universale del sentire, espresso con asciutta e scarna sobrietà, lontana dal mélo e anche con i colori raffinati e caldi della splendida fotografia e dei bellissimi costumi.
Angela Laugier
Scritto il 19 gennaio 2020 alle 17:47 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Dio è donna e si chiama Petrunia" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija
Regia: Teona Strugar Mitevska
Principali interpreti: Zorica Nusheva, Labina Mitevska, Simeon Moni Damevski, Suad Begovski, Stefan Vujisic, Violeta Sapkovska, Petar Mircevski, Andrijana Kolevska, Nikola Kumev, Bajrush Mjaku – 100 min. – Macedonia, Belgio, Slovenia, Croazia, Francia 2019
La cittadina di Stip, dove si svolgono i fatti raccontati dal film, è un importante centro dello stato di Macedonia (sorto dalle rovine della ex Jugoslavia), punto di riferimento economico dei territori limitrofi, nonché sede universitaria per le scienze tecniche e commerciali. Annualmente, dopo la festa dell’Epifania, vi si svolge una processione: la folla dei fedeli, a maggioranza cristiano-ortodossa, segue il suo pope accompagnato dalle autorità politiche locali. Si tratta di una manifestazione di religiosità a cui si mescolano elementi di fideismo superstizioso e di ribalda esibizione muscolare: i maschi della zona gareggiano per impadronirsi del bel crocifisso ligneo finemente scolpito, gettato in fiume, alla fine dell’evento, dal pope medesimo: porterà fortuna e felicità per tutto l’anno a chi prima lo afferra.
L’episodio raccontato dal film e, a quanto sembra, ispirato a un fatto di cronaca, ci rappresenta lo scorrere lento della processione e l’arrivo al ponte da cui la croce benedetta sarebbe stata lanciata; ci fa ascoltare le parole di circostanza del religioso e delle autorità, senza nasconderci l’impazienza dei maschi palestrati che avrebbero voluto in fretta lanciarsi nel fiume gelido per impadronirsi dell’oggetto miracoloso. Si era imbattuta in questa folla eterogenea una giovane donna, che stava tornando a casa dopo essersi presentata, senza successo a un colloquio per ottenere un lavoro: anche lei aveva bisogno di fortuna e di felicità! Si era gettata, perciò, in acqua e aveva afferrato l’ambito premio, sotto gli occhi increduli di tutti e fra le proteste dei concorrenti, gonfi di rabbia e di muscoli, che per settimane si erano allenati per vincere e che ora si sentivano defraudati da chi non aveva alcun diritto di partecipare: era una donna, infatti, ciò che non era mai accaduto; era perciò stesso una puttana, era sicuramente una ladra; peggio, era una ladra sacrilega, era il diavolo in persona…era Petrunya!
Invano, di fronte al crescere degli insulti feroci, il pope aveva tentato di difenderla: qualcuno aveva chiamato la polizia che, per sottrarre la poveretta al linciaggio, l’aveva trasportata al locale commissariato, dove in un ambiguo oscillare fra rassicurazioni e minacce, era stata trattenuta per molte ore, nel vano tentativo di ottenere da lei quella benedetta croce.
L’interesse per gli sviluppi della vicenda era diventato molto grande e aveva coinvolto anche i due inviati televisivi, che, già sul posto per una breve cronaca di routine, avevano ora in mano lo scoop della loro vita: esisteva ancora un po’ di medioevo in un paese che ora, libero e indipendente, si riteneva europeo. La coraggiosa giornalista (Labina Mitevska) indotta a rimanere sul posto per ambizione professionale, avrebbe di lì a poco da sola preso a cuore la vicenda di Petrunya, che del suo sostegno e anche della sua comprensione aveva davvero bisogno.
Accolto molto bene all’ultima Berlinale – dove la regista è conosciuta e stimata per aver presentato in passato due altri lungometraggi – questo film è stato apprezzato recentemente anche al TFF. Si segnala infatti per lo stile preciso e asciutto col quale è raccontata la storia dolorosa di una giovane dalla difficile vita familiare.
Petrunyia, trentaduenne non bella e anche un po’ sovrappeso, desidera ascolto e comprensione e vorrebbe invano mettere a frutto i suoi studi (una laurea in storia all’Università di Skopje, poco considerata dalle sue parti) e reagisce agli insuccessi chiudendosi in sé, tormentata dalla vergogna e dalla paura. Disoccupata, come la maggior parte dei suoi coetanei, non è abbastanza desiderabile per trovare qualsiasi altro lavoro: non ti scoperei si era appena sentita dire dal direttore di un laboratorio di sartoria a cui chiedeva impiego…
Il film è la denuncia molto ferma non solo dell’ingiustizia e della discriminazione sessista, ma della ferocia profonda e quasi animalesca con la quale la popolazione maschile della Macedonia, sostenuta dai politici più conservatori e da una chiesa priva di coraggio innovativo continua ad aggrapparsi ai propri miserabili privilegi persino in uno stato che vanta una costituzione attenta alla difesa delle pari opportunità e dei diritti civili.
Visione sicuramente consigliabile.
Angela Laugier
Scritto il 12 gennaio 2020 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "STORIA DI UN MATRIMONIO" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Marriage Story
Regia: Noah Baumbach
Principali interpreti: Scarlett Johansson, Adam Driver, Laura Dern, Merritt Wever, Azhy Robertson,
Ray Liotta, Julie Hagerty, Mark O’Brien - 136 min. – USA 2019.
Una breve premessa: anche questo film, come potete vedere dalla locandina e dal trailer è distribuito da Netflix sulla propria piattaforma. Come era accaduto per The Irish Man, qualche sala cinematografica lo sta proiettando, in lingua originale, con sottotitoli italiani. A questa visione in sala si riferisce il mio commento.
Non è facile dare un giudizio su questo film, che è la crudelissima analisi di un difficile rapporto di coppia. Lei, Nicole (Scarlett Johansson) – nata e vissuta a Los Angeles – è un’attrice che vorrebbe affermarsi; lui – “più newyorkese di qualsiasi altro newyorkese” – è Charlie (Adam Driver), regista e scrittore teatrale in cerca di pubblico e, a sua volta, di affermazione.
Li vediamo mentre stanno descrivendo, separatamente, le qualità più amabili e i difetti più odiosi dei rispettivi partner: l’esercizio fa parte della terapia di coppia che i due, sul punto di separarsi, hanno tentato per non precipitare la decisione dolorosa che dovranno prendere. Dalle rispettive parole, accompagnate dalle immagini dei numerosi flashback, comprendiamo che il loro era stato un bel matrimonio d’amore e che entrambi preferirebbero farlo durare, non solo perché hanno un bambino che inevitabilmente ne soffrirà, ma soprattutto perché l’antica fiamma era dura da estinguere. Era ancora più difficile, tuttavia, conciliare l’esigenza di vivere a Los Angeles – la sola città in cui Nicole, nel suo ambiente e con le giuste conoscenze, avrebbe potuto affermarsi – con quella, irrinunciabile per lui, di vivere a New York, la città più europea degli Stati Uniti, in cui le sue pièces teatrali avrebbero avuto un po’ di futuro e sperabilmente parecchi spettatori appassionati.
L’accordo, date queste premesse, non era stato possibile, per la gioia degli avvocati matrimonialisti (una dura e precisa Laura Dern per Nicole; un abile e flessibile Ray Liotta per Charlie), che con spietato e lucido realismo avevano prospettato le conseguenze dei comportamenti più ragionevoli e umani di fronte alle giurie dei tribunali civili americani che sempre applicano freddamente le leggi, incuranti dell’umanità, del sentire e del soffrire delle coppie in crisi, ma attente esclusivamente al presunto interesse dei minori, certificato, in questo caso, con precisione burocratica da un’osservatrice esterna, che aveva passato una giornata con padre e figlio, senza parlare e senza dar segni di comprendere.
Questo film mi ha ricordato Lo stravagante mondo di Greenberg , dello stesso regista per l’amabile velleitarismo del personaggio di Charlie, e, soprattutto, per la rappresentazione delle nevrosi di chi fatica a integrarsi nel mondo di oggi, che come vediamo è interessato esclusivamente a produrre e a fare i soldi, cosicché riacquista attualità la profezia inquieta di Bertrand Russell (Matrimonio e morale – traduzione di Gianna Tornabuoni – Milano, Longanesi & C. , 1966):
“Sarebbe pazzesco, sebbene in certi casi possa essere tragicamente eroico, sacrificare la carriera all’amore, ma è ugualmente pazzesco, e niente affatto eroico, sacrificare l’amore alla carriera. Nondimeno ciò avviene, e avviene inevitabilmente in una società organizzata sulla base della lotta universale per il denaro.”
Il film si fa seguire con interesse, coinvolgendo lo spettatore grazie all’abilità con la quale il regista traduce il proprio script, molto letterario e fitto di dialoghi, in sequenze visive spesso brevi, ma ben collegate da un montaggio spezzato e nervoso, che pienamente asseconda l’inquietudine e la solitudine di lui, nonchè con i sensi di colpa di lei, la quale, giustamente, ma col nodo alla gola, rivendica il diritto a essere se stessa.
Consigliabile la visione (possibilmente in sala e in lingua originale)
Scritto il 05 gennaio 2020 alle 09:57 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "RITRATTO DELLA GIOVANE IN FIAMME" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Portait de la jeune fille en feu
Regia: Céline Sciamma
Principali interpreti: Noémie Merlant, Adèle Haenel, Luàna Bajrami, Valeria Golino, Cécile Morel – 119 min. – Francia 2019.
La premessa - La vicenda è raccontata da Marianne (Noemi Merlant), che insegna, in una scuola di pittura, l’arte del ritratto. È lei, sollecitata da una studentessa, a evocare, mentalmente, come in un grande flashback, la vicenda che qualche decennio prima (1770) le aveva ispirato un dipinto dal titolo La jeune fille en feu.
Mi soffermo sull’innegabile suggestione di questo titolo, quasi proustiano, perché mi pare contenere in sé una chiave di lettura del film, come se la regista, che lo ha diretto e sceneggiato, ci avvisasse con un po’ di malizia dell’operazione “artificiosa” che sta per mettere in scena: il ricupero memoriale di una storia indicibile, se non sul piano dell’arte, irrealizzabile nella realtà, riferita a un brevissimo arco temporale, collocata, però, in un tempo storico che precede di più di un secolo Å l’ombre des jeunes filles en fleur (1918).
Si tratta, anche in questo caso, di una recherche, ovvero della ricostruzione, sul filo della memoria di Marianne, di un episodio amoroso (breve), fondamentale snodo nella sua vita, ma importante anche nella vita di due altre donne: Heloïse (Adèle Haenel) e Sophie (Luàna Bajrami). Tutte e tre le donne, improvvisamente libere oltre ogni speranza, avvertono coscientemente con quanta semplicità e facilità il gentil sesso potrebbe vivere in perfetto equilibrio fra anima e corpo, ovvero allo stato di natura, che pare coincidere con lo stato di grazia indispensabile per la felicità.
A questo punto il riferimento (per quanto non esplicito, anzi maliziosamente mascherato sotto le mentite spoglie di Ovidio e del mito di Orfeo ed Euridice) è inevitabilmente Rousseau, richiamato oltre che dalla visione positiva della natura, anche dai nomi di Heloïse (Julie ou la Nouvelle Heloïse è il suo romanzo protoromantico del 1780) e di Sophie (Emile – 1762 – è il suo romanzo pedagogico, sull’educazione ideale, secondo natura e secondo la loro naturale diversità, di un bambino, Emile e di una bambina, Sophie, futuri capostipiti ideali di una nuova discendenza, educata secondo natura e secondo ragione).
Si delinea in questo modo il carattere di teorema del film, i cui presupposti sono in parte letterari (Proust) e in parte filosofici grazie alla onnipresenza rousseauiana nei nomi dei personaggi e sullo sfondo dell’intero racconto di Marianne.
La ricostruzione di Marianne, sul filo della memoria - Nel 1770, Marianne approdava sulla costa bretone, dopo che il suo bagaglio da pittrice era caduto nelle acque minacciose dell’Atlantico in tempesta, costringendola a un tuffo fuori programma per ricuperarlo, mentre il barcaiolo e il corriere che la accompagnavano a destinazione, continuavano a remare iperterriti e indifferenti. Affaticata e infreddolita, pertanto, Marianna raggiungeva, risalendo la falaise, il grande castello del quale sarebbe stata ospite per svolgere l’incarico segreto per il quale una ricca vedova (Valeria Golino) l’aveva assunta: ritrarre la giovane figlia Heloïse, appena uscita dal convento. Era diventata lei la figlia da marito, dopo che l’altra figlia era morta, forse per suicidio. C’era un buon partito per lei, a Milano, che attendeva il suo ritratto per decidere se quel suo aspetto fosse di proprio gradimento. Nessuno prendeva neppure in considerazione che lei non lo volesse, men che meno che lei non volesse sposarsi.
Marianne, costretta a nascondere le ragioni della propria presenza, avrebbe a lungo studiato e osservato Heloise, accompagnandola nelle lunghe passeggiate sulla riva dell’oceano. nel tentativo di coglierne, attraverso le espressioni del volto e degli occhi l’anima che le sfuggiva. Un’assenza improvvisa della madre, partita per pochi giorni alla volta di Milano, permetteva finalmente lo svelamento dell’indicibile: l’emergere del desiderio d’amore che infuocava la giovane Heloïse e la scoperta di sé di Marianne, mentre il personaggio di Sophie, la serva fedele e saggia, dall’animo gentile, riceveva da Marianne e da Sophie l’aiuto per interrompere senza rischi una gravidanza indesiderata…
Il tema dell’amore fra donne non disgiunto dal quello della solidarietà sororale ha trovato in questo film una rappresentazione raffinata e rigorosa, talvolta un po’ fredda, come si conviene a un teorema, ricco anche di molte citazioni cinefile: Lezioni di piano di Jane Campion in primo luogo, cui sembra ricollegarsi per la presenza del tema dell’arte e dell’artista e per il gusto romantico della corrispondenza tumultuosa fra il paesaggio e gli stati d’animo, presente anche nel bellissimo La donna del tenente francese di Karel Reisz. Mi sarei aspettata, dopo aver letto molte recensioni sul web, soprattutto maschili, una certa dose di erotismo, che invece mi è sembrato del tutto assente, forse travolto da una ricerca della bellezza un po’ fine a se stessa.
Impressioni di una qualche forzatura ideologica e programmatica, in un film per altro molto contenuto negli sviluppi mélo, mi indurrebbero a rivederlo in lingua originale.
Il film, accolto in genere molto bene da critica e pubblico, si pone, per l’eccezionale numero di premi e nomination che fino a questo momento ha ottenuto (e che riporto qui di seguito),tra i più forti candidati agli Oscar del prossimo anno.
Sopravvalutato? Io credo di sì, ma è un film da vedere tenendo presente, mai come in questo caso, la soggettività del mio giudizio!
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Premi (fonte: mymovies.it):
– Migliore sceneggiatura Festival di Cannes 2019
– Migliore sceneggiatore europeo a Céline Sciamma European Film Awards 2019
Nomination
Golden Globes 2020:
– Migliore film straniero
European Film Awards 2019
– Miglior regista europeo Céline Sciamma
– Miglior attrice europea Noémie Merlant;Adèle Haenel
– Miglior sceneggiatore europeo Céline Sciamma
Critics Choice Award 2020
– Migliore Film straniero
Independent Spirit Awards 2020
– Migliore film straniero
Angela Laugier
Scritto il 29 dicembre 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (4)
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Recensione del film "UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK" (e qualche estemporanea riflessione) - Di Angela Laugier
Titolo originale: A Rainy Day in New York
Regia: Woody Allen
Principali interpreti: Timothée Chalamet, Elle Fanning, Selena Gomez, Jude Law, Diego Luna, Liev Schreiber, Annaleigh Ashford, Rebecca Hall, Cherry Jones, Will Rogers (II), Kelly Rohrbach, Suki Waterhouse – 92 min. – USA – 2019.
Il pleure dans mon coeur
Comme il pleut sur la ville …
Il Woody Allen dei film più amabili è tornato a raccontare la vita, gli amori e le bizzarre storie dei suoi anti-eroi e ancora una volta mette in scena, con grazia impareggiabile, la tragicommedia quotidiana delle nevrosi, delle ansie, dei sogni e anche delle insensatezze che attraversano i loro (nostri) percorsi. Lo sfondo è ancora l’amatissima e meravigliosa New York, che Woody ci ha fatto amare, ancor prima di conoscere e che forse non sarebbe così cara al nostro cuore senza i suoi film.
È una New York adorabile e piovosa quella che accoglie i due ragazzi innamorati che arrivano dall’Arizona. Lui è Gatsby (Timothé Chalamet) ed è nativo della Grande Mela, da cui si è allontanato per sottrarsi alla madre che non sopporta; lei è Ashleigh (Elle Fanning), figlia di un banchiere, nonché studentessa diligente che sogna una carriera da giornalista anche se si accontenta, per ora, di lavorare al giornalino del College: è a Manhattan per intervistare un famoso regista, forse il trampolino di lancio che stava aspettando.
Gatsby, come lei, è di famiglia ricca, ciò che lo induce a non preoccuparsi troppo del futuro: è carino, un po’ tormentato, non ama misurarsi con la realtà (ha rimosso, perciò, il conflitto con la madre); studia poco, ma legge molto; ascolta musica di qualità e gli piace sfidare il caso, giocando a poker: ha guadagnato migliaia di dollari in men che non si dica, che spenderà a New York naturalmente con lei, prima e dopo l’intervista al famoso cineasta.
Le farà scoprire la grande metropoli in the rain, sotto quel vitale scrosciare dell’acqua che sente così suo, che pare aiutarlo a trovare se stesso, a riconciliarsi col passato e forse a trovarne il senso: un segnale positivo.
Manhattan, invece, avrebbe inaspettatamente separato i loro percorsi: il giro in carrozza, alla scoperta degli aspetti romantici della più bella città del mondo, Gatsby non lo avrebbe fatto con Ashleigh, ora lontana da lui, alle prese con un regista in crisi creativa, uno sceneggiatore (Jude Law) geloso della moglie e un attore tanto bello e famoso da far perdere la testa alle ragazze non troppo accorte…
Molte le sorprese del film, imprevedibili le svolte, né manca, come nelle fiabe il momento dell’agnizione, di cui non posso dir altro se non che è un grande momento di verità.
È un film da vedere: la bella strenna natalizia di un Woody Allen in piena forma, come non si vedeva da tempo. Per fortuna lo troviamo nelle sale italiane e quasi ovunque in Europa.
Sembra incredibile, ma negli USA, dove è nato ed è stato girato, non può essere visto: Amazon, che l’aveva prodotto e avrebbe dovuto organizzarne la distribuzione, ne ha bloccato l’uscita in sala.
Qualcuno, rispolverando, in un clima isterico da caccia alle streghe, una storia di 25 anni fa, per la quale il regista aveva già ottenuto l’assoluzione giudiziaria, ha fatto terra bruciata intorno a lui con questi effetti devastanti:
– Amazon ha ritirato il film da tutto il mercato americano (sembra che si sia salvata dal flagello solo Cuba)
– gli attori hanno incredibilmente preso le distanze da lui, promettendo che mai e poi mai avrebbero ancora lavorato per i suoi film.
L’immediato contrattacco di Woody Allen ha permesso al regista di distribuire, almeno in Europa, la sua ultima fatica, per altro immediatamente soggetta al tentativo di boicottaggio organizzato dalle insopportabili talebane del Me too.
Siccome è mia intenzione continuare a occuparmi di cinema, invito chi vuol conoscere meglio questa storia di ordinaria intolleranza, a leggere QUI
Per quanto mi riguarda rivendico il diritto di giudicare un autore solo per le sue opere, che naturalmente pretendo di vedere, perché i prodotti della cultura e dell’arte devono essere diffusi e l’artista dev’essere libero di creare e farsi conoscere. Valeva per Benvenuto Cellini, per Caravaggio; per Solgenitsin e per Shostakovich: ora deve valere per Polanski e per Woody Allen.
Buona visione!
Angela Laugier
Scritto il 22 dicembre 2019 alle 13:36 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "L'ufficiale e la spia" (di Angela Laugier)
Titolo originale: J’accuse
Regia: Roman Polanski
Principali interpreti: Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner, Grégory Gadebois, Hervé Pierre,
Didier Sandre, Wladimir Yordanoff, Mathieu Amalric, Damien Bonnard, Eric Ruf, Melvil Poupaud, Olivier Gourmet – 126 min. – USA 2019
Un quarto di secolo dopo la sconfitta di Sedan (1870), la Francia, costretta a cedere alla potenza tedesca una parte del suo territorio nord-orientale, attraversava un periodo di crisi economica e sociale di vaste proporzioni, nel dilagare delle proteste e della povertà, fra propositi revanscisti, nazionalismo crescente, ricerca di colpevoli…
Il clima era da caccia alle streghe, da nemico alle porte, mentre la coesione del tessuto sociale sembrava disgregarsi.
Tirava un’aria mefitica e irrespirabile per i socialisti, le minoranze, gli ebrei: tutti presto indicati come responsabili della disfatta, in realtà comodi capri espiatori delle tensioni e dello scontento generale. In questo clima torbido ed eversivo di montante antisemitismo, nazionalismo e diffidenza istituzionale era nato L’affaire Dreyfus.
Il film ricostruisce la brutta vicenda di Alfred Dreyfus, l’ufficiale di artiglieria alsaziano di origine ebraica, processato, privato dei gradi e dell’onore militare e, infine, esiliato all’Île du Diable, nella Guyana francese, perché riconosciuto colpevole di alto tradimento, durante un processo-farsa, senza esibizione di prove.
Il romanzo recente (An Officer and a Spy) dello scrittore inglese Robert Harris, aveva fornito il soggetto per la bella sceneggiatura di Polanski e dello stesso romanziere da cui nasce la pellicola, ovvero il racconto di uno degli episodi più scabrosi della storia europea.Il film si apre con il lunghissimo piano sequenza in cui scorrono lentamente i grigi edifici che affacciano sul cortile degli Invalides, presso l’Ecole Militaire di Parigi.
È la gelida mattina del 5 gennaio 1895: tutto era pronto per l’umiliazione pubblica della degradazione di Alfred Dreyfus (Louis Garrel), non lontano dalla scuola in cui aveva studiato. La camera che gli si avvicina ne presenta il volto pallidissimo, mentre ascolta, sull’attenti, le accuse infamanti di aver fornito informazioni delicatissime, attinenti ai segreti militari della repubblica francese, ai nemici tedeschi. La scena ricalca, con impressionante fedeltà, l’ illustrazione di un giornale dell’epoca, offrendoci, al contempo, qualcosa di più e di diverso: lo sguardo dell’innocente, schiacciato dalla mobilitazione imponente degli apparati militari (quel cortile maestoso ne è una bella metafora), è così doloroso e la sua protesta di innocenza è così dignitosa da turbare persino l’ufficiale che aveva eseguito con impeccabile freddezza l’operazione.
Si trattava del maggiore Marie Georges Picquart (un grandissimo e umanissimo Jean Dujardin), che era stato chiamato, subito dopo la “cerimonia”, a dirigere l’Ufficio Statistica dei servizi segreti, all’interno dell’Ecole Militaire, in sostituzione del moribondo ufficiale che ne aveva custodito i documenti. Tutta la prima parte del film procede realisticamente alla ricostruzione dell’ambiente chiuso e maleodorante della palazzina, sede di quell’ufficio, attraversata da corridoi bui e fumosi, frequentata da equivoci informatori, oltre che da ufficiali diffidenti e riluttanti a fornire al nuovo capo chiavi, documenti e notizie necessarie a quasiasi attività di controspionaggio, ciò che non sfugge a Picquart, che sulle informazioni al nemico egli vorrebbe indagare, non essendo cessate neppure con l’allontanamento all’Isola del Diavolo, nella Guyana francese, del povero Dreyfus.
La sua indagine fa presto emergere alcune fondamentali verità:
– non è Dreyfus il vero informatore dei tedeschi, bensì Ferdinand Esterhazy, ufficiale dell’esercito francese, puttaniere e oberato dai debiti
– è crescente l’ostilità dello stato maggiore dell’esercito e del governo in carica nei confronti dell’inchiesta
– è l’onesto Picquart il nuovo nemico, ora: lo si pedina, lo si minaccia velatamente, si organizza una campagna diffamatoria nei suoi confronti, costringendolo, infine, al passo decisivo, all’incontro con la stampa, con alcuni prestigiosi intellettuali fra i quali Emile Zola e con Clémenceau, deputato di opposizione, per rendere pubblico lo scandaloso processo a Dreyfus.
J’accuse è il famoso titolo dell’editoriale di Zola sul quotidiano L’Aurore che diffonde rapidamente a Parigi i nomi e i cognomi di quanti, dai politici, agli uomini dei Servizi Segreti e dello stato maggiore, ai giudici, si erano fatti complici dell’ingiustizia senza perseguire i corrotti e i veri colpevoli di tradimento. La vicenda non si era ancora chiusa: altro dolore attendeva molti innocenti onesti, come Picquart, incarcerato quale complice di una fantomatica internazionale ebraica, o come Pauline (Emmanuelle Seigner), la sua amante, sposata, cui vengono tolti i figli.
Un po’ di luce, però, era penetrata nel buio di quelle stanze e molte delle bugie erano state smascherate…
Non intendo svelare altri sviluppi del film.
Il film è un coinvolgente e appassionante racconto classico di detection che si trasforma in una tesa storia di spie e di complotti, ed è particolarmente affascinante grazie anche alla fotografia bellissima, dal colore leggermente sbiadito e annebbiato, che porta con sé i segni del tempo senza cancellarne la verità, ovvero la sua faccia corrotta e impresentabile: l’oscura dimensione della Belle Epoque.
I registri del racconto sono quelli dell’indignazione, del dolore, dell’ironia che sottolinea i comportamenti ridicoli e contraddittori di un mondo vecchio, incapace di resistere alla mortifera tentazione di chiudersi al mondo, incosciente di trascinare con sé, alla rovina, l’intero paese.
Non solo una raffinata e accurata illustrazione del passato, perciò, ma un invito potentissimo a non dimenticare che le peggiori ingiustizie nascono dall’odio e dal pregiudizio alimentati dal disagio sociale e dall’incertezza del futuro, terreno di elezione per demagoghi e cialtroni di ogni tempo, anche del nostro.
Col gran premio della giuria (Leone d’argento), la Rassegna d’Arte Cinematografica veneziana di settembre ha trovato un compromesso al ribasso per chiudere l’imbarazzante parentesi delle dichiarazioni sciagurate di una presidente di giuria indegna di ricoprire la carica prestigiosa che, incautamente, le era stata affidata. Questo film, tra i più grandi film politici di Polanski, era da Leone d’oro: il pubblico attentissimo, silenzioso e commosso, che ha affollato le sale torinesi in questi giorni, lo ha capito benissimo.
Scritto il 15 dicembre 2019 alle 21:32 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "La belle époque" (di Angela Laugier)
Regia: Nicolas Bedos
Principali interpreti: Daniel Auteuil, Guillaume Canet, Doria Tillier, Fanny Ardant, Pierre Arditi, Denis Podalydès, Michaël Cohen, Jeanne Arènes, Bertrand Poncet, Bruno Raffaelli (II), Lizzie Brocheré, Thomas Scimeca, Christiane Millet – 110 min. – Francia 2019.
È di questi giorni l’uscita di La belle époque, film pregevolissimo del francese Nicolas Bedos, regista al suo secondo lungometraggio: il precedente, Un amore sopra le righe era stato in sala nella primavera dello scorso 2018, ma se n’erano accorti in pochi. Per fortuna il suo DVD è reperibile sul mercato nazionale e, a quanto ne so, Sky lo distribuisce in streaming. Peccato averlo perso su grande schermo.
Si erano conosciuti in un bar di Lione (LA BELLE EPOQUE era il nome esibito sull’ insegna) Marianne (Fanny Ardant), a quei tempi bellissima e seducente nella sua bizzarria e Victor (Daniel Auteuil), amante della bellezza, dell’arte e abile ritrattista. Era stato, per entrambi, attrazione immediata e amore a prima vista.
Aspirante disegnatore, lui, aspirante psicologa lei, si erano trasferiti a Parigi, dove lei si era laureata e dove ciascuno di loro si sarebbe realizzato nel lavoro agognato. Si erano sposati ed era stato un bel matrimonio da cui era nato un figlio, ora affermato professionista.
L’arrivo della grafica computerizzata, seguita dall’affermarsi della riproduzione seriale di disegni anonimi e tutti uguali, nella ricerca di facile sensazionalismo, avevano messo in crisi il povero Victor, artista-artigiano, a cui era passata persino la voglia di disegnare: né aveva provato a reagire sfruttando le opportunità offerte dalle novità tecnologiche.
Marianne, forse per aiutarlo a superare le difficoltà, o forse perché stanca della sua apatia rinunciataria, aveva preso a strapazzarlo, a tradirlo, a umiliarlo, fino a cacciarlo di casa. Sarebbe stato quel loro unico figlio ad aiutarlo, presentandolo all’amico Antoine (l’intelligente e fascinoso Guillaume Canet), che – come dirò limitando all’indispensabile lo spoiler – è, nel corso del film l’originale e involontario deus ex machina che permette a Victor di ritrovare l’autostima neces
l’autostima necessaria per continuare a vivere e a sperare.
Il personaggio di Antoine nella struttura narrativa del film
La storia di un grande amore che si logora non è un argomento nuovo nel cinema (neppure nella vita): difficile perciò renderlo appassionante catturando l’interesse di chi guarda.
Nicolas Bedos, che ha sceneggiato oltre che diretto il film, è riuscito nel miracolo e ha raccontato una vicenda, che è quasi un luogo comune, in modo appassionante, creando il personaggio inconsueto di Antoine, uomo nevrastenico, innamorato molto geloso di Margot (Doria Tillier), ma anche imprenditore col fiuto per gli affari: aveva inventato, con successo, il mestiere un po’ strano, dell’intrattenitore che ripristina, con cura quasi filologica, “eventi” storici, destinati ai ricconi che vorrebbero togliersi lo sfizio di vivere per un giorno, o per qualche ora, nel periodo storico che hanno sempre sognato. Finzione, dunque, imitazione un po’ kitsch del passato: negli Studios di Antoine, transitavano, infatti, attori vestiti da antichi legionari, cavalieri medioevali, colonialisti e schiavi, persino nazisti che avrebbero procurato brividi insoliti ai signori e alle dame sfaccendati che non sapevano come passare il tempo. Storia antica, ma, per un amico, Antoine avrebbe fatto l’eccezione di ricostruire, a prezzi stracciati, la Lione di quarantacinque anni fa (maggio ’74) e di riprodurre sulla scena, il bar (La belle époque) dell’incontro fra Marianne (interpretata da Margot) e Victor.
Tra finzione e realtà, fra illusioni rinnovate e delusioni in agguato, questa esperienza sarebbe servita a ritrovare, catarticamente, la voglia di vivere e a rimettere insieme la coppia di un tempo?
Se vi ho incuriositi, come spero, lo scoprirete vedendo questo francesissimo, delizioso film, scritto molto bene, montato con audace ed ellittica eleganza e recitato da dio. Non è un capolavoro? Non lo so, ma certo è un bel film, presentato, fuori concorso, a Cannes quest’anno.
Angela Laugier
Scritto il 08 dicembre 2019 alle 12:26 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (2)
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Recensione del film "THE IRISHMAN"
Regia: Martin Scorsese
Principali interpreti: Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel, Ray Romano, Bobby Cannavale, Anna Paquin, Stephen Graham, Stephanie Kurtzuba, Jack Huston
– 209 min. – USA 2019.
The Irishman è Frank Sheeran, l’irlandese sicario della mafia che abitava a Filadelfia (magnifico Robert de Niro). All’inizio del film, in una casa di riposo per anziani, racconta la propria vita a un prete cattolico, che raccoglie le confessioni dei ricoverati soprattutto di quelli rimasti soli, senza l’amore di nessuno.
Era stata una vita movimentata quella di Frank: dapprima soldato (fanteria) dell’esercito americano durante la seconda guerra mondiale; sbarcato ad Anzio, egli aveva percorso la nostra penisola dal sud al Nord e aveva anche imparato ad apprezzare la nostra cucina e la nostra lingua: buon viatico per Russ Bufalino (eccezionale interpretazione di Joe Pesci), boss della mafia italo-americana, che aveva casualmente incrociato sulla strada.
Era andata così: il suo camion, che trasportava carne fresca per le macellerie e i ristoranti, si era bloccato all’improvviso. Russ, mai visto prima, si era avvicinato, aveva individuato e riparato il guasto, senza nulla volere in cambio. Ci sarebbero stati molti altri incontri, ma fin dal secondo Russ aveva capito che ne sarebbe nato un indistruttibile sodalizio poiché entrambi erano davvero Goodfellas, bravi ragazzi prestati al crimine, ma buoni e leali reciprocamente. Così come lo era, d’altra parte, Jimmy Hoffa (bravissimo l’ottantenne Al Pacino, al suo primo film con Scorsese), il potentissimo boss del sindacato degli autisti, ottimo oratore e trascinatore di folle: aveva sostenuto l’elezione di Kennedy, ma era successivamente passato a sostenere i repubblicani, dopo il fallimento dell’impresa che avrebbe dovuto “restituire” ai biscazzieri cubani l’isola finita nelle mani di quel comunista di Fidel Castro…
Un terzetto di bravi ragazzi alleati per la vita: Jmmy, inoltre, molto apprezzava la semplicità sincera della piccola Peggy, una delle figlie di Frank, poiché nell’ingenua intelligenza della bimba, riconosceva la genuinità e il candore, che in fondo avevano animato la sua vita di sindacalista idealista, che avrebbe voluto cambiare il mondo.
La storia dei tre uomini, che è storia di mafia e di sangue, era organizzata con una leale divisione dei compiti: gli omicidi erano sempre affidati a Frank (la guerra gli aveva insegnato a uccidere “su commissione“, avrebbe detto al suo confessore), il cui macabro soprannome, l’imbianchino alludeva alle tracce lasciate sui muri dalle vittime che aveva ucciso a bruciapelo, con tecnica infallibile.
È anche storia di processi, di avvocati, di galera che per loro è luogo di incontri, di gare di cucina, di solidarietà, ma anche di minacce e aggressioni, di ferocia e di altri delitti, che si svolge parallelamente alla torbida storia dei misteri americani degli ultimi cinquant’anni, delle loro istituzioni garantiste ma politicamente profondamente colluse, troppo, per scoperchiare il pericolosissimo vaso di Pandora della verità.
Jimmy, ufficialmente, sarebbe misteriosamente scomparso senza lasciare tracce di sé, Russ sarebbe morto di morte naturale e Frank avrebbe portato da solo, alla fine della vita, il fardello terrribile dei suoi crimini, mantenendo per sempre la promessa di silenzio, ma mettendone a parte il ministro di Dio, accompagnato da una speranza di perdono che richiede, anche la presa di coscienza dei lutti provocati, del dolore, del male.Peggy, che aveva capito tutto, non avrebbe più voluto vederlo; ai giovani, che non sapevano nulla, nulla interessava…
Una storia terribile e bellissima, crudele ma tenera e struggente, con grandissimi pregi cinematografici: delle stupefacenti interpretazioni dei tre mitici attori ho detto. Mi dilungherò ancora un poco per parlare di due fondamentali aspetti tecnici del film: quella del ringiovanimento degli attori, ottenuto con una nuovissima tecnica digitale in post produzione, con effetti pienamente convincenti (almeno così mi sono apparsi durante la mia seconda visione del film); quella dell’alternarsi tra passato e presente, seguendo la tecnica della dissolvenza incrociata, come era da attendersi dalla collaborazione di Thelma Schoonmaker, storica addetta al montaggio dei più famosi film di Scorsese, fedelissima interprete del grande maestro, una delle più grandi montatrici della storia del cinema.
Cercate di vedere questo grande capolavoro, senza spaventarvi per la sua durata. Vi ripagherà largamente del piccolo sacrificio. Lo troverete ancora in molti cinema e, dal 27 di questo mese, su Netflix, doppiato nella nostra lingua. Consiglio come sempre la versione originale.
Angela Laugier
Scritto il 24 novembre 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "PARASITE" - (di Angela Laugier)
Regia: Bong Joon-ho
Principali interpreti: Song Kang-ho, Sun-kyun Lee, Yeo-jeong Jo, Choi Woo-Sik, Park So-dam, Hyae Jin Chang – 132′ . Corea del sud, 2019.
Bong Joon-ho è tornato a girare nel Sud della Corea e ha presentato questo amarissimo film a Cannes, dove ha vinto la Palma d’oro nel maggio di quest’anno.
Quest’ultimo suo lavoro ha fatto molto discutere e ha diviso critica e pubblico, come sempre accade quando l’invenzione cinematografica propone situazioni e immagini che ci disturbano e ci angosciano, come in questo caso in cui anche a noi occidentali il regista indirizza l’invito a rispondere con urgenza alle angosce degli altri abitanti del pianeta per i quali costumi e tradizioni da secoli consolidati sono stati spazzati via nel giro di pochissimi anni dal rapidissimo affermarsi del libero mercato e della tecnologia.
I comportamenti umani sembrano ovunque dominati dalla perversa convinzione reazionaria, diventata purtroppo anche comune sentire, che il mondo dell’ingiustizia e del degrado in cui viviamo non sia che la conseguenza inevitabile della condizione “naturale” dell’umanità e che, perciò questo mondo ingiusto sia anche l’unico possibile.
Questo si pensa anche all’interno delle due famiglie protagoniste del film: quella dei Kim che vivono a Seul nella più nera miseria e quella dei Park, i più ricchi della città, che emblematicamente rappresentano la tragi-commedia universale dei nostri giorni: null’altro li accomuna se non la fede condivisa nel denaro e nel capitalismo che, permettendone l’accumulo, rende più facile la vita e più semplice la risoluzione di ogni problema.
I Kim e i Park - I primi vivono nella zona più degradata della della capitale sud-coreana, in fondo a una strada in discesa, sbarrata dalla loro casa, che abitano in quattro. Il poco denaro che riescono a guadagnare, piegando il cartone per il trasporto delle pizze, non basta a saldare completamente i loro debiti, ma serve a mala pena per non morire di fame. Di lì, nessuno di loro esce volentieri: gli altri non devono conoscere la loro povertà vergognosa, socialmente interdetta. Dall’isolamento li salva lo smartphone, uno a testa per tenersi aggiornati sulle cose del mondo. È ben vero che non sempre è facile connettersi, soprattutto se le bollette telefoniche non si sono pagate… in questo caso non resta che affollarsi attorno al W.C., dove il segnale arriva.
La casa riceve un po’ di luce da una finestrella in alto, che dà sulla strada; troppo spesso, però, nelle vicinanze, qualcuno in cerca di privacy se ne arriva per far pipì, ciò che rende oltremodo sgradevole quell’abitare, simile al vivere oscuro degli insetti parassiti che sbucano da ogni lato e manifestano, con la loro presenza, il degrado dell’intera famiglia dei Kim, che si affannano, con qualche successo a cancellarne le tracce.
Della loro condizione, però, tutti loro si portano addosso un segno che non si può nascondere: l’odore, schifoso e insopportabile, almeno a sentire le parole dei ricchissimi Park, nella cui dimora lussuosa, per effetto di una quasi miracolosa raccomandazione, era stato dapprima accolto, come ripetitore di lingua inglese, il figlio, seguito quasi subito dalla sorella, che, sotto le mentite spoglie di una conoscenza lontana, si sarebbe dedicata ai disegni del piccolo di casa; qualche tempo dopo entrambi i genitori, senza tradire alcuna parentela, li avrebbero seguiti.
Il profondo mutare della loro vita, le ricchezze che cominciavano ad affluire nelle loro tasche, la convinzione di trovarsi ormai fuori dalla deriva sociale, a cui sembravano destinati, non erano stati però sufficienti a cancellare quell’odore di miseria che li rendeva diversi dai loro padroni riconoscibili alla finezza dell’olfatto di Mister Park che l’aveva definito schifoso, ma sensualissimo ed eccitante…I Park ora non avrebbero potuto fare a meno di loro, ognuno dei quali, in modo diverso, era diventato indispensabile all’organizzazione perfetta della casa e della famiglia: la madre era l’insostituibile addetta alla gestione della casa, mentre il padre era l’autista di fiducia, sempre disponibile. Il loro ingresso nella bellissima casa di vetro dei padroni era stato sottilmente intelligente e non violento: senza rivendicazioni, senza sindacati, senza rabbia e, soprattutto – importantissimo per gli ultra liberisti coniugi Park – senza stato, burocrazia, carta bollata e scuola: per questo la coppia si era affidata volentieri ai nuovi arrivati, alla superficiali conoscenze dei due ragazzi, all’iniziativa della madre, alla finta devozione del padre: lui e lei ben lieti che nessuno chiedesse di essere assunto secondo le procedure regolari che gli stati, di solito, prevedono a garanzia di tutti.
Sarebbe arrivata per tutti, però, ricchi e poveri, il momento della verità, la dolorosa resa dei conti e della riflessione inevitabile sui parassiti e sui parassitati…
Qui mi fermo senza altro rivelare per non togliere a chi lo vedrà (spero che saranno molti) il piacere della sorpresa, poiché le svolte del film, costruite con intelligenza tagliente e surreale, quasi bunueliana, accompagnano la visione, con l’esattezza di un teorema, fino allo spiazzante e tragi-comico finale.
Mi è parso che il regista, con questo film, di fronte alla rapidità con cui il modello egemonico del capitalismo occidentale si è diffuso nell’intero pianeta stravolgendo antichi valori umani e azzerando le culture solidaristiche, senza che qualche voce si levasse per mitigarne almeno la disumanità, inviti noi tutti a ripensare al futuro impegnando le nostre energie e la comune razionalità alla ricerca di vie d’uscita, abbandonando le illusioni ottimistiche circa una presunta naturale bontà dell’uomo, che qualcuno avrebbe stoltamente deviato, ma anche senza rimpiangere i vecchi tempi ormai improponibili.
Bong Joon-ho ci ha detto, dunque, con questa sua ultima fatica, che è ora di reagire, prima che la tragedia, non solo ambientale, ci travolga definitivamente, senza scampo per nessuno.
Angela Laugier
Scritto il 19 novembre 2019 alle 21:31 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Joker" (di Angela Laugier)
Regia: Todd Phillips
Principali interpreti: Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beetz, Frances Conroy, Marc Maron
– 122 min. – USA 2019
Todd Phillips era, fino a poco tempo fa, un regista noto soprattutto al pubblico televisivo e anche cinematografico dei più giovani, nonostante qualche piccola incursione nel documentario per adulti, come Hated: GG Allin and the Murder Junkies (1993), non uscito in Italia, ma ora proiettato in qualche raro cineclub per far conoscere un po’ dei trascorsi cinematografici di chi aveva ricevuto da poco il prestigioso Leone d’oro veneziano.
Questo Joker sembra infatti nascere da una sfida tutta interna al mondo dell’intrattenimento televisivo e cinematografico: è possibile conciliare il mondo scanzonato ed eversivo dei ragazzi, per loro natura aperti alle ipotesi del più radicale cambiamento dell’ordine sociale, con quello serio (e anche un po’ dileggiato) degli adulti colti e schizzinosi che da quel mondo preferiscono tenersi lontani?
1981 – South Bronx ovvero Gotham City - Il film ha la sua collocazione nel South Bronx newyorkese, che viene identificato con Gotham City, la città immaginaria dell’universo dell’immondizia in cui sono ambientati i fumetti delle edizioni DC Comics, che illustrano le avventure dell’eroe “buono” Batman, del quale il perfido Joker è l’antagonista.
Ogni sera rientra a Gotham, dopo le fatiche della giornata, Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) uomo disturbato nella mente che vive con la madre Penny (Frances Conroy) nel South Bronx newyorkese. È povero, depresso cronico e cupo, ma convive dignitosamente con i suoi gravissimi problemi fino a quando, nel 1981, Ronald Reagan, diventato presidente degli Stati Uniti, per mantenere la demagogica promessa elettorale di abbassare le tasse, decide di tagliare le spese sociali, azzerando i servizi socio-sanitari indispensabili a lui, ossessivamente assediato da fantasmi e manie, a cui verranno negati i farmaci gratuiti nonché la consulenza psicologica.
Il suo ruolo sociale un tempo era rispettato: vestiva da pagliaccio (era lui Joker) per divertire i bambini malati all’ospedale; ne usciva con la sua maschera e con quel vistoso costume portando in giro cartelloni pubblicitari, in attesa che arrivasse il suo momento, quello in cui avrebbe fatto il comico per davvero, in televisione come Murray Franklin (Robert de Niro) e tutti lo avrebbero riconosciuto e amato…Il suo sogno purtroppo, si saebbe scontrato presto con la disumanità che stava soffocando l’America di quegli anni: una generale Gotham City immersa ovunque dall’immondizia fangosa della crudeltà contro i più deboli, a cui non sarebbe rimasta che la ribellione anarcoide e irrazionale, facile pretesto per la repressione poliziesca in piena sintonia con la deriva reazionaria delle classi dirigenti.
Le dichiarazioni di Phoenix - Joaquin Phoenix ha dichiarato in numerose interviste, che si trovano facilmente sul Web, che mai si era sottoposto a una simile fatica, non solo fisica, ma culturale e intellettuale, per l’interpretazione di un film, essendo stata addirittura maniacale la cura con cui, insieme al regista, aveva impostato il proprio ruolo, la propria gestualità, il proprio comportamento. Allo stesso modo il film nel suo complesso era stato studiato nei particolari più minuti, con l’attenzione meticolosa di chi non intende lasciare proprio nulla al caso e all’improvvisazione.
Che dire? personalmente, al di là della ammirazione che non da oggi suscitano in me le interpretazioni di questo grande attore, il film, sicuramente urtante e disturbante, non mi ha suscitato gran commozione. Mi è sembrato al contrario un’operazione astutissima del regista che ha utilizzato le suggestioni di molti vecchi film per strizzar l’occhio agli spettatori in cerca d’autore di cui è chiarissimo indizio la presenza di Robert de Niro, nel ruolo del comico anchorman televisivo che ricalca quello di Jerry Lewis nel film Re per una notte che il grande Martin Scorsese aveva cominciato a girare proprio nel 1981 (guarda caso!) nel quale un giovane De Niro, nei panni di Rupert Pupkin ossessivamente convinto delle proprie straordinarie qualità comiche, aveva organizzato il rapimento del presentatore per sostituirsi a lui, fra le risate di un pubblico di facile contentatura (Re per una notte è la citazione più vistosa, quasi la falsariga su cui è costruito il film).
Il regista, però, non ha dimenticato neppure i giovanissimi nei confronti dei quali esprime, con lo splendore della colorata e caotica rappresentazione della loro violenza con la maschera di Joker, una solidarietà sospetta, quasi assecondandone la volontà distruttiva, in vista di una palingenesi senza progetto che non può che alimentare la deriva reazionaria di cui Donald Trump (come già Ronald Reagan) sembra essere il più accreditato garante. Col pubblico giovane, inoltre, il dialogo è intessuto di episodi che hanno il solo scopo di spiegare agli adolescenti la dipendenza edipica di Arthur, esemplificandola in una quantità di segmenti narrativi che appesantiscono la visione del film, dilatandone anche troppo la durata.
Per quanto mi riguarda, perciò, il regista ha vinto la sua sfida ambiziosa solo in parte: mille polemiche hanno accompagnato la premiazione veneziana, probabile frutto di un compromesso ingiusto per non scontentare una presidente di giuria che con le sue inqualificabili dichiarazioni aveva pregiudizialmente posto il proprio veto sull’ultimo film di Roman Polanski.
Questo spiega perché molti di noi (mi ci metto anch’io) amanti del grande cinema, e perciò di Polanski, hanno visto con riluttante diffidenza quest’opera, “ladra” di un onore, abusivamente conquistato.
Vero è, però, che un giudizio critico dovrebbe nascere da un’analisi il meno possibile emotiva, ma siamo umani e ci liberiamo con difficoltà dalle passioni che ci portiamo in cuore e che accompagnano la nostra vita.
Da vedere, in ogni caso.
Angela Laugier
Scritto il 12 novembre 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Grazie a Dio" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Grâce à dieu
Regia: François Ozon
Principali interpreti: Melvil Poupaud, Denis Ménochet, Swann Arlaud, Éric Caravaca, Francois Marthouret, Bernard Verley, Martine Erhel, Josiane Balasko, François Chattot – 137 min. – Francia 2019.
Il grande scandalo della pedofilia nelle organizzazioni della chiesa cattolica e fra i suoi ministri non è nuovo nel cinema, né è estraneo al mio blog: Il caso Spotlight (che ricostruiva l’inchiesta difficile condotta sull’argomento fra mille ostacoli da un gruppo di giornalisti coraggiosi del Boston Globe) nel 2014 riceveva l’Oscar come miglior film; in quello stesso anno, era uscito Il Club, magnifico film di Pablo Larrain, che con diverso approccio raccontava la stessa realtà, nell’ambito geografico del Cile.
Il film di Ozon affronta ora in altro modo il triste argomento: il contesto è quello della Francia cattolica della diocesi di Lione agli inizi degli anni ’90; la storia è quella reale di uomini che, oggi, ormai adulti, vorrebbero impedire a padre Bernard Preynat, il parroco vizioso che con le sue laide insidie aveva turbato profondamente non solo la loro infanzia, ma la loro stessa vita, di continuare a fare violenza ai piccoli che gli erano stati nuovamente affidati, come se nulla fosse successo. La Chiesa, dopo averlo allontanato e destinato ad altri compiti, aveva creduto al suo ravvedimento e gli aveva concesso il perdono, mentre il cardinale di Lione Philippe Barbarin che molto si era adoperato per evitare lo scandalo pubblico, auspicava un’ipocrita “assoluzione” buonistica, che insabbiasse il dolore ed evitasse qualsiasi ricorso alla giustizia civile, del resto inutile, visto l’approssimarsi della scadenza dei termini legali per presentare denuncia.
L’aspetto più interessante del film è nella volontà tormentosa di ricostruzione del proprio vissuto, impossibile da rimuovere, da parte dei protagonisti della storia. Essi sono principalmente Alexandre (splendido Melvil Poupaud nei panni di un cattolico, padre di famiglia, che vorrebbe una chiesa più coraggiosa e trasparente); François (grande Dénis Menochet, nella parte di chi ha perso la fede e ora si batte con Alexander, con l’intento, diverso, di nuocere all’istituzione, non riformabile, nonostante le speranze e i progetti di molti cattolici generosi sognatori e inguaribili utopisti) e infine il fragile Emmanuel (sensibilissimo Swann Arlaud, efficace interprete dell’incerto e tormentato personaggio che aveva subito le ferite, non solo fisiche, più devastanti e dolorose, ansioso di dimenticare).
Nel 2014, coll’intento di raccogliere il maggior numero possibile di testimonianze degli abusati, Alexandre aveva fondato un’associazione virtuale: La parola liberata, che garantiva l’anonimato e la liberazione dalle angosce individuali attraverso il racconto e la scrittura, ma solo nel 2016, con la denuncia aperta alla libera stampa e alle reti televisive nazionali fu possibile dar voce ampia alla denuncia: l’affaire Barbarin aveva ora la risonanza nazionale e internazionale dovuta, cosicché, finalmente, si vedeva il papa impegnato ad affrontare lo scandalo con la giusta energia.
Il film, gran premio della giuria (Orso d’argento) al Festival di Berlino quest’anno, è delicato e pudico nel racconto di un dolore difficilmente risarcibile, ed è tuttavia fermissimo nella denuncia veritiera, che nel dipingere l’orrore di quei fatti, ha ben presente la necessità di evitare ulteriori ferite ai deboli, che come sempre in questi casi, difficilmente riescono a vincere i profondi sensi di colpa che li sconvolgono. Lo sanno bene le donne, che, da sempre oggetto di abusi e violenze, molto spesso rinunciano persino a parlarne. Ce lo ricordano, in una scena indimenticabile, le lacrime di Marie, la moglie di Alexandre, che solo con il fragilissimo Emmannuel, il più debole di tutti, trova il coraggio della sincerità: era solo una bambina, quando un vicino di casa l’aveva stuprata. E non era un prete…
È, come si sarà capito, un film da vedere.
Angela Laugier
Scritto il 08 novembre 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "LA VITA INVISIBILE DI EURIDICE GUSMAO" (di Angela Laugier)
Titolo originale: A Vida Invisível
Regia: Karim Aïnouz
Principali interpreti: Carol Duarte, Júlia Stockler, Gregório Duvivier, Barbara Santos, Fernanda Montenegro, Flavia Gusmao.
– 139′ – Brasile 2019
La vicenda di questo originale e potentissimo mélo, è novecentesca (tra gli anni ’50 e ’60) e arriva, nell’ultima parte, ai nostri giorni. Ha lo sfondo suggestivo dello skyline di Rio de Janeiro, dominata dalla statua del Cristo Redentore, testimone in ogni tempo dell’identità religiosa dei suoi abitanti. Fra le colline alle spalle della città, povera e degradata, in cui si aggirava un’umanità miserrima, che si arrabattava fra illegalità e vizio pur di guadagnarsi la giornata, sorgevano le case e le ville delle persone “per bene”, la piccola e media borghesia cittadina, quella che aspirava a salire ai massimi livelli della gerarchia sociale e che disdegnava di mescolarsi con la “bassa gente” della metropoli. Lì si era fatta una casa anche la famiglia di Manoel (Antonio Fonseca), fornaio di recente immigrazione dal Portogallo, conservatore e autoritario. Viveva con la moglie anche troppo arrendevole e con le due figlie, diversissime nel carattere e nelle aspirazioni, spesso in lite, legate però dalla complicità molto speciale di tutte le sorelle.
La più grande, Guida (Julia Stockler), si sentiva soffocare in quella famiglia chiusa, era innamorata di un marinaio che incontrava di nascosto; la più giovane, Euridice (Carol Duarte), adorava la musica classica ed era appassionata pianista, col sogno di realizzarsi come concertista a Vienna. La famiglia la assecondava volentieri: una brava pianista e qualche bel pezzo suonato nella propria abitazione era un bel modo per avvicinare la società più influente; l’occasione per invitare persone anche solo di poco più ricche e più conosciute, adatte magari per sistemare Guida, ora in età da marito. Si sperava che un buon matrimonio l’avrebbe aiutata a mettere la testa a posto e a lasciare da parte insofferenze e ribellioni da adolescente.
Era invece accaduto che l’amore per il bel marinaio, infedele e bugiardo (come si conviene ai luoghi comuni), l’avesse aiutata a fare il passo decisivo della sua vita: era uscita da quella casa opprimente ed era stata costretta a trovare la propria strada, che non sempre a quei tempi (e per una donna) era piena di fiori: più facilmente era insidiosa e pericolosa.
Con la copertura riluttante di Euridice, dunque, Guida si era allontanata una sera dalla dimora paterna per un appuntamento furtivo, senza far ritorno all’ora convenuta con lei, che invano l’aveva attesa tutta la notte e che infine aveva compreso e ora la cercava, senza trovarla, un po’ consolandosi al pensiero che avesse appagato felicemente la sua ansia d’amore.
Guida, invece, era tornata a Rio e, con un bel pancione da donna incinta, si era presentata alla famiglia, ansiosa di essere accolta! Era sola e aveva ammesso l’errore e l’abbandono dell’uomo in cui aveva creduto. Cacciata e trattata da puttana, aveva dovuto arrangiarsi per sopravvivere con la creaturina appena partorita e si era messa, infine, alla ricerca della sorella, che – le sembrava di avvertire – non l’aveva dimenticata.
Euridice se ne era andata, ma l’aveva fatto come si conviene a una ragazza per bene: aveva sposato un uomo appena un po’ più ricco di suo padre, un commerciante di farine prepotente e volgare, che non amava affatto, ma che, almeno a parole, aveva rispettato il suo amore per la musica. Anche lei, ora, cercava inutilmente notizie della sorella: Guida era stata cancellata dai genitori che infine l’avevano data per morta. Nessuna delle due, purtroppo, conosceva la verità di dolore che il destino aveva riservato all’altra. Non erano lontane e continuamente si sfioravano, ma senza riconoscersi: Guida immaginava Euridice ricca e felice concertista a Vienna, dove aveva in animo di recarsi per incontrarla. Le scriveva ogni giorno una lettera, che però, intercettata da quel padre spietato, non partiva e perciò rimaneva senza risposta.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo.
(Montale, Occasioni, Mottetti I, 9-13)
Vienna era lontana: il matrimonio e la prima gravidanza avevano intrappolato Euridice in un inferno senza uscita: la musica era ancora il suo sogno, ma una seconda gravidanza, del tutto indesiderata, l’aveva inchiodata definitivamente a quel ruolo di moglie e di madre, dal quale le non le sarebbe più stato possibile tirarsi fuori, cosicché, grazie alla solerte partecipazione di un medico, amico di quel marito, la povera Euridice, frastornata e vecchia, irriconoscibile (ora è Fernanda Montenegro l’attrice che splendidamente interpreta la sua triste vecchiaia) viveva nel Brasile di oggi sotto la speciale sorveglianza di un’attentissima equipe che la imbottiva di tranquillanti, in una lussuosa clinica privata, adeguata alla sua elevata condizione sociale…Ancora però, piangeva la sorella perduta e affannosamente cercava qualche sua traccia
………………………… di nuovo il Fato crudele
mi chiama indietro, ed il sonno sommerge i miei occhi.
Addio; ormai m’ingoia una profonda notte
e tendo a te le mie mani invano, ahimè…
(Virgilio, Georgiche, IV, 489-492, trad. C. Saggio)
Non dirò altro su questo film bello e molto toccante, di considerevole complessità, capace, nonostante la lunghezza, di catilizzare l’attenzione degli spettatori che dai primi di settembre continuano ad affluire numerosi nelle sale che lo proiettano: si avvale, d’altra parte di un cast ottimo, in cui le attrici sono di inarrivabile e versatile bravura. È un film melodrammatico, ma è anche un originale film politico che ci parla dell’immobilità del Brasile dei nostri giorni, tornato all’inferno delle fiamme oscurantiste che un regime ottuso alimenta e purtroppo non solo metaforicamente.
Il film, secondo me, ripropone, con questi nuovi significati, il mito senza tempo del legame speciale di Euridice con la musica, a cui si riferiscono i versi di Virgilio che ho citato, autorizzata anche dall’origine greca di quel marito, Antenor, che porta il nome di un mitologico traditore. Opera altamente suggestiva, premio Un Certain Regard 2019 a Cannes, accolto con favore (e qualche malumore, inevitabilmente) anche dalla critica .
Da vedere.
Angela Laugier
Scritto il 05 novembre 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "C’ERA UNA VOLTA… A HOLLYWOOD" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Once Upon a Time in Hollywood
REGIA: Quentin Tarantino
Principali interpreti: Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Margaret Qualley, Bruce Dern – 161 min. – USA 2019.
Un anniversario (1969 – 2019) - Al suo nono film, Tarantino ricostruisce il 1969 di Hollywood, anno terribile per il cinema dopo le stragi* che ad agosto segnarono col sangue degli innocenti le sue strade, mentre tardivamente maturava la coscienza collettiva del tramonto di un’epoca.
Il vecchio cinema era finito, travolto e soppiantato dal trionfo della serialità del racconto televisivo gradito alla più vasta platea dei piccoli e medi borghesi che alla sera si chiudevano in casa per seguire le avventure dei loro personaggi preferiti. Nel semplicismo manicheo di un pubblico che non si poneva troppi problemi era il segreto del successo degli attori, che in questo modo, però, rimanevano per sempre legati al loro ruolo di buoni o di cattivi, senza alcuna speranza di mostrare in altro modo la loro ricca professionalità.
Un padrone, un servo e altre ingiustizie - All’inizio del film (e del 1969) il produttore Marvin Shwarz (l’eccellente e ironico Al Pacino) aveva spiegato a Rick Dalton, attore televisivo (un attonito e affranto Leonardo di Caprio) perché avrebbe dovuto mettersi il cuore in pace continuando per sempre a essere il cattivo, o, in alternativa, andarsene da Hollywood e girare a Roma, con Sergio Corbucci, uno o più film di non eccelsa qualità, ma di sicuro successo (i cosiddetti Spaghetti Western) rilanciandosi come grande attore. Questo, infatti, Rick avreva fatto: insieme a Cliff (interpretato da Brad Pitt, questa volta davvero grande nel suo saggio e affettuoso disincanto), la sua inseparabile controfigura, aveva preso l’aereo per Roma da cui sarebbe rientrato ad agosto con una immagine rinnovata di sé, tanti soldi e Francesca, (Lorenza Izzo), la moglie italiana…
Cliff è un personaggio singolare: si era lasciato alle spalle un passato oscuro e ancora molto chiacchierato, ma il suo “padrone” Rick lo aveva difeso in ogni occasione. Come uno strano Sancho Panza, egli seguiva Rick ovunque, non solo sul set: era il suo factotum durante la giornata, poi, la sera, tornava alla propria casa dove una fedelissima cagnolona lo attendeva sul divano per il rito del cibo (la scena ferocemente sarcastica verrà ribadita, con altro significato, nella drammatica ultima parte del film).
La società che si muoveva intorno ai divi e alle lore abitazioni era connotata da profonde differenze sociali a cui nessuno, in apparenza, faceva caso.
Sulla collina boscosa di Cielo Drive erano sorti alcuni villini di lusso, che, ben celati alla vista, garantivano tranquillità e privacy ai famosi attori e registi che li abitavano: fra questi Rick, che viveva da solo e che aveva scoperto, fra i suoi vicini, nientemeno che Roman Polanski, da poco sposo felice della giovane e bellissima Sharon Tate (magnifica e struggente l’interpretazione di Margot Robbie).
A poche miglia, verso la pianura, nella zona della vecchia Hollywood, le costruzioni in disuso, le roulottes e i carri in legno dei vecchi Western erano utilizzati da homeless, come l’ex attore anziano George Spahn (Bruce Dern, che drammaticamente fingeva il sonno per non vedere la realtà) o da comunità di sedicenti hippy – come quella che faceva capo all’esaltato Charlie Manson – in cui convivevano promiscuamente vagabondi consumatori e spacciatori di spinelli all’LSD, ladruncoli e giovani sbandati, nonché molte donne, anche giovanissime, che si prostituivano e spennavano i malcapitati clienti.
Quel mondo marginale, apparentemente non comunicante con quello della collina era emblematico del declino dell’industria del vecchio cinema che, perdendo anche la memoria delle proprie glorie leggendarie, ne mostrava il carattere fittizio, sfondo mobile di un set sul quale andava in scena, ora, il disagio del vivere nei ruoli imposti senza rimedio possibile dalla povertà e dal degrado, ma anche dall’insofferenza ribellistica dei più giovani e delle ragazze che detestavano i valori convenzionali della famiglia.
Tarantino ci racconta la loro disperazione violenta, cui intreccia ellitticamente quella tragicomica della strana coppia del servo e del padrone, così come racconta con amabile empatia Sharon, in giro per la città mentre cerca i regali per Roman, o mentre scopre di essere diventata famosa grazie a un film quasi pornografico, di cui vede le locandine presso un cinema. Mescola realtà e invenzione, utilizzando, come sempre, la citazione e l’autocitazione in un gioco di rimandi e di specchi che diventano il materiale stesso del suo film**, fino all’inversione della realtà storica dell’ultima parte, ben preparata dalla precedente tipizzazione dei personaggi che per caso sono coinvolti in maggiore o minore misura dall’ottusa bestialità della tragedia.
la tragedia della notte più calda dell’anno, secondo Tarantino - È difficile pensare a Sharon Tate senza ricordare la tragedia che l’aveva stroncata a due settimane dal parto, col nascituro che portava in sé, mentre trepidante e fiduciosa sognava il suo futuro di madre e d’attrice, col pensiero costantemente rivolto al suo Roman, da qualche tempo a Londra per lavoro: anche per lui, sarebbe stata la fine di un sogno.
Tarantino ha mostrato, con la commossa ricostruzione dei suoi ultimi mesi, una tenerezza molto insolita nei suoi film, ma anche una grande pietà umana che mai diventa mélo, grazie all’ironia sempre molto presente anche nei momenti più difficili, anche nel momento della ferocia più insensata. Questo finale mi pare consacrarlo davvero come un grandissimo regista che sa parlare alle emozioni più profonde degli spettatori, anche capovolgendo la realtà storica, cosa possibile solo alla magia del cinema e dell’arte, che, come le nostre anime, è …della stessa materia di cui sono fatti i sogni…
Non per nulla le citazioni da Shakespeare sono indirettamente o direttamente presenti in tutto il film… Di questo, chi, come me, ha molto amato questa sua opera, non può che ringraziarlo
Ai lettori - Poiché amate il cinema, cari lettori che mi avete seguita fin qui, non fatevi prendere dallo sconforto per le quasi tre ore di quest’opera e non abbandonate la sala non appena compaiono i titoli di coda: Tarantino, forse per premiarvi, vi ha preparato un ulteriore, piccolo regalo!
Promettete, anzi, di non linciarmi se vi invito a rivedere questo film, così malinconico e amabile, nella sua versione in lingua originale, soprattutto se la vostra prima volta è stata nella versione italiana. Lo apprezzerete maggiormente, perché lo slang tipicamente californiano rivela la sua perfetta aderenza al racconto: ne è parte organica, come la bella colonna sonora; non si appiattisce nella trasposizione in un’altra lingua, perdendo il suo colore….Absit iniuria verbis: i nostri doppiatori hanno fatto miracoli, ma non IL MIRACOLO
_________
* Su questo episodio, uno dei più efferati e oscuri della storia americana del secolo scorso, ho trovato una interessante ricostruzione QUI
** Un bravissimo cinefilo ha riportato in un documentato articolo che trovate QUI il frutto della sua ricerca sulle più importanti citazioni del film. Vi invito a leggerlo perché ritengo sia indispensabile per capire la complessità del lavoro culturale di Tarantino.
Angela Laugier
Scritto il 03 novembre 2019 alle 15:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "MARTIN EDEN (di Angela Laugier)
Regia: Pietro Marcello
Principali interpreti: Luca Marinelli, Jessica Cressy, Vincenzo Nemolato, Marco Leonardi, Denise Sardisco, Carmen Pommella, Autilia Ranieri, Elisabetta Valgoi, Pietro Ragusa, Savino Paparella, Vincenza Modica, Carlo Cecchi – 129 min. – Italia 2019
È stato un piacere ritrovare al cinema Pietro Marcello, singolare e originale regista italiano, ora al terzo lungometraggio distribuito nelle sale, dopo i due bellissimi racconti-documentari, apprezzati e presentati sulle pagine di questo blog alla loro uscita: La bocca del lupo (2010) e Bella e perduta (2015).
Questa volta, senza tradire il proprio inconfondibile modo di girare, il regista si è cimentato con la fiction, raccontando la storia di Martin Eden*, liberamente traendola dal bel romanzo di Jack London, alle cui pagine, in parte autobiografiche, mi riportano i miei ricordi di ragazzina amante della lettura: pagine, allora, a me molto care (e, ora temo, poco capite).
Il grande scrittore aveva descritto l’ascesa sociale del giovane Martin, il “selvaggio” marinaio, che, infiammato d’amore per la bella e raffinata Ruth, studentessa alto-borghese dei quartieri prestigiosi di San Francisco, aveva individuato nella cultura e nella conoscenza dell’arte e della poesia la strada da percorrere per diventare degno di lei, uscendo dalla povertà e dall’irrilevanza sociale, costringendosi a riprendere gli studi, fra sacrifici e umiliazioni di ogni genere.
La vicenda del selvaggio marinaio di San Francisco viene ripresa quasi alla lettera, ma spostata a Napoli, dove Martin Eden è un bellissimo marinaio che ha il volto e il corpo di Luca Marinelli (Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, assegnata a Venezia pochi giorni fa).
Martin era cresciuto nei vicoli straccioni e sordidi del capoluogo, aveva interrotto gli studi e si era irrobustito imparando a lottare contro i feroci monelli di strada che lo prendevano di mira. Aveva incontrato casualmente la bella Elena Orsini (Jessica Cressy), dopo aver sottratto il fratello Arturo (Giustiniano Alpi) alle botte di un gruppo di feroci teppisti che lo stavano massacrando…La storia, mutati i nomi, è la stessa del romanzo, poiché
Pietro Marcello si è limitato a trasportarla a Napoli, in un periodo imprecisato del secolo breve, collocabile, comunque fra la fine degli anni ’30, alla vigilia della guerra e l’inizio degli anni ’60 (forse prima del boom economico). Ha utilizzato fotografie e spezzoni di documentari e anche di film, per delinearne in modo spezzato la dimensione storica; infine, ha fissato su pellicola da 16 mm. il singolare mosaico, in coerenza con il suo cinema precedente, sempre a basso budget e molto personale.
A spiegare le origini del progetto è lo stesso regista in occasione della partecipazione, in concorso, al Festival di Venezia 2019 quando, intervistato in merito alla scelta di quel testo, apparentemente lontano dai nostri giorni e dalla nostra sensibilità, ha precisato che al di là delle vicende personali di Martin e del drammatico scacco esistenziale che lo avrebbe indotto al suicidio, il romanzo si rivela, se attentamente meditato, quasi profetico delle inquietudini e degli errori che hanno attraversato la storia del ‘900 fra le due guerre, in Europa e nel nostro paese
Le variazioni non piccole che il regista ha apportato nei confronti del romanzo non ne hanno perciò tradito lo spirito (benché, a mio avviso, quell’antico racconto di formazione, riletto con gli occhi di oggi, riveli, oltre ai suoi anni, la sua profonda “americanità”). Si direbbe, anzi, che il film gli restituisca un’imprevista vitalità, grazie ad alcuni arditi accostamenti che forse ne costituiscono la parte più discutibile. Mi riferisco alla seconda parte del film, quella relativa alla nascita della coscienza sindacale del protagonista affascinato dapprima dal socialismo, poi dal darwinismo sociale spenceriano, coerentemente col suo individualismo.
Gli scritti di Spencer, in realtà, ebbero nel corso dell”800 un’importanza enorme, quasi determinante per la nascita della sociologia sociale e per le teorizzazioni del socialismo, ma in Italia (e nella Napoli hegeliana e successivamente neo-hegeliana in modo particolare) erano rimasti per lo più sconosciuti, anche in pieno periodo positivistico**.
Se, come ha dichiarato il regista, lo aveva colpito “la capacità di Jack London di vedere come in uno specchio le fosche tinte del futuro, le perversioni e i tormenti del Novecento”, forse avrebbe potuto e dovuto pescare in altre acque, quelle dell’anarco-sindacalismo soreliano, per esempio, o del sindacalismo rivoluzionario in Italia e delle sue ambiguità.***
Il film, comunque, al di là di questi rilievi, che non intendono sminuirne la bellezza, è tra i migliori visti in Italia in questi ultimi anni, ricco com’è di immagini poetiche belle e suggestive, di citazioni e autocitazioni, di passione registica e interpretativa.
Da vedere.
* era uscito in Italia per la prima volta nel 1925, ma l’edizione americana risaliva al 1909
** Si veda, a questo proposito, QUI
*** Qui troverete un interessante scritto di Marco Masulli:
« Il rapporto tra il sindacalismo rivoluzionario e le origini del fascismo: appunti di lavoro », Diacronie [Online], N° 17, 1 | 2014, documento 8, Messo online il 01 mars 2014, consultato il 13 septembre 2019.
Angela Laugier
Scritto il 02 novembre 2019 alle 10:47 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "DUE AMICI"(di Angela Laugier)
Titolo originale: Les deux amis
Regia: Louis Garrel
Principali interpreti: Golshifteh Farahani, Louis Garrel, Vincent Macaigne – 100 min. – Francia 2015.
lo scorso aprile, presentando L’uomo fedele, avevo scritto che il regista era al suo secondo lungometraggio. Ora, dopo quattro anni, i coraggiosi distributori di Movies Inspired ci permettono di vedere anche questa sua pregevole opera prima, davvero un bell’esordio di Louis Garrel come regista.
Rispetto al secondo film, questo primo maggiormente si ispira ai temi della fenomenologia d’amore, cara da secoli alla cultura francese, rinverdita dai grandi registi della nouvelle vague e dal cinema di Philip Garrel, il padre di Louis.
In modo particolare Les deux amis ha un riferimento teatrale dichiarato: la pièce del poeta romantico Alfred de Musset, dal titolo: Les caprices de Marianne.
Il tema è un difficile triangolo amoroso: due uomini, Clement (Vincent Macaigne) e Abel (Louis Garrel) sono legati da antica e profonda amicizia, ora messa a dura prova dal trasporto amoroso di Clement per Mona (Golshifteh Farahani) la bella donna misteriosa che lo respinge, non volendo rivelargli il segreto (che gli spettatori conoscono dall’inizio del film) che la induce ogni sera ad abbandonare precipitosamente la panineria della Gare du Nord a Parigi dov’è impegnata come cameriera, per salire su un treno che la riporta in Piccardia. A Clement, goffo e insicuro, il comportamento di Mona pare inspiegabile: una giornata di lavoro fra due viaggi da (o per) un luogo quanto mai misterioso; decide perciò di affidarsi ad Abel, uomo solido e fascinoso, conoscitore delle donne nonché infallibile conquistatore (sarà davvero cosi?)
Nel gioco dell’amore e del caso, invece, sarà proprio Abel a subire il fascino della donna bellissima, dando inizio a un’avventurosa storia a tre, in cui non mancano le ferite e il sangue, metafore evidenti del doloroso e progressivo chiarirsi dei ruoli e dell’inevitabile esclusione di Clément: l’amore nascente fra Abel e Mona è vero e riguarda esclusivamente la coppia degli amanti: tertium non datur!
Lo stato di grazia dell’amore, tuttavia, non è una condizione di perfetta felicità: la impediscono i sensi di colpa di Abel e la sua volontà di non ferire l’amico, la impediscono anche i sacrifici che per un lungo tempo allontaneranno i due innamorati e che per Mona saranno particolarmente gravosi. Forse, però, ne era valsa la pena.
Il racconto del regista è leggero e ironico, non privo di una certa cattiveria soprattutto nel delineare il ritratto dei due protagonisti maschili, entrambi impreparati ad affrontare la realtà della vita: non più ragazzini, ma ancora incapaci di progettare il proprio futuro assumendo in piena coscienza le proprie responsabilità, più propensi a lasciarsi vivere giorno per giorno. Positivo, invece, il personaggio femminile, che accetta serenamente le conseguenze della trasgressione amorosa che le ha regalato, per un tempo troppo breve, gioia e felicità.
Un piccolo film, un gioiellino davvero pieno di grazia. Bravissimi gli attori.
Angela Laugier
Scritto il 18 agosto 2019 alle 10:56 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "La mia vita con John Donovan (di Angela Laugier)
Titolo originale: The Death and Life of John F. Donovan
Regia: Xavier Dolan
Principali interpreti: Kit Harington, Natalie Portman, Jacob Tremblay, Ben Schnetzer, Susan Sarandon, Kathy Bates – 123 min. – USA 2018.
Un’opera travagliata e di difficile costruzione, solo parzialmente riuscita e a rischio, più accentuato del solito, di trasformare l’analisi sottile dei sentimenti contraddittori e irrisolti dei protagonisti in feuilleton, anche seXavier Dolan è riuscito ancora una volta a darci, sia pure a frammenti, momenti di grande cinema mélo.
Di sicuro interesse cinefilo, pertanto, è quest’ultima fatica del regista canadese, che ha prodotto, scritto e diretto questa pellicola avvalendosi di un cast eccezionalmente prestigioso, quasi a sottolineare l’importanza che egli intendeva attribuire al suo primo film in lingua inglese.
La sua realizzazione era stata molto difficile e tormentata, tanto che solo al festival di Toronto del 2018 il film aveva potuto essere presentato, dopo essere stato atteso vanamente a Cannes e a Venezia, per le difficoltà che si erano presentate al regista in sede di montaggio, durante il quale egli ne aveva eliminato, con grande sofferenza, una parte cospicua, riducendolo a poco più di due ore dalle quattro iniziali, ciò che lo aveva costretto a tagliare via del tutto il personaggio non secondario dell’attrice Jessica Chastain, che, contrariamente a ciò che molti si aspettavano, aveva reagito con signorile e affettuosa comprensione, manifestando nei confronti di Dolan la propria immutata stima:
…non preoccupatevi, sono stata informata in anticipo … questa [situazione] è stata gestita con il massimo del rispetto e dell’amore.
Dolan ricostruisce la vita del piccolo Rupert Turner (Jacob Tremblay), un ragazzino che dai sei agli undici anni è seguito con attenta partecipazione e con profondo amore, non disgiunto da severità, dalla madre Sam (Natalie Portman), abbandonata dal marito, e che insieme a un’ insegnante della scuola primaria, asseconda l’immaginazione del figlioletto. La giovane docente, poi, è così impressionata dal suo talento precoce per la scrittura creativa, da decidere di dedicare qualche ora del proprio tempo a lui, al termine delle lezioni, per aiutarlo ad affermarsi.
Il piccolo Rupert vorrebbe diventare un attore: il suo modello è John F. Donovan (Kit Harington), uomo di spettacolo non giovanissimo, intrattenitore e attore in una serie TV per ragazzi.
Rupert lo vede esibirsi sul piccolo schermo di casa, circondato da strani effetti speciali, che ai suoi occhi incantati appaiono frutto delle sue straordinarie abilità: sviluppa perciò una così sconfinata ammirazione da stabilire con lui, via e.mail, un fitto dialogo, che diventa sempre più simile a un’ossessione irrinunciabile.
Sarà lo stesso Rupert, dieci anni dopo, poco più che ventenne (l’attore è ora Ben Schnetzer), a ricostruire in un romanzo in cui, per definizione, l’invenzione è predominante, ma non per questo è meno “vera”, quel rapporto, grazie alle missive fortunosamente ricuperate, e a pubblicare la storia di un amore omosessuale rimasto nel limbo dei sogni e dei desideri irrealizzabili, anche per l’improvvisa morte di John, stanco, depresso ed emarginato nel suo ambiente sociale e familiare (la bravissima Susan Sharandon interpreta la parte di una madre stolta e inadeguata) e costretto ad assumere dosi sempre più elevate di psicofarmaci per continuare a esibirsi pubblicamente.
Il racconto è triste e malinconico, condotto come uno strano gioco di specchi, poiché i due protagonisti, pur lontani, e molto diversi per età (la cui differenza nel romanzo si accorcia) si riconoscono nella propria solitaria emarginazione. Il film è inoltre una lunga riflessione sull’inadeguatezza della società e della famiglia, dolorose fonti di incomprensione e di insincerità, che accrescono la sofferenza di chi non può essere se stesso. Importante il ruolo della musica che sottolinea, talvolta un po’ enfaticamente, la narrazione che alterna momenti delicati e teneri a momenti di cupa disperazione. Anche se un po’ velleitario e sotto-tono, il lavoro del regista, attento all’equilibrio emotivo, sospeso fra strazio e dolcezza è sempre molto riconoscibile.
Angela Laugier
Scritto il 21 luglio 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensioni del film "Pallottole in libertà" (di Angela Laugier)
Titolo originale: "En Liberté"
Regia: Pierre Salvadori
Principali interpreti: Adèle Haenel, Pio Marmaï, Vincent Elbaz, Audrey Tautou, Damien Bonnard – 108 min. – Francia 2018.
Questo è un film bizzarro e anche un po’ bislacco: attraversa, con grande disinvoltura, non solo i generi, ma anche i registri narrativi, senza perdere di interesse, forse perché nasce come intelligente e raffinato divertimento del regista, il franco-tunisino Pierre Salvadori, non nuovo a queste mescolanze, ma pochissimo noto da noi (a me, personalmente, era ignoto).
Pierre Salvadori ha alle spalle ottimi studi letterari e cinematografici a Parigi, nonchè un certo numero di film, molto apprezzati nel mondo ,ma pessimamente distribuiti da noi, e, ça va sans dire, peggio titolati dai nostri impagabili e fantasiosi addetti.*
Il titolo originale di quest’ultima sua opera, tanto per fare un esempio, era En liberté e alludeva al contenuto del film e, più sottilmente, alla difficoltà di vivere davvero in libertà, essendo le scelte sempre pesantemente vincolate a situazioni pre-esistenti, difficili da ignorare. Le pallottole del titolo italiano non hanno nulla a che vedere col film.
La storia ha un avvio tra il melenso e il favoloso e un seguito imprevedibile: una giovane madre, Yvonne Santi (Adèle Haenel) si adopera, come ogni sera, per addormentare il figlioletto insonne, raccontandogli, per l’ennesima volta, l’impresa eroica durante la quale aveva perso la vita il suo papà, Jean Santi, il comandante della polizia locale (siamo in Costa Azzurra). Di lì a poco, con una solenne cerimonia, sarebbe stato inaugurato un monumento dedicato a lui, assai brutto, fra applausi, retorica d’ordinanza e commozione orgogliosa del piccino, vezzeggiato e al centro dell’interesse generale insieme alla sua mamma, poliziotta anche lei.
La festa, però, non sarebbe durata a lungo: Yvonne, casualmente, scopre che quel marito non solo non era mai stato quel martire del dovere che tutti andavano dipingendo, ma che era un uomo corrotto; che aveva organizzato una finta rapina per intascare, con i suoi complici, i soldi dell’assicurazione, e che successsivamente non si era fatto scrupoli nel costruire a tavolino le prove contro un povero cristo innocente, il quale, grazie a quel mascalzone, stava in galera da otto anni. Si aprono a questo punto gli imprevedibili sviluppi del film: Yvonne, affronta con cautela l’argomento col figlio, modificando sera per sera la narrazione delle gesta paterne, ma contemporaneamente si adopera per far uscire l’innocente Antoine ( Pio Marmaï) dal carcere, seguendone successivamente il difficile percorso di re-inserimento familiare e sociale, con un’insistenza melodrammatica così petulante, da ingenerare molte equivoche situazioni e più di un fraintendimento. Intorno ai due personaggi principali, si muovono, con ruoli importanti, Louis (Damien Bonnard), agente, già amico del “martire” e timido e impacciato innamorato di Yvonne; Agnès (Audrey Tautou, ovvero la indimenticabile Amélie, riconoscibilissima e sempre magnifica; anche qui svagata e sognatrice).
Scritto il 07 luglio 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Quel giorno d'estate" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Amanda
Regia: Mikhael Hers
Principali interpreti: Vincent Lacoste, Isaure Multrier, Stacy Martin, Ophélia Kolb, Marianne Basler, Jonathan Cohen, Greta Scacchi, Claire Tran – 106 min. – Francia 2018
Nella Parigi dei nostri giorni, Sandrine (Ophélia Kolb), insegnante d’inglese, vive da single con la piccola Amanda (Isaure Multrier), la figlioletta di sette anni. Per lei, come per tante altre donne, i tempi del lavoro male si conciliano con i compiti materni, né le è facile, quando rientra in casa, lasciare dietro di sé le preoccupazioni e le frustrazioni accumulate fra studenti distratti, genitori minacciosi e arroganti e colleghi pavidi e poco solidali. Per fortuna, può contare sull’aiuto del giovane fratello, il ventitreenne, David (Vincent Lacoste), che, accumulando lavori precari, riesce a organizzare il proprio tempo con un po’ di flessibilità: è addetto alla manutenzione dei parchi comunali, ma arrotonda le magre entrate con qualche lavoretto occasionale e si occupa di procurare, via Internet, alloggi in affitto, per brevi periodi, ai turisti in arrivo. In questo modo aveva conosciuto la bella Lena (Stacy Martin), che si mantiene nella capitale con le sue lezioni di piano.
Così, attraverso la loro quotidianità, il regista ci presenta i personaggi di questo piccolo film, che mette in scena l’atmosfera nervosa e inquieta in cui si muovono, come loro, molti giovani del nostro tempo, che seppure non siano, per il momento, in condizioni di povertà, avvertono l’incertezza del futuro e si adoperano per affrontare i problemi più urgenti, facendo tesoro della solidarietà degli affetti, spesso in una cerchia familiare molto ristretta: Sandrine e David hanno da poco perso il padre e non hanno da vent’anni notizie della madre, che li aveva abbandonati per seguire a Londra l’uomo di cui era innamorata. In questo equilibrio traballante arriva imprevisto l’impatto col terrorismo: non una novità nella Parigi del Bataclan, ma non per questo meno crudele e assurdo. Le piccole esistenze dei nostri personaggi ne usciranno sconvolte: Sandrine muore in una sera d’estate, mentre tranquillamente in un parco attende il fratello insieme a Lena. In ritardo all’appuntamento, solo lui era stato risparmiato dalla furia omicida del folle che aveva preso a fucilate la gente che si trovava lì. Lena, ferita, era stata portata in rianimazione, mentre David, sconvolto, aveva subito pensato alla piccola Amanda. L’ultima parte del film è tutta dedicata al loro progressivo avvicinarsi, accettandosi, nelle loro rispettive asperità, perché nonostante la tenerissima età e la precoce conoscenza del dolore, Amanda è molto decisa a rivendicare il proprio diritto a non essere trattata come un pacco da smistare da un indirizzo a un altro e Davide è troppo tenero e bisognoso di famiglia per permettere che le si aprano solo le porte dell’orfanotrofio.
Film delicato ed esile, che si interroga sul dolore, sul suo perché, sul modo per uscirne. Il regista non indugia sulle scene cruente, riprese anzi in un crepuscolo che tende a sbiadirne i contorni crudeli. Il dolore è tutto interno ai personaggi, che gli attori, disegnano con grande talento interpretativo dando verità alla tragedia che cambia la loro vita e che essi cercano di ricominciare.
Da vedere. Il racconto è straziante, ma è pudico e asciutto: i fazzoletti non occorrono.
Angela Laugier
Scritto il 23 giugno 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "I figli del fiume giallo (di Angela Laugier)
Titolo originale: Jianghu ernü.
Regia: Jia Zhangke
Principali interpreti: Zhao Tao, Liao Fan, Zheng Xu, Casper Liang, Feng Xiaogang,Yinan Diao, Yibai Zhang – 141 min. – Cina, Francia, Giappone 2018.
Un precedente: Still Life
Torna con questo film Jia Zhangke, l’importante regista che ci ha fatto conoscere le tragedie e le sofferenze seguite alla modernizzazione che aveva reso la Cina, in pochi anni, un paese sfigurato e irriconoscibile.
Preceduto da alcune opere meno note in occidente, nel 2006 Jia Zhangke era entrato nel mondo universale del cinema d’autore col suo bellissimo Still Life (Leone d’oro a Venezia), opera che mi sembra costituire la premessa dei suoi film successivi.
Vi si raccontava la sorte del bellissimo sito delle Tre Gole, sul fiume Yangtze, emblematica della sconvolgente trasformazione in atto: evacuata l’intera popolazione dell’antica Fengije per rendere possibile la costruzione della diga colossale, il paesaggio naturale, un tempo meta dei viaggiatori interni e di qualche turista, era stato sommerso: un immenso lago aveva inghiottito anche l’antico villaggio, con effetti ambientali catastrofici e con gravissime ripercussioni sulla società e sui singoli individui, le cui sofferenze l’acqua non avrebbe facilmente cancellato.
Lo sgomento e l’incertezza per i processi che erano stati avviati e che ancora si dovevano concludere erano ben sintetizzati dall’ultima metaforica scena: un acrobata, in bilico su un cavo, tentava di raggiungere ciò che rimaneva degli antichi sobborghi in via di demolizione:
I figli del fiume giallo
Questo (girato dal 2017 e presentato a Cannes nel 2018) è il racconto crudele e struggente del definitivo disinganno: l’equilibrio fragilissimo tra il vecchio e il nuovo si era irreversibilmente frantumato; la “modernità” si era imposta con spaventosi costi umani e sociali.
Il film nasce con l’intento di ripercorrere la storia della Cina dal 2001 allorché stava per essere smantellato il sistema dell’economia comunista che aveva garantito a tutti sicurezza, lavoro e istruzione, generalizzando la povertà. La scelta del governo di introdurre massicce dosi di liberismo secondo i dettami del’accumulazione capitalistica, richiedeva di abbandonare gli investimenti nei settori meno produttivi ( i “rami secchi”), per dirottarli altrove. Stavano chiudendo, per questa ragione, le miniere carbonifere della regione nordoccidentale dello Shanxi: sarebbe seguita la fine del sindacato, nonostante la volontà di resistere dei lavoratori. Agli abitanti più giovani della città di Datong si apriva la prospettiva di emigrare verso sud in cerca di lavoro; agli operai più vecchi, animati ancora da una decisa volontà di lottare e di resistere, non rimaneva che avviarsi verso una vecchiaia povera e quasi certamente minata dalla malattia polmonare dei minatori di carbone: il cancro, come era accaduto al padre di Qiao (grandissima Zhao Tao) la protagonista del film, a lui molto legata.
La giovane amava Bin (Liao Fan), piccolo malavitoso, boss locale di un’organizzazione para-mafiosa che, nella latitanza degli organi istituzionalmente preposti alla difesa dei cittadini e alla mediazione fra i conflitti, tentava di imporre una forma primitiva di giustizia, secondo criteri che obbedivano a un codice d’onore interno.
Il potere di Bin era insidiato, però, da nuove e più aggressive manifestazioni di violenza senza regole e senza scrupoli: un sanguinoso assalto a colpi di spranga, da cui era uscito vivo solo grazie all’intervento di Qiao che lo aveva difeso sparando in aria, lo aveva dapprima mandato in galera per un anno e in seguito spinto a ricercare la propria strada nella nuova Cina del lusso e del potere, quella sorta nel lussuoso e prestigioso centro degli uffici finanziari di Fengije, ricostruito sulla grande diga, a ottomila chilometri da Datong… Qiao, invece, in galera era stata per cinque anni, senza più ricevere da lui né visite, né notizie.
La seconda parte del film: Qiao
Se la prima parte del film sembra muoversi tra la ricostruzione degli ambienti fumosi del gioco clandestino a Datong, controllato da Bin (con numerose citazioni da Scorsese) e l’accorata denuncia sociale alla Ken Loach, la seconda parte del film trova il suo centro nei viaggi di Qiao alla ricerca di Bin, che a sentire le voci ricorrenti, cercava di evitarla, avendo intrecciato una storia con un’altra donna.
Qiao non si arrendeva con facilità: la sua promessa d’amore a Bin era impegnativa per il futuro e consolidata dall’atto di eroismo che aveva duramente pagato, come si conveniva a una donna innamorata.
Il suo spostarsi dal nord, per ottomila chilometri verso la diga delle Tre Gole è anche, come nei road movies, un racconto di peripezie e di avventure,
nonché un viaggio di formazione che la porterà a una più compiuta conoscenza di sé: si fa più dolorosa la delusione per la pusillanimità meschina di lui, che la sfugge, ma ritorna l’antica autostima e si fa strada con chiarezza l’esigenza di mantenere lucidamente la propria dignità e la fedeltà al sogno d’amore nel quale aveva creduto. Bin non la merita, questo lo sa bene, ma Qiao non può tradire se stessa in primo luogo, facendosi sedurre dal miraggio della ricchezza e dell’egoismo individualista: quando avrà ancora bisogno di lei, la ritroverà.
Ci troviamo, dunque, di fronte a un film (da vedere sicuramente) che attraversa i generi, ripercorrendo più di quindici anni di storia cinese e offrendo alla nostra visione un’opera molto ricca di sfaccettature e fitta di corrispondenze interne: è un lungo percorso storico che si riflette nel dilatarsi degli spazi ampi del viaggio, è un mélo nel quale la tragedia personale di Qiao è un pallido riflesso della diaspora dolorosa di grandi masse di uomini e donne alla ricerca di lavoro e di maggiore sicurezza.
Angela Laugier
Scritto il 16 giugno 2019 alle 12:14 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Il traditore" (di Angela Laugier)
Regia: Marco Bellocchio
Principali interpreti: Pierfrancesco Favino, Maria Fernanda Cândido, Fabrizio Ferracane, Luigi Lo Cascio, Fausto Russo Alesi, Nicola Calì, Giovanni Calcagno, Bruno Cariello, Bebo Storti, Vincenzo Pirrotta, Goffredo Maria Bruno, Gabriele Cicirello, Paride Cicirello, Elia Schilton – 148 min. – Italia 2019.
Un film su Tommaso Buscetta, il primo collaboratore di giustizia nella storia della mafia siciliana, anzi, per citare le parole dello stesso Buscetta al giudice Giovanni Falcone, nella storia di Cosa Nostra, perché, a sentire lui, la mafia non era mai esistita, se non come nome inventato dai giornalisti.
Cosa Nostra, nelle parole di Buscetta, è il nome connotativo di un’organizzazione privata di uomini d’onore che avevano giurato, al momento dell’affiliazione, di proteggere i deboli e coloro che avevano subìto dei torti. Nata nella notte dei tempi (qualcuno la faceva risalire addirittura al tempo della ribellione anti-angioina, che fra il 1282 e il 1302 aveva scatenato le Guerre del Vespro), Cosa nostra era sorta per garantire, al di fuori delle leggi dello stato, una qualche forma di giustizia. Tommaso Buscetta era convinto che gli orrori delle stragi di mafia degli anni ’80 costituissero una violazione degli ideali primigeni, da imputare all’avidità e alla ferocia degli uomini della cosca corleonese, guidata da Totò Riina, assetato di potere e di soldi. Con loro, invano, gli uomini delle cosche palermitane avevano cercato un accordo che ponesse fine alla guerra intestina.
1981
La festa di Santa Rosalia, la processione e il successivo ritrovarsi, a casa di Stefano Bontade, dei capi di Cosa nostra si presentava come l’occasione auspicata dai palermitani per suggellare la tregua con i rivali di Corleone.
Tommaso Buscetta (uno splendido Pierfrancesco Favino), vi partecipava molto defilandosi, perché, come avrebbe spiegato in seguito a Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi), era entrato molto giovane in Cosa Nostra, come un soldato semplice e pronto a obbedire, ma senza ambizioni: ne traeva lauti guadagni, grazie al controllo di una parte del traffico di eroina che gestiva dalla casa di Rio de Janeiro, ma aveva otto figli a cui pensare, nati dalle tre mogli della sua vita, l’ultima delle quali, la portoghese Cristina (Maria Fernanda Cândido), lo aveva accettato pienamente, insieme ai figli dei precedenti matrimoni, evitando ogni discriminazione tra “figli e figliastri”, secondo le parole di Pippo Calò (Fabrizio Ferracane), legato a lui da rapporti d’amicizia, presto traditi passando alla cosca dei corleonesi: il vero traditore dopo la finta pace di Santa Rosalia.
Il tema del tradimento, che, a partire dal titolo, sembra indirizzare l’interpretazione del film, è perciò sottoposto ad analisi critica: chi abbia tradito davvero e perché lo abbia fatto costituisce un aspetto della ricostruzione storica dell’intera vicenda desunta dai verbali dell’interrogatorio di Giovanni Falcone a Buscetta, a cui Bellocchio abbondantemente attinge, così come si serve dei verbali del Maxiprocesso nonché delle cronache televisive dell’epoca che entrano nel film con opportuni inserimenti in fase di montaggio. Alla ricostruzione storica, però il regista affianca l’interesse per la complessità singolare del personaggio, cosicché lo scavo psicologico, sempre presente nei suoi film, ci offre un ritratto molto interessante di un uomo che, costretto a collaborare con i magistrati per evitare la vendetta degli onnipresenti e onnipotenti sicari corleonesi, mostrava intelligenza e lealtà nei confronti del giudice, a cui non aveva celato i propri difetti e le proprie debolezze. L’onestà genuina del suo racconto aveva reso possibile la stima di Falcone; le sue ampie e documentate rivelazioni avevano permesso il colpo durissimo a Cosa nostra, dapprima con l’arresto e la condanna di molti esponenti, nonché in seguito con l’approvazione delle leggi sul carcere duro, che pur non evitando la vendetta feroce dei corleonesi, avrebbero costretto in difesa l’intera organizzazione.
Nel panorama generalmente povero del cinema italiano, questo film ci offre una bella sorpresa, per i valori civili che esprime, per l’accuratezza della ricostruzione delle vicende che hanno a lungo destabilizzato il nostro paese, per la fine analisi dei rapporti fra Buscetta e Falcone, in cui i momenti di tensione sembrano stemperarsi nelle parole di saggezza profonda del giudice, che ben conscio dei rischi, aveva cercato di minimizzarli, riflettendo sulla precarietà della condizione umana, sull’incombenza minacciosa della morte e sulla necessità di accettarne la sfida in modo significativo, riempiendo di senso i nostri giorni. Dell’eccezionale prova di Favino ho detto; ma anche gli altri attori reggono bene il peso di un film lucido e impegnativo, da vedere e da ricordare.
Bellocchio è fra i registi italiani più apprezzati, insieme a Nanni Moretti e a pochi altri, fuori dai nostri confini. Non sempre ha creato capolavori, ma i suoi film hanno raccontato il nostro paese facendo discutere, mettendo in luce gravi problemi del nostro tempo, con uno stile molto personale e inconfondibile, rifuggendo dai frusti cliché della commedia italiana. Non è cosa da poco!
Angela Laugier
Scritto il 09 giugno 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "DOLOR Y GLORIA" (di Angela Laugier)
Regia: Pedro Almodovar
Principali interpreti: Antonio Banderas, Asier Etxeandia, Leonardo Sbaraglia, Nora Navas, Julieta Serrano, Penélope Cruz, Cecilia Roth, Raúl Arévalo, Eva Martín, Susi Sánchez durata 113 min. – Spagna 2019.
L’apertura del film è insolita e originale: scorrono davanti ai nostri occhi gli eleganti disegni animati che illustrano l’anatomia umana, mentre la voce del protagonista, Salvador Mallo, di professione regista (Antonio Banderas, grandissimo alter ego di Almodovar) spiega l’interdipendenza dei nostri organi e accenna ironicamente alla difficoltà di trovare la giusta armonia fra loro: muscoli, scheletro, visceri e cervello sono strettamente collegati, così da risultare difficile comprendere se i nostri guai siano dovuti a improvviso incepparsi del meccanismo di funzionamento, o se dipendano invece da stati d’animo che ci portano a somatizzare le nostre paranoie.
Salvador ne sa qualcosa, infatti, ora che sta attraversando un momento difficile psicologicamente e che sta invecchiando nella malattia e nel dolore. È un cineasta famoso in difficoltà: una profonda crisi creativa, accompagnata da disturbi gravi, forse di origine organica, da tempo lo affligge (e lo apparenta a Marcello, l’immortale alter ego di Fellini in 8 e 1/2), privandolo delle idee necessarie per riconquistare il suo pubblico.
Il film alterna l’angoscioso presente con l’evocazione di un passato felice, quasi una recherche proustiana di sé, che passa attraverso il percorso a ritroso nel mondo favoloso della propria infanzia povera, nella casa di Paterna, sfondo della sua educazione sentimentale, e delle prime manifestazioni dei propri orientamenti sessuali, in cui la giovane madre, amatissima, (Penelope Cruz) aveva voluto trasferirsi per raggiungere il marito, emigrato per lavorare, nella Spagna ancora franchista e miserabile degli anni ’60.
Dal soffitto di quella grotta, Salvador vedeva solo piccoli quadrati di cielo, ma sognava e viaggiava con l’ immaginazione, alimentata dalle letture e dalla magia del cinema, per il quale egli aveva sempre nutrito un profondo e appassionato interesse.
Evocare quel cinema è riportare alla memoria la stagione dell’estate con i suoi afrori “di gelsomino e di pipì” in uno struggente e commovente viaggio di riconquista della propria identità, che gli fa ritrovare l’amicizia dell’attore Alberto Crespo, (Asier Etxeandia) e l’affetto profondo per Federico, primo vero e grande amore (Leonardo Sbaraglia) della sua vita.
La madre ormai vecchia (ora è Julieta Serrano), suo riferimento costante, da poco lo aveva lasciato per sempre: con lei egli aveva condiviso gioie e dolori nella bella e stravagante casa di Madrid; ora, davvero solo, si tormentava per non averle dedicato maggiormente il proprio tempo ed era assediato da sensi di colpa, forse inevitabili quando si perdono le persone che maggiormente si amano.
Un racconto semplice e tranquillo, senza colpi di scena, poetico e quasi intimo; una confessione a cuore aperto come forse non era mai accaduto, contenuta nei limiti di un rigoroso equilibrio formale che ci riporta alla mente i migliori mélo del regista, che con leggerezza gentile, sa come mantenere alta l’emozione del pubblico, che lo ripaga, alla fine della visione, con la commozione sorridente di chi da tempo attendeva da lui una nuova grande prova. Un grazie davvero sentito.
Scritto il 02 giugno 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "I fratelli Sister" (di Angela Laugier)
Titolo originale: The Sisters Brothers
Regia: Jacques Audiard
Principali interpreti: John C. Reilly, Joaquin Phoenix, Jake Gyllenhaal, Riz Ahmed, Jóhannes Haukur Jóhannesson – 122 min. – Francia, Spagna, Romania, Belgio, USA 2018. –
“…vanno combattuti tutti coloro che campano alle spalle del proletariato senza svolgere alcuna attività”. Si rende necessaria la solidarietà fra le classi produttive “…dei collaboratori e dei soci, dal più semplice manovale al più ricco industriale, all’ingegnere più illuminato” (Henry de Saint Simon).
Oregon 1851
Due fratelli, Eli e Charlie Sister (rispettivamente John C. Reilly e Joaquin Phoenix), cacciatori di taglie, lavorano al soldo di un potentissimo ma misterioso signore locale, il “Commodoro”, per catturare e uccidere Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed), geniale chimico di provenienza medio-orientale e anche seguace delle teorizzazioni saintsimoniane, costretto a fuggire dalla California e, al momento del film, desideroso di raggiungere il Texas, dove, a Dallas, ha in mente di costruire il migliore dei mondi possibili, secondo la prospettiva indicata dal suo ideale ispiratore.
Egli, grazie ai propri studi, aveva scoperto il modo per trovare l’oro nei fiumi senza fatica e senza guerre, utilizzando una sostanza chimica dalla formula segreta, capace di rendere luminoso, e perciò facilmente separabile dall’acqua, il prezioso metallo.
Sulle tracce di Warm era stato inviato, coll’incarico di carpirne i segreti, e successivamente di ucciderlo, anche il detective e avvocato John Morris (Jake Gyllenhaal), uomo di studi umanistici, che avrebbe instaurato con lui un ambiguo rapporto, affascinato dal suo progetto sociale e dalle sue conoscenze scientifiche: Warm, insomma, pur non essendo un criminale, era l’uomo più ricercato del momento perché la sua formula magica per trovare l’oro faceva gola a tutti i potenti del West.
Leone d’argento per la miglior regia, quest’ultima fatica di Jacques Audiard, magnificamente interpretata dai quattro protagonisti in stato di grazia, è ora nelle nostre sale ed è da vedere, poiché costituisce la testimonianza della versatilità di questo prestigioso regista, che ha tradotto per il cinema, su proposta dell’autore Patrick Dewitt, il romanzo Arrivano i Sisters. Il regista francese ha girato per la prima volta in inglese, sceneggiando con lo scrittore l’opera ispiratrice, avvalendosi inoltre del concorso dei capitali non piccoli di una produzione multinazionale, composta da Francia, Spagna, Romania, Belgio, U.S.A.
Come nei più famosi western di Sergio Leone, i luoghi che fanno da sfondo alla vicenda si trovano, per lo più, in territorio spagnolo (Aragona, Navarra), nonché, in questo caso, in Romania.
Audiard si è mosso rispettando la tradizione del genere, sia prediligendo i paesaggi aperti e selvaggi, gli spostamenti a cavallo, la febbre dell’oro, i momenti di dura e sgradevole violenza, sia includendo elementi di malinconica tristezza che evocano gli ultimi film di quella tradizione gloriosa, quelli che maggiormente hanno spiazzato e continuano a spiazzare le attese degli spettatori più fedeli, soprattutto per i temi “esistenziali” introdotti per i principali personaggi: Charlie, apparentemente il più motivato, è in realtà il più cupo e ombroso; Eli, apparentemente il più violento è in realtà sempre più riluttante a uccidere e come il fratello soffre per la nostalgia della casa e per la lontananza materna; Morris, tenuto all’obbedienza della legge, è sedotto, invece dall’utopia di Kermit Warm…
È presente in tutto il film una sorta di ironia indulgente nei confronti di quel mondo lontano che, nel veloce e irreversibile mutare del contesto storico, trasforma gli eroi individualisti di un tempo in picari avventurosi, un po’ donchisciotteschi, e che evidenzia come la fascinosa sicurezza scientistica e la fiducia nel progresso inarrestabile nascano da una pericolosa ignoranza circa gli effetti perversi della manipolazione della natura.
Angela Laugier
Scritto il 19 maggio 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "La caduta dell'Impero Americano" (di Angela Laugier)
Titolo originale: La Chute de l’Empire Américain
Regia: Denys Arcand
Principali interpreti: Alexandre Landry, Maripier Morin, Remy Girard, Louis Morissette, Maxim Roy, Pierre Curzi, Vincent Leclerc, Yan England, Anoulith Sintharaphone, Florence Longpré – 127 min. – Canada 2018.
Ritorna sugli schermi Denys Arcand, il grande regista del Canada francofono che ha lasciato nella mia memoria cinefila almeno due film molto amati: Il declino dell’impero americano (1986) e Le invasioni barbariche (2003), connotati entrambi dalla più acuta e corrosiva analisi, fra il serio e il faceto, delle finte trasgressioni degli intellettuali snob e anti-americani che meditano sul disincanto del dopo ’68.
L’Impero americano, il grande nemico di sempre, il cui egemone edonismo era stato oggetto di sarcastica irrisione in quegli indimenticabili film, ritorna, fin dal titolo, in quest’opera, nella quale sembra in via di rapida estinzione.
I nostri giorni, infatti, non sono più i tempi dell’edonismo: troppi i delusi rimasti soli a pagare le antiche follie, troppi anche i poveri, i disoccupati, gli emarginati; troppi i dolori e le sofferenze nel Quebec (e non solo) di oggi, in cui vive, frustrato e rassegnato Pierre-Paul Daoust (Alexandre Landry), il protagonista del film, giovane di intelligenza e cultura superiore alla media, brillantemente laureato in filosofia e in possesso di un altrettanto brillante dottorato post-laurea.
Povera, et nuda vai, Filosofia,
Dice la turba al vil guadagno intesa
Il nostro filosofo aveva misurato sulla propria esperienza quotidiana la verità eterna dei versi petrarcheschi: era stato costretto a sbarcare il lunario consegnando pacchi; era diventato l’onesto fattorino di una ditta di trasporti e si era convinto che il successo arridesse ormai solo agli imbecilli privi di cultura. Quel poco che gli restava del suo magro guadagno gli serviva per soccorrere i più poveri di lui, gli anziani soli e in miseria, gli homeless che lo stimavano, e che, diversamente da lui, apprezzavano i soldi.
Il suo sogno, un po’ bizzarro, di dedicarsi completamente alla causa nobile della lotta alla povertà aveva acquistato, improvvisamente e per puro caso, inaspettata concretezza.
Era accaduto infatti che, mentre si accingeva a consegnare un plico al supermercato, Pierrre-Paul fortunosamente si fosse trovato al centro di una guerra fra banditi rivali che si contendevano, a colpi d’arma da fuoco, l’enorme quantità di banconote, stipate in due borsoni lasciati cadere a terra nel parcheggio, dopo essersi colpiti a morte. Un segno del fato, per Pierre-Paul che non si era posto il problema della liceità morale di rubare ai ladri e aveva caricato i borsoni sul furgone della ditta trasportandoli a casa propria, intenzionato ad attuare il proprio piano di giustizia sociale.
Per lui, che poco conosceva i meccanismi dell’economia, occorrevano consulenti affidabili ed esperti: li avrebbe trovati nelle persone di Me Wilbrod Taschereau (Pierre Curzì), presidente di una banca etica, realisticamente disponibile…per fini morali, s’intende, alla ripulitura del denaro sporco, e di Sylvain Bigras (Rémy Girard), malfattore espertissimo ed ex galeotto che in carcere si era laureato in Economia, disciplina utilissima (ben più della Filosofia) anche per gli affari ispirati ai più puri intendimenti.
L’accoppiata delle due vecchie volpi è preceduta dall’irrompere di un personaggio che racchiude il senso del film: Camille (Maripier Morin), meravigliosa escort che per sedurre Pierre-Paul e altri intellettuali frustrati, si fa chiamare Aspasia e cita Racine. Il loro ruolo decisivo solleva più di un dubbio sulla reale caduta dell’impero, che si ricostruisce, infatti, ancora una volta, sull’inganno, mantenendo il potere di un tempo, con una maggiore forza seduttiva, allontanando i propositi di palingenesi degli idealisti alla Pierre-Paul: non cambieranno il mondo, ma si sentiranno in pace con se stessi e la loro coscienza!
Quasi un teorema graffiante e impietoso: il vecchio Arcand ha colpito ancora facendoci anche amaramente divertire, con questo film consigliabile, interpretato dai magnifici Remy Girard e Pierre Curzì, i suoi invecchiati attori-feticcio.
Angela Laugier
Scritto il 12 maggio 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Cafarnao - Caos e miracoli" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Capharnaüm
Regia: Nadine Labaki
Principali interpreti: Zain Alrafeea, Yordanos Shifera, Boluwatife Treasure Bankole, Kawsar Al Haddad – 120 min. – Libano, USA 2018.
Capharnaüm è l’antica città della Galilea, da cui iniziò la predicazione di Gesù. Nei millenni il suo nome ha acquisito il significato di confuso bazar, senza regole, in cui tutto è acquistabile.
Nel Libano miserabile e caotico dei campi che accolgono milioni di rifugiati dal vicino Oriente e anche dal Corno d’Africa, la regista Nadine Labaki ambienta una parte della dolorosissima storia di Zain (Zain Alrafeea), un frugoletto dodicenne, intelligente e triste, figlio di profughi siriani insediati nei pressi di Beirut.
Zain compare in manette nell’aula del tribunale della capitale libanese: è in stato d’arresto, avendo ferito gravemente, con un coltello, l’uomo che aveva comprato dai genitori sua sorella Sahar, di soli undici anni, che invano egli aveva cercato di proteggere da lui. Sahar ne era morta poiché il suo corpo gracile e ancora infantile non aveva retto alla prima gravidanza. L’accoltellamento del cognato pedofilo era stata la vendetta di Zain, che ora, in tribunale, stava chiedendo giustizia per sé, denunciando quei genitori per il reato di averlo messo al mondo, col solo fine di ricevere i sussidi che l’alto numero dei figli garantisce ai profughi.
La stessa regista assume il ruolo di avvocato difensore del piccolo, a cui chiede di raccontare la propria storia.
Il film, pertanto, ripercorre a colpi di flashback la dolorosissima infanzia di Zain, la sua fuga dalla famiglia, il suo vagare incerto e pericoloso lungo le strade e i mercati in cui i profughi si mescolano ai libanesi, sempre pronti a lucrare sui loro bisogni e sulla loro disperazione.
Il mio giudizio su questo film è incerto: pur riconoscendone i pregi formali, ribadisco la mia avversione per i film ricattatori, che esibiscono il dolore senza ritegno, ingigantendolo col racconto del susseguirsi ininterrotto di sciagure che si abbattono sugli indifesi, soprattutto quando insopportabilmente i bambini, perfetti per commuovere, ne diventano i protagonisti. Le vicende sono sicuramente “storie vere”, forse addirittura al di sotto della realtà, in un mondo in cui tutto è merce, e in cui corpi e anime dei più deboli diventano oggetto di compravendita cinica, da parte di chi sfrutta senza scrupoli la disperazione degli uomini in fuga dalla fame, dalle persecuzioni politiche e dalla tortura, proprio là dove sono accolti in attesa degli aiuti umanitari.
Mi chiedo, tuttavia, per quale motivo, di fronte a questa dura realtà, Nadine Labaki, invece di denunciare le responsabilità politiche e storiche che l’hanno prodotta, si sia accontentata di una semplicistica rappresentazione sociologica, alla ricerca delle colpe individuali, mettendo inevitabilmente sullo stesso piano gli sfruttati e gli sfruttatori, le vittime e i carnefici.
Angela Laugier
Scritto il 05 maggio 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Sofia" (di Angela Laugier)
Regia: Meryem Benm’Barek
Principali interpreti: Maha Alemi, Sarah Perles, Lubna Azabal, Faouzi Bensaïdi, Nadia Niazi, Hamza Khafif, Sara El, Mohamed Bousbaa, Mansour Badri, Nadia Benzakour – 85 min. – Francia, Qatar, Belgio 2018.
Sofia (Maha Alemi) ha vent’anni e vive in famiglia. È bruttina, ha l’aria perennemente imbronciata e da qualche tempo si sente poco bene, ciò che un po’ preoccupa i suoi genitori, tradizionalisti e benestanti, convinti che sicuramente, grazie alla sua ottima posizione sociale, farà un buon matrimonio. Nessuna donna, a quanto pare, in tutto il Marocco, può considerarsi davvero realizzata se non si sposa, neppure nella quasi europea Casablanca, dove abita. Non ha studiato, a differenza della cugina Lena (Sarah Perles), che ha in animo di diventare medico come suo padre, il francese evoluto che si sta adoperando per coinvolgere i genitori di Sofia in un’operazione molto redditizia di carattere speculativo.
Qui arriva il primo colpo di scena del film: Sofia è incinta e sta terminando l’ottavo mese di gravidanza segretamente: nessuno ne è a conoscenza, neppure lei, che, come si dirà in seguito, ha rifiutato fin dall’inizio la propria gravidanza, negandone l’esistenza. Durante una riunione di famiglia, davanti al tavolo imbandito, il malessere di Sofia si rivela per quello che è: sta per partorire. Lo comprende Lena, che l’accompagna in tutta fretta all’ospedale, adducendo una scusa per tranquillizzare i convitati, ancora seduti a tavola.
Le cose si complicano subito: le leggi del Marocco prevedono il carcere, fino a un anno, per uomini e donne che hanno avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio; i controlli sono severi, negli ospedali i medici stanno attenti a non essere coinvolti in queste brutte storie e premono perché i colpevoli riparino la violazione della legge sposandosi, ciò che impone di rintracciare il “reo” e di celebrare le nozze quanto prima possibile.
Si impone la fine della segretezza: la famiglia viene informata e infine spunta il nome di Omar (Hamza Khafif), un “reo buon uomo” direbbe Manzoni, un poveraccio dei quartieri “bassi” di Casablanca che prima negando, poi ammettendo, acconsente di sposare Sofia, cogliendo, in tal modo, l’opportunità di riscattare dall’emarginazione e dalla miseria se stesso e la propria famiglia.
Più tardi arriverà, con la piena confessione di Sofia, il secondo colpo di scena, che non rivelerò e che ribaltando il primo racconto, mette in chiaro che al di là delle intenzioni del legislatore, le leggi ispirate ai principi religiosi non solo non incrementano i comportamenti virtuosi dei cittadini, ma favoriscono sotterfugi e ipocrisie, impedendo che si sviluppi la normale dialettica degli interessi fra le classi sociali, fondamento delle società democratiche nel mondo contemporaneo.
Si tratta di un buon film, girato con cura e con la giusta suspence, che inaspettatamente ci svela una tragica commedia umana neppure lontanamente immaginata, perciò stesso di grande interesse. Anche in questo caso, tuttavia, non ritengo questo film completamente convincente.
Riporto, a questo proposito, le esplicite dichiarazioni della regista, nata in Marocco, ma cresciuta ed educata in Belgio: “Con Sofia non ho voluto parlare specificatamente delle divisioni sociali che attraversano il Marocco, o della condizione femminile. Ho voluto semmai raccontare com’è il Paese oggi”.
Ne prendiamo atto e la ringraziamo, anche se sommessamente vorremmo farle notare che in questo modo si è limitata alla descrizione di quella realtà sociale, cosa buona e giusta, quando non si limiti alla sterile constatazione dei dati di fatto, ma diventi la fonte di conoscenza indispensabile per la trasformazione: “attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”.
La citazione gramsciana diventa ovvia, soprattutto in presenza dell’elemento di speranza e di cambiamento costituito dal neonato, che, purtroppo, qui si riduce a mera funzione narrativa, come viene fatto notare anche da J. S. Chauvin (Cahiers du Cinéma n. 157 del settembre 2018 pag. 29).
Pregevole per molti aspetti, dunque, il film appare quasi la paradossale e folkloristica rappresentazione di un’organizzazione sociale che ha elevato a sistema indistruttibile il malcostume e la corruzione diagante provocata dalla profonda disuguaglianza economica fra le classi, evidentemente di scarso interesse per Meryem Benm’Barek.
Angela Laugier
Scritto il 28 aprile 2019 alle 17:43 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Visages Villages" (di Angela Laugier)
Regia: JR, Agnès Varda
Documentario – 90 min. – Francia 2017
Con questa recensione, concludo il ricordo di Agnès Varda, regista e protagonista, insieme al giovane artista JR, di questo eccezionale film, presentato fuori concorso al Festival di Cannes del 2017 (e successivamente candidato all’Oscar del 2018).
Agnès non conosceva JR di persona, ma ne aveva ammirato l’attività di artista, noto nel mondo per le composizioni e le installazioni fondate sulle proprie gigantografie; allo stesso modo JR aveva ammirato le creazioni di Agnès, senza conoscerla, eppure entrambi si erano più volte sfiorati negli ambienti degli artisti o nella vita quotidiana parigina. L’abboccamento era avvenuto nell’accogliente e storica dimora di Agnès in Rue Daguerre, base operativa del suo vecchio documentario Daguerréotypes (1976),dove “Agnès-la-Daguerréotypesse” viveva e lavorava da sempre.
Era stata sua figlia, Rosaria Varda, produttrice cinematografica, a organizzare il loro primo colloquio, dal quale era scaturito il progetto di Visages Villages, secondo le intenzioni iniziali un cortometraggio di soli dieci minuti.
In corso d’opera, tuttavia, dopo 18 mesi di lavorazione (una settimana ogni mese dedicata alle riprese e il resto del tempo all’elaborazione del materiale raccolto) il cortometraggio era diventato questo magnifico film di un’ora e mezza, ciò che aveva richiesto l’intervento di alcuni produttori, a integrazione della piccola ma importantissima somma iniziale, raccolta col crowldfunding, che ne aveva reso possibile il decollo.
Col suo caschetto di capelli bicolori, dunque, Agnès, classe 1928, si accingeva a mettersi in viaggio al fianco di JR (il giovanotto inseparabile dai suoi occhiali scuri), classe 1983, sedendo accanto a lui, sul singolare e magico automezzo attrezzato per fotografare e per trasformare in pochi istanti qualsiasi fotografia in una stupefacente gigantografia, pronta per essere incollata sulla superficie destinata allo scopo, talvolta nell’intento di rianimare un luogo spento e insignificante; altre volte, invece, per far rivivere, nella bellezza dell’immagine, l’emozione che l’aveva originata.
Il film, dunque, è un on the road ricco di incontri, alla scoperta della Francia dei villaggi: quelli in cui molti vivono accettando le novità e i vantaggi della moderna rivoluzione informatica; quelli a rischio di estinzione, dove ancora sopravvivono gli ultimi custodi della memoria locale ignorata dalla globalizzazione, dove l’arrivo dei due artisti che ascoltano con interesse le antiche storie e i personali ricordi diventa l’emozionante occasione per far rivivere, col cinema e con le composizioni di JR, un po’ di quel passato che non si vuole cancellare.
Emerge inaspettatamente l’umanità dolente degli sconfitti che non cedono; si scoprono personaggi bizzarri e poetici, come il vecchio Pony, misantropo, orgoglioso e felice, che, senza aver letto Latouche, ha rifiutato il “progresso” in nome della bellezza dell’universo e di quella del riciclo.
Al richiamo della bellezza e dell’arte di JR tutti accorrono: la barista, ora immortalata sull’alto muro di una casa all’ingresso della città; le donne di Le Havre; i lavoratori di una fabbrica che produce, a ciclo continuo, acido cloridrico e che della loro presenza solidale lasciano sui muri un’indimenticabile testimonianza.
Qualche prezioso ricordo di Agnès trova spazio nel film: la visita alla tomba abbandonata e solitaria di Cartier-Bresson, la corsa (in carrozzella) al Louvre, nel ricordo di Godard; la gigantografia di Guy Bourdin sul bunker tedesco conficcato come una scultura contemporanea su una spiaggia sabbiosa della Manica, soggetta al vento e all’alta marea, immagine emblematica dell’intero film, che della precariètà di ogni bellezza e di ogni ricordo fa uno dei temi centrali della narrazione.
Colpisce di quest’ opera la semplicità asciutta del racconto, emozionante sicuramente, mai lacrimoso, però, grazie all’attentissimo montaggio di Agnès, vera mente del film, convinta da sempre che un documentario non consista nella semplice addizione di sequenze interessanti, ma che debba essere costruito per guidare, con mano leggera, gli spettatori a riconoscere le emozioni vere, ripulite dalle sbavature patetiche sempre in agguato quando è in gioco la memoria di ciò che è stato, troppo spesso amara e dolorosa. A questo scopo si rivela utile anche la bella e pertinente colonna sonora originale di Matthieu Chedid.
Film memorabile di immagini, di storie, di parole e di musica: uno dei più belli di questi ultimi anni.
Angela Laugier
Scritto il 21 aprile 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Cléo dalle 5 alle 7 (di Angela Laugier)
Titolo originale: Cléo de 5 à 7
Regia: Agnès Varda
Principali interpreti: Corinne Marchand, Antoine Bourseiller, Dominique Davray, Dorotée Blanck, Michel Legrand, José Louis de Villalonga. – 85 min. – Francia 1962.
Ad Agnès Varda, la splendida novantenne signora del cinema francese, grande regista e grande fotografa, scomparsa qualche giorno fa, dedico la recensione di questo suo bellissimo film, il primo uscito in Italia, cui farò seguire quella dell’ultimo, uscito nelle nostre sale un anno fa: Visages-Villages.
È un tributo modestissimo, ma molto affettuoso, alle sue opere, che sempre mi hanno comunicato emozionanti riflessioni sul tempo che inesorabile passa, sullo sgomento per l’ineluttabilità della fine, insieme alla gioia di vivere, “fino all’ultimo respiro”, il grande e misterioso dono che è la nostra vita.
Florence, in arte Cléo (Corinne Marchand), è una giovane e bella donna, cantante radiofonica di successo, che si è recentemente sottoposta ad alcuni esami clinici di cui sta attendendo i risultati, in un crescendo di ansia e timore.
I tarocchi della cartomante, così come le superstiziose precauzioni della sua segretaria-governante, le sembrano sinistri presagi dell’approssimarsi della morte e ingigantiscono nel suo cuore l’angosciosa attesa della diagnosi. Il tempo del film accompagna, quasi esattamente, il tempo reale delle due ore pomeridiane (dalle 5 alle 7) che separano Cléo dall’incontro temuto col medico che si occupa di lei. Siamo a Parigi, in un giorno speciale: il primo giorno dell’estate.
Cléo, per la prima volta, ha voluto uscire da sola nella grande città, libera finalmente di vagare senza meta, guardandosi attorno, lontana da quella dimora un po’ rifugio e anche un po’ gabbia dorata, luogo delle carezze e delle coccole che condivide con gli amici musicisti, la segretaria impicciona, l’amante che la trascura, i gatti che ne occupano ogni spazio morbido e caldo.
Con occhi nuovi, senza alcuna mediazione, Cléo vede nei luoghi abituali persone del tutto sconosciute: ascolta le loro storie, conosce il loro dolore, cerca e ritrova, infine, l’amica di sempre, che si guadagna da vivere posando in un laboratorio di scultura. Scopre che il giovane che vive con lei è un aspirante regista, che le mostra un breve film (una bella sorpresa: J. Luc Godard e Anna Karina fanno gli attori!).
Continuando nella sua passeggiata, Cléo arriva al Parco di Montsouris, dove incontra Antoine (Antoine Bourseiller), un ragazzo, militare in partenza per l’Algeria, non meno preoccupato di lei per il destino che lo attende… È l’incontro decisivo, che l’aiuterà finalmente ad affrontare la verità delle proprie condizioni di salute. Che cosa sarà di loro, non è dato sapere: si scriveranno, forse si rivedranno: si sono scambiati un bacio e l’indirizzo, ma nessuno può davvero prevedere il loro futuro.
La primavera se n’era andata con tutti i suoi fiori, per lasciare ai frutti succosi dell’estate la testimonianza della meravigliosa bellezza della vita nella sua maturità: forse era arrivato anche per Cléo il momento di abbandonare la sua vita di ragazzina viziata e protetta e di affrontare il futuro: la metamorfosi era arrivata proprio quando, al colmo dell’angoscia, aveva sentito l’urgenza di uscire dal bozzolo confortevole e di guardare finalmente fuori di sé, aprendosi al mondo e agli altri, senza illusioni, come tutti, ma decisa ad accettare le gioie e i dolori che la vita le avrebbe riservato.
Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto;
forse il nostro cammino
a non tócche radure ci addurrà
dove mormori eterna l’acqua di giovinezza;
o sarà forse un discendere
fino al vallo estremo,
nel buio, perso il ricordo del mattino…
Eugenio Montale – Ossi di seppia
(Mediterraneo – VI movimento Versi 1-6)
Angela Laugier
Scritto il 15 aprile 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Peterloo"(di Angela Laugier)
Regia: Mike Leigh.
Principali interpreti: Rory Kinnear, Maxine Peake, Pearce Quigley, David Moorst, Rachel Finnegan, Tom Meredith, David Bamber, Tim McInnerny, Teresa Mahoney, Nico Mirallegro, Karl Johnson, Leo Bill, Mark Ryan, Philip Jackson – 154 min. – Gran Bretagna 2018.
Quest’opera del grande regista britannico Mike Leigh, presentata a Venezia nel settembre scorso, ricostruisce, con estrema accuratezza, un fatto storico fra i più dolorosi della storia del Regno Unito: la spietata repressione del raduno pacifico della popolazione di Manchester, convenuta dalla città e dalle campagne il 16 agosto 1819 nella grande radura di Saint Peter’s Field a sostegno di uno sciopero operaio, forse il primo organizzato dopo che la rivoluzione industriale (nata proprio a Manchester) si era imposta, garantendo altissimi guadagni ai proprietari dei nuovi strumenti meccanici, ai cui ritmi erano tenuti ad adeguarsi i lavoratori inurbati, operai senza diritti, impegnati senza limiti di orario a far funzionare le macchine. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari, dopo le guerre napoleoniche, rendeva durissima la vita di ogni giorno, né era possibile in tempi di carestia dilagante ritornare alla terra, ormai esclusiva proprietà dei rentier che vivevano a Londra impegnandosi nelle feste, nelle chiacchiere di corte, nella discussione politica * La crisi economica colpiva duramente; lo scontento di grandi masse affamate e sfruttate era avvertito come una minaccia sovversiva dalla nobiltà, dal clero e dalla borghesia manifatturiera a cui diventava evidente che non sarebbe bastata la sconfitta militare dei Francesi per liberarsi dalla minaccia della rivoluzione. Una nuova coscienza solidaristica e libertaria si era diffusa, infatti, penetrando persino fra i politici più illuminati del Parlamento inglese, fra i professionisti e gli intellettuali. Fu uno di questi, il radicale Henry Hunt (Rory Kinnear), avvocato londinese, a prendere a cuore l’organizzazione dello sciopero, imponendo, non senza difficoltà, al movimento la propria visione non aggressiva e non violenta: una festa popolare senza provocazioni per evitare che la Guardia Nazionale, inviata dal governo di Londra, disperdesse la folla con i fucili, o a colpi di spada, o con le cariche di cavalleria. Non andò così, purtroppo: i canti e la festa si trasformarono in lutto e alla fine della giornata si contarono 15 morti e quasi mille feriti. Non era bastata a tenere lontana la violenza stragista neppure la presenza di cronisti e gazzettieri di molta parte dell’Europa e anche del continente americano che testimoniarono, nelle loro pagine, lo scandalo e la vergogna di quel massacro. Nacque allora il Manchester Guardian, oggi chiamato semplicemente The Guardian, che si sarebbe impegnato da allora a lottare per l’attuazione della riforma della rappresentanza parlamentare e per l’introduzione di una Carta dei dritti dei lavoratori. La strada era però ancora molto lunga…
Il regista si preoccupa, nella prima parte del film, di contestualizzare lo svolgimento dei fatti, ricostruendo, con verità e senza fretta, gli ambienti in cui vivevano i lavoratori, le abitudini di alcune famiglie, le loro difficoltà. Allo stesso modo ci presenta le paure dei nuovi borghesi delle manifatture, presto alleati dei notabili locali più conservatori e dei preti, così come estende la sua indagine agli ambienti del governo, ai ministri parrucconi e decrepiti, e alla squallida corte del principe ereditario depravato e incapace.
Nella seconda parte, invece, assistiamo ai preparativi di quella giornata, agli accordi fra Hunt e i lavoratori più ascoltati e carismatici, oltre che alla manifestazione e alla tragedia sanguinosa che non risparmiò neppure i bambini.
Una bellissima fotografia accompagna il lungo racconto corale, che si sofferma soprattutto sul personaggio emblematico di Joseph (David Moorst), tornato a casa distrutto dopo la battaglia di Waterloo, quindi seguito dal suo lento reinserirsi in famiglia, fino alla sua fine drammatica, fra le vittime innocenti di quell’orribile giorno.
Tutto il film testimonia la volontà ferma del regista di rendere giustizia ai morti di allora, risvegliando la nostra pietà e rinfrescando la nostra memoria, soprattutto ora che la crisi sembra riproporre antiche paure e sbrigative quanto inutili soluzioni.
Ottime intenzioni, non sempre sufficienti, purtroppo, a vincere la noia di una rappresentazione molto prolissa, anche se di indubbio valore educativo: numerose sono state, ahimè, le uscite di sala prima del concludersi di questo film, pur molto atteso e sicuramente assai bello. Che peccato!
* Sulle condizioni storiche, sfondo del massacro, rievocate nel film, si possono avere notizie dettagliate QUI
Angela Laugier
Scritto il 07 aprile 2019 alle 09:18 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Il colpevole" (di Angela Laugier)
Titolo originale:The Guilty
Regia:Gustav Möller
Principali interpreti:Jakob Cedergren, Jessica Dinnage, Omar Shargawi, Johan Olsen, Jacob Lohmann, Katinka Evers-Jahnsen, Jeanette Lindbæk – 85 min.
Danimarca 2018 - Asger Holm (Jakob Cedergren), un tempo poliziotto addetto alla sicurezza in strada, è ora in attesa di processo per ragioni che non ci vengono dette e per le quali è stato provvisoriamente trasferito all’ufficio del centralino telefonico col compito di smistare le chiamate che richiedono il pronto intervento degli agenti. Svolge ora, dunque, un lavoro delicato, che richiede intelligenza e serenità d’animo, oltre che profonda umanità, perché anche nelle città della civilissima Danimarca, dove si svolge la vicenda del film, i conflitti fra i cittadini sono numerosi, spesso imprevedibili e devono essere risolti prima che diventino gravi casi di cronaca nera. Il nostro Asger Holm prende a cuore i casi più difficili anche oltre l’orario e persino al di là dei propri compiti perché sa ascoltare, consolare, consigliare, convinto che talvolta l’empatia possa far miracoli, ben più della burocrazia di mansionari e regolamenti. Asger Holm è solo, circondato dall’ostilità dei colleghi per i quali sarebbe meglio sdrammatizzare le tensioni che si celano dietro le chiamate: a dar retta a lui, non basterebbero le pattuglie sulle strade, soprattutto ora, che si è fatto coinvolgere nella brutta storia di una poveretta che viaggia su un furgone bianco, in balia di un marito pazzo che l’ha sequestrata per toglierle i figli e la vuole sicuramente uccidere…
Ci lasciamo pienamente coinvolgere anche noi: Asger Holm è persuasivo, col suo volto da bravo ragazzo che vorrebbe davvero modificare la realtà immobile dei regolamenti e delle procedure; la sua lotta è la nostra, almeno, così crediamo. Non tutto, però, è così chiaro: forse le regole deontologiche non sono proprio da buttare; forse sono una garanzia per tutti. Che avesse ragione Tayllerand (o chi per lui): surtout, pas de zèle?La linea di demarcazione fra la saggezza e il disincanto non è mai stata così sottile…
Girato in Danimarca, opera prima del regista svedese Gustav Möller, questo film è, come si intuisce, un thriller assai impegnativo, che si sviluppa nello spazio chiuso di un ufficio contiguo a due soli ambienti, uno dei quali è il corridoio, l’altro è il piccolo e buio sgabuzzino, dove da ultimo il nostro protagonista avrebbe continuato il colloquio telefonico, sottraendosi all’ormai aperta ostilità dei colleghi. Il film, dunque, non presenta azione scenica se non quella creata nella nostra immaginazione dalle lunghe telefonate fra Asger e la donna di cui, al di là del telefono, percepiamo l’angoscia e la paura solo ascoltandone le parole spezzate, i sì, i no, l’affanno del respiro, i lamenti. Anche se, per la ristrettezza dello spazio in cui si svolge, il film potrebbe ricordare Locke (e non pochi lo hanno notato), per altri aspetti se ne differenzia soprattutto perché in Locke lo spazio ridotto si allargava nella nostra immaginazione, grazie all’irrompere (sia pure solo telefonico) di molti altri personaggi importanti nella ricca vita di relazione del protagonista. In questo film, invece, gli spazi esterni all’ ufficio del centralino telefonico si riducono progressivamente, anche nella nostra immaginazione, parallelamente all’inesorabile prevalere dell’aspetto ossessivo del colloquio, cui non servono più neppure le immagini indeterminate della mappa dei dintorni di Copenaghen.
Film insolito di un regista molto promettente, capace, con pochi mezzi, ma grazie a una solida sceneggiatura, di creare emozione e suspence. Da vedere.
Angela Laugier
Scritto il 31 marzo 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "La casa di Jack" (di Angela Laugier)
Titolo originale: The House That Jack Built
Regia: Lars von Trier
Principali interpreti: Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl, Riley Keough, Ed Speleers, David Bailie, Ji-tae Yu, Osy Ikhile – 155 min. – Danimarca, Francia, Germania, Svezia 2018.
Il titolo italiano è ancora una volta improprio; quello originale è l’inizio di una filastrocca cumulativa, ovvero di una popolare ninna-nanna che sembra raccontare una fiaba ma che è invece costruita accumulando, per richiamo logico ma senza sviluppo narrativo, azioni correlate a quelle dei versi precedenti. Qui ne troverete un notissimo esempio.
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Questa premessa evita che lo spettatore s’inganni circa la natura del film, che nelle intenzioni di Lars von Trier è un apologo (probabilmente ispirato alla figura ormai leggendaria di Jack lo Squartatore) con intenti pedagogico-moraleggianti, come tutte le sue opere a cui, apertamente si richiama anche nella suddivisione per capitoli (gli incidenti) che hanno alcune caratteristiche iterative della berceuse del titolo originale.
Il protagonista Jack (Matt Dillon) è un serial killer, un nordamericano che vive nello Stato di Washington dove svolge la propria attività criminale (impunemente) da dodici anni, incapace di frenare le proprie ossessioni compulsive omicidiarie, nate dalle sue personali frustrazioni, ma favorite dal caso e dal singolare spirito collaborativo delle prime vittime che per qualche misteriosa ragione non ne avevano compreso le depravate intenzioni, sottovalutandone l’impostura, nonché le lusinghe seduttive. Egli è un ingegnere, architetto mancato, che, con delirante follia, aspira a costruire un edificio bellissimo e imperituro a testimonianza del proprio genio creativo, quello stesso del quale ha dato prova realizzando i suoi omicidi “da artista”, fissando nel gelo di una stanza-obitorio, per sempre, le espressioni dei volti, i corpi straziati, e mutilati e realizzando, come ogni vero artista, una sorta di equilibrio compositivo fra luci e tenebre, superando la precarietà degli umani riferimenti morali, insufficienti ad indicare la via della bellezza capace di sfidare la morte.
Senza il decisivo apporto delle oscurità tenebrose, gli interni delle cattedrali gotiche (suggestione ricorrente del film) perderebbero ogni fascino , così come senza l’azione spietata dei falciatori che distruggono, con le loro affilatissime lame, il rigoglio biondo delle messi mature, la bellezza del paesaggio estivo sarebbe destinata a deteriorarsi e a svanire.
Le oscure leggi del dolore e della morte sono dunque le condizioni per ogni rinnovarsi della bellezza e quindi della stessa rappresentazione artistica, mentre Lars von Trier, parrebbe, come artista, riconoscersi totalmente nel suo Jack. Il film nel corso della sua durata ci pone, come si vede, problemi e interrogativi molto seri, che non possono trovare facili risposte per due fondamentali ragioni: la presenza costante del registro ironico e beffardo che, connota anche i momenti più duri e inquietanti (i cinque incidenti) del film e l’irrompere improvviso e frequente di tableau vivants che si ispirano alla pittura romantica, nonché di “installazioni” e immagini macabre che richiamano la scultura e l’arte contemporanea e, che, suscitando orrore e meraviglia, non possono che generare in noi quel sentimento di ammirazione-repulsione che sempre i film di L.v.T suscitano. Anche questa volta, dunque, il regista mette in evidenza il gusto della provocazione colta, cifra di tutti i suoi film, e perciò anche di questo, che per il momento sembrerebbe il più estremo fra i suoi. È naturalmente possibile chiedersi, ma mi pare domanda oziosa, se questo suo cinema possa proseguire a lungo su una strada così esposta alla deriva del cinismo disgustoso, ma, in attesa del futuro imprevedibile, dobbiamo rimanere nell’ambito dei film già noti e su questi esprimere il nostro giudizio.
Jack incarna dunque metaforicamente l’artista pazzo, maledetto e detestato dai benpensanti che non vogliono ammettere il vero, ma non è l’unico importante protagonista del film: lo affianca un alter ego, puro flatus vocis inizialmente, ovvero voice over di Verge (Bruno Ganz), che paternamente cerca, con pacata razionalità di indirizzarlo, e chiarirgli dubbi e interrogativi, per inverarsi infine nel personaggio del nuovo Virgilio che lo accompagnerà nella discesa agl’inferi, quel centro della terra dal quale occorre passare con tormentosa difficoltà per vedere la luce che promana dall’architetto supremo dell’universo, costruito inevitabilmente sull’opposizione luce-tenebra. È l’ultima sorpresa del film. la più emozionante (l’ultima apparizione sullo schermo di Bruno Ganz, breve ma magnificamente significativa) e anche la più fantasmagorica, per il susseguirsi ininterrotto di immagini straordinarie.
A mio avviso questo è uno dei migliori film di Lars von Trier, il più difficile e forse perciò il più odiato fra gli autori del cinema contemporaneo. Chi mi legge sa che questo regista danese è fra quelli che prediligo: riflettere sui suoi film costituisce per me un impegno intellettuale e culturale irrinunciabile ogni volta. Recensirlo è una fatica largamente ripagata quando mi riesce di mettere in luce la densità dei contenuti, scavando fra sottotesti, allegorie, simboli, fra splendori e orrori delle immagini, per farne emergere la weltanschauung che, come ho cercato di dire presentando il suo precedente Nynphomaniac (QUI) a cui faccio riferimento, è una visione negativa dell’esistenza, per sopportare la quale è fondamentale “Forget about Love” Non dalla depressione, dunque, che semmai ne è la conseguenza, ma dalla coscienza dell’inevitabilità della morte che porrà, prima o poi, fine alla nostra volontà di vivere e di godere, deriva il dolore che schiaccia l’umanità e che la pone di fronte alla scelta consapevole fra il piacere e l’amore, ovvero tra la bellezza eterna e l’ineluttabile dimensione temporale dell’esistenza.
Angela Laugier
Scritto il 24 marzo 2019 alle 11:18 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Il corriere" (di Angela Laugier)
Titolo originale: The Mule
Regia: Clint Eastwood
Principali interpreti: Clint Eastwood, Bradley Cooper, Laurence Fishburne, Michael Peña, Dianne Wiest, Alison Eastwood, Andy Garcia, Taissa Farmiga, Clifton Collins Jr., Jill Flint, Manny Montana, Noel Gugliemi, Katie Gill. – 116 min. – USA 2018.
Ancora un film con Clint Eastwood, che, alla vigilia dei novant’anni, è il vivo e vegeto protagonista del racconto che egli stesso dirige, interpretando da vecchio leone il personaggio di Earl Stone, l’incredibile corriere di questa storia, che, a quanto pare (ma è così importante?), è “una storia vera”. Fondamentale è invece la verità profonda del personaggio quale emerge a poco a poco, dopo la breve premessa del film, che ce lo presenta al lavoro. Earl era stato un vivaista, ma soprattutto un appassionato ibridatore dei suoi prediletti Hemerocallis, i fiori bellissimi, che durano un solo giorno, ma che paradossalmente assicurano la fioritura più lunga dell’anno, poiché la loro esile eppure robustissima piantina è una vera fabbrica di fiori a getto continuo. Earl ne commerciava ingenti quantità trasportando le pianticelle col suo vecchio pick-up lungo le strade americane durante le fiere; li esponeva; li forniva agli organizzatore dei convegni e delle feste. I guadagni gli erano sufficienti a sopperire alle necessità familiari, mentre non era sufficiente la sua presenza in casa.
La moglie (Dianne Wiest) e la figlia (Alison Eastwood) non lo vedevano mai: se non era in giro per i fiori, era alle adunate dei reduci della Corea, suoi ex commilitoni, oppure alle Convention del Partito repubblicano, a cui andavano le sue simpatie di uomo amante del proprio paese e delle individuali libertà. La moglie, perciò, lo aveva lasciato divorziando da lui, sostenuta dalla figlia.
Si profilavano per il futuro, però, momenti difficili: l’accelerazione impressa da Internet alle comunicazioni e al commercio avrebbe di lì a poco travolto anche lui, come tutti i bravi piccoli produttori di beni per il consumo di nicchia. Earl non era riuscito, infatti, a salvare quei suoi fiori bellissimi. Alla vigilia degli ottant’anni non aveva pensione, era solo e anche sfrattato per morosità dal suo vivaio, che dopo il divorzio era diventato la sua abitazione. Né, d’altra parte, era pensabile per lui vivere da pensionato, tranquillamente osservando dalla panchina di un giardinetto la vita degli altri, in attesa di morire, quando come trasportatore o come corriere avrebbe ancora guadagnato qualcosa per vivere: il suo glorioso pick-up, in fondo, era stato una bella risorsa.
Con quel catorcio del vecchio pick-up, in realtà, non avrebbe fatto molta strada come corriere; con quello nuovo, invece, così bello, lucido e nero, la sua vita era davvero cambiata. L’aveva acquistato grazie alle buste piene di dollari che i suoi discutibili (a dir poco) committenti gli facevano regolarmente trovare, dopo che aveva consegnato ai clienti quei borsoni che mai e poi mai egli avrebbe dovuto aprire; quei soldi (maledetti e subito, ma certo non pochi) gli avevano permesso qualche piacere ben più importante del nuovo pick-up: aveva mantenuto la promessa di pagare il proseguimento degli studi della nipotina, ricuperandone l’affetto riconoscente; aveva comprato e rimesso a posto il vecchio vivaio; aveva finanziato le organizzazioni dei reduci dalla Corea, e sostenuto le campagne repubblicane. A quei suoi committenti, trafficanti di droga, non pareva vero di aver trovato uno come lui: i capelli bianchi, lo sguardo diretto, il corpo sottile spesso tremante, come la sua voce, le frequenti deviazioni anarchiche rispetto al percorso prefissato, alla ricerca di qualche buon cibo, ne facevano un trasportatore insospettabile, che si guadagnava il rispetto e l’ammirazione persino dei poliziotti….
Non anticipo altro del racconto del film, ma posso dire che non sarebbe andata sempre così e, d’altra parte, nessuno, soprattutto a ottant’anni, potrebbe illudersi di vivere per sempre felice e contento: la durata della vita, come quella dei fiori, è quanto mai breve; le rifiorenze vanno accuratamente seguite e coltivate, prima di esservi costretti, dall’ apparir del vero, a interrogarsi sul senso della vita e su come la si è vissuta.
Il film, infatti, senza perdere il carattere avventuroso del racconto on the road, mette progressivamente in luce le implicazioni metaforiche che ne fanno una appassionata riflessione sulla vita e sulla morte, attraversata da una costante ironia, ciò che rende amabile e leggero tutto il racconto.
L’immagine che del proprio volto e del proprio corpo Clint ci offre, senza nascondersi, ci permette di cogliere, al di là dei segni dell’età, l’energia ancora vitale dell’uomo deciso a non lasciarsi morire senza offrire a sé qualche momento di gioia, sottolineato dalla musica che accompagna il viaggio e dal suo cantare, così “vero” da indurre a imitarlo persino i suoi committenti, quei farabutti che lo seguono a distanza.
Clint, perciò, offre a noi uno dei suoi “fiori” più belli, rendendo più morbidi i sentieri selvaggi dei suoi percorsi, smorzandone i contrasti attraverso una fotografia molto luminosa; ci fa spesso sorridere con indulgenza e ci sorprende con le citazioni dei grandi film del passato: i suoi e anche i film altrui, ciò che talvolta davvero ci spiazza. Non mi sarei aspettata, infatti, di riascoltare, in questo diversissimo contesto, e con un completo capovolgimento dei ruoli, il suo Earl (che, come gli era stato detto, tanto rassomigliava a Spencer Tracy), pronunciare le parole di ringraziamento del finale di Vincitori e vinti, il grande film sul processo di Norimberga diretto e prodotto da Stanley Kramer (1961), interpretato da un indimenticabile Spencer Tracy.
Attendo altri bei fiori!
Angela Laugier
Scritto il 17 marzo 2019 alle 19:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (2)
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Recensione del film "Copia originale"(di Angela Laugier)
Titolo originale: Can You Ever Forgive Me?
Regia: Marielle Heller
Principali interpreti: Melissa McCarthy, Richard E. Grant, Dolly Wells, Jane Curtin, Ben Falcone, Anna Deavere Smith, Stephen Spinella, Julie Ann Emery, Joanna Adler, Marc Evan Jackson, Jennifer Westfeldt, Christian Navarro
– 106 min. – USA 2018
Alla vigilia dell’assegnazione degli Oscar, forse perciò un po’ in ritardo, ecco un interessantissimo film, proprio ora nelle nostre sale. È un piccolo film americano (sorvolo sulla traduzione-spoiler del titolo che alla lettera dovrebbe essere: Potrai mai perdonarmi?), diretto dalla regista, poco nota, Marielle Heller: due film, qualche regia per la TV e ora questa biografia che ha incontrato molto successo in una piccola cerchia di cinefili per il carattere “scorretto” della vicenda, che non essendo né educativa, né “esemplare”, è proprio il contrario di ciò che in genere ci si aspetta da un “biopic”. Potrebbe riservare qualche sorpresa, questa notte a Los Angeles, con le sue tre “nomination”in vista dei premi: per la migliore attrice; per il miglior attore non protagonista; per la migliore sceneggiatura non originale.
La vicenda è tratta dall’autobiografia di una talentuosa scrittrice (1939-2014) sfortunata, depressa e solitaria: Lee Israel, nel film interpretata dalla magnifica Melissa McCarthy. La donna era nata a New York dove aveva studiato, si era laureata al Brooklyn College e dove aveva successivamente messo a frutto le sue notevoli qualità letterarie raccontando la vita di attrici o di personaggi famosi (Katherine Hepburn, Tallulah Bankhead, Estee Lauder e Dorothy Kilgallen), che aveva conosciuto di persona e intervistato. Il suo stile pungente e irriverente, specchio della sua personalissima concezione della vita e anche del suo non facile carattere stravagante e altezzosamente misantropo, per qualche anno le aveva garantito buoni guadagni, fin tanto che gli operatori del mercato editoriale le avevano voltato le spalle: il suo agente l’aveva licenziata lasciandola sola ad affrontare un futuro quanto mai incerto, perché nel paese delle opportunità, la povertà è una colpa intollerabile e l’anti-conformismo vero è un lusso fastidioso che non tutti possono permettersi. Alle personali difficoltà di comunicazione, per Lee ora si era aggiunta la depressione, nonché l’isolamento volontario nell’appartamento, un tempo prestigioso, dell’Upper East Side, che aveva ridotto ad antro così maleodorante e infetto da indurre a una precipitosa ritirata persino l’addetto alla disinfestazione. La sola compagnia di Lee era adesso quella di un vecchio gatto malato, insieme all’alcol da cui era diventata inseparabile.
Lungo la strada pericolosa dell’emarginazione sociale, in uno dei locali infimi della Grande Mela, Lee aveva incontrato Jack (un grandissimo Richard E. Grant) cocainomane, homeless, abituato da tempo a vivere di espedienti e di prostituzione, anche se gli piaceva dissimulare questi aspetti della propria esistenza dandosi l’aria dello snob, un po’ dandy. Lee e Jack, però, in fondo si somigliavano: entrambi falliti, sbandati, disillusi, quasi cinici, nonché omosessuali, ciò che rendeva impossibile qualsiasi storia di sesso fra loro. L’occasionale conoscenza si era trasformata presto in un sodalizio criminale e criminogeno, perché se da una circostanza del tutto casuale era nata in Lee la convinzione che fosse possibile guadagnare molto denaro falsificando lettere e documenti di personaggi famosi, era stato Jack, successsivamente, ad alimentare con la propria esperienza truffaldina quella fruttuosa attività, estendendo la rete organizzativa della distribuzione dei falsi e modificandola, quando ormai il sospetto che dietro le carte “preziose” si nascondesse un’abilissima mente criminale era arrivato fino ai funzionari dell’F.B.I. che in brevissimo tempo ne sarebbero venuti a capo….
Il film non è privo di difetti, poiché non sempre il racconto è veloce e spigliato come si richiederebbe; riesce tuttavia nell’intento, non facile, di raccontare una storia drammatica, mantenendo la commossa e idulgente partecipazione degli spettatori, grazie soprattutto alla finezza dell’interpretazione di Melissa Mc Carty, che si rivela attrice superba, infaticabile nel tratteggiare le più segrete e delicate sfumature dell’anima grande di una scrittrice amaramente disillusa, incapace di trovare l’ equilibrio fra i propri generosi ideali, puntualmente frustrati, e la realtà durissima della vita in una società che stava, già negli anni ’90, riducendo a merce indifferenziata sia le aspirazioni più nobili, sia le più ignobili cattiverie ideologiche. Di fronte a tanto qualunquismo morale, le piccole strategie truffaldine della povera Lee Israel diventano davvero compassionevole cosa! Un bel film, per riflettere non solo sull’arte!
Angela Laugier
Scritto il 10 marzo 2019 alle 20:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Green Book"(di Angela Laugier)
Regia: Peter Farrelly
Principali interpreti: Viggo Mortensen, Mahershala Ali, Linda Cardellini, Sebastian Maniscalco, P.J. Byrne, Dimeter D. Marinov, Don Stark, Brian Stepanek, Iqbal Theba, Tom Virtue, Ricky Muse, Joe Cortese, Daniel Greene, – 130 min. – USA 2018
I primi anni ’60 negli Stati Uniti erano quelli della presidenza di John Kennedy e delle difficili battaglie del Partito Democrarico per l’abolizione delle discriminazioni razziali, diffuse soprattutto negli stati del profondo Sud, nei quali il pregiudizio nei confronti dei neri non solo era più che mai radicato, ma era addirittura legittimato dai governatori locali.
In quegli anni a New York viveva il musicista afroamericano Don Shirley, uno dei più importanti compositori dell’epoca, le cui musiche, bellissime e molto apprezzate nascevano dalla profonda conoscenza della musica classica, che elaborava con sensibilità contemporanea, per eseguirle, con virtuosismo pianistico senza pari, insieme al bassista e al violoncellista, entrambi di origine est-europea, con i quali aveva dato vita a un prestigioso trio.
Il film, biografico, ricostruisce il viaggio del trio quando, nel 1962, i musicisti si erano mossi da New York su due auto, diretti, per una tournée, verso gli Stati del Sud razzista e segregazionista. A portata di mano, sulla lussuosa Cadillac di Don, nel film Doc, il Green Book, ovvero l’indispensabile guida per viaggiatori neri che conteneva l’elenco degli hotel, dei ristoranti e, in genere, di tutti i locali in cui sarebbero stati accolti e accettati senza problemi. Alla sua consultazione era addetto Tony, l’autista.
Shirley e il suo autista - Doc (Mahershala Ali) non era solo un grande musicista: era anche un uomo di vasta cultura, che viveva in una grande casa luminosa di Manhattan, silenziosa e piena di oggetti che ne rivelavano il raffinato esotismo. Tony “Lip” Vallelonga (Viggo Mortensen), il suo autista. era un oriundo italiano, buttafuori appena licenziato dal locale notturno. Ora, in questo momento difficile, si stava inventando gli espedienti più fantasiosi e cialtroni per tirare avanti, facendo sopravvivere la famiglia. L’offerta di Doc era allettante per lui, che tuttavia non si nascondeva le difficoltà la prima delle quali, sebbene non apertamente dichiarata, era il pregiudizio razzista duro a morire, anche nella civile N.Y (Bronx): Toni avrebbe evitato volentieri di servire un nero, tanto più se ricco, colto, un po’ snob e dai modi educati, proprio lui che della propria ignoranza caciarosa e sguaiata si vantava e si compiaceva; così come avrebbe preferito non lasciare a casa, per otto lunghi mesi (la durata della tournée), moglie e figli.
Durante il rocambolesco viaggio, insidioso per Doc, continuamente oggetto di sospetti, violenze e sopraffazioni razziste, largamente messe in conto prima di partire, Tony aveva reagito con i suoi modi spicci e irriflessivi, talvolta utili, più spesso dannosi e forieri di guai, mentre il rapporto servo – padrone da racconto picaresco, diventava un’amicizia vera, in cui i due imparavano un po’ alla volta a stimarsi e ad adattarsi l’uno all’altro, smussando le rispettive asperità e aprendo il cuore e la mente alla tolleranza ironica e alla piena accettazione reciproca. Mi è sembrato questo il vero tema del film, che evita il rischio di cadere nella caratterizzazione spinta dei due personaggi (che avrebbe potuto trasformarlo in un film di bassa comicità), così come evita la loro contrapposizione a scopo “educativo” (che lo avrebbe reso insopportabilmente serioso), mantenendo un tono medio e tranquillo, che suscita il sorriso, lo sdegno e la partecipazione affettuosa degli spettatori. Un buon film, girato con misura ed equilibrio, con attori splendidi; un on the road che, come si conviene, è un vero viaggio di conoscenza e di formazione dei protagonisti; un racconto destinato a piacere a un largo pubblico, senza essere volgare o facilone. Naturalmente, da vedere.
Scritto il 03 marzo 2019 alle 23:15 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film: La Favorita" (di Angela Laugier)
Titolo originale: The Favourite
Regia: Yorgos Lanthimos.
Principali interpreti: Olivia Colman, Emma Stone, Rachel Weisz, Nicholas Hoult, Joe Alwyn, James Smith, Mark Gatiss, Jenny Rainsford, Jack Veal, Jon Locke – 120 min. – Grecia 2018.
Dopo averci abituati alle distopie bizzarre dei suoi film precedenti,Yorgos Lanthimos firma l’ultima pellicola, che gli fa riconquistare una larga parte di quel pubblico che, turbato e scontento, in seguito a Il sacrificio del cervo sacro, sembrava lo avesse abbandonato. Anche la critica, che aveva accolto con molto malumore quel film e si era divisa (soprattutto in Italia dove più facilmente le obiezioni diventano tifoseria astiosa), pare ora quasi unanimemente essersi riconciliata col suo cinema.
Questa volta il regista greco ha girato La Favorita (terzo film in lingua inglese) senza l’apporto dell’inseparabile sceneggiatore Efthimis Filippou, utilizzando la sceneggiatura, già esistente ma in attesa di regista, di Deborah Davis, cui egli ha affiancato Tony McNamara.
Ne è risultato un sontuoso film storico in costume, con tanto di castello, regina, corte e cortigiani sullo sfondo dell’amena e verdissima campagna inglese, come ci si attende in questi casi, ma che in realtà è un film ancora una volta spiazzante e per molti aspetti sgradevole, come ci si attende da Lanthimos.
I fatti raccontati sono ambientati ai primi del ‘700, durante l’ennesima guerra tra la Francia di Luigi XIV e la Gran Bretagna in crisi dinastica, poiché la matronale regina Anna Stuart (Olivia Colman), dopo diciassette inutili gravidanze, non era riuscita ad assicurare l’erede al trono e ora viveva depressa e malata, esercitando di mala voglia le proprie prerogative regali, incerta fra la pretesa autoritaria di farsi obbedire dai sudditi senza discutere e la volontà di compiacere i cortigiani più servili del partito dei Tory di cui era segretamente portavoce Sarah Churchill (Rachel Weisz), la sua favorita. Sarah, assecondando i capricci e le inclinazioni saffiche di Anna, riusciva a influenzarne le decisioni politiche, spingendola ad autorizzare maggiori finanziamenti alla guerra in corso e anche a reprimere il malcontento che arrivava dai contadini e dai proprietari della terra.
A contendere il suo primato nel cuore e nella mente della regina, era arrivata a corte la graziosa e giovane Abigail (Emma Stone), una cugina decaduta e ridotta in miseria, che sulla propria pelle aveva sperimentato le umiliazioni degradanti che le donne povere erano costrette a subire dai maschi del tempo, fossero nobili o contadini.
Ben fiera della propria appartenenza di classe, la giovane era decisa a risalire nella considerazione sociale e a riconquistare, grazie alla regina, un ruolo degno di lei, nobile per nascita ed educazione, che aveva imparato a rispondere alle sciagure e alle violenze difendendosi, senza troppi complimenti, dalle pretese maschili, e a vincere le proprie battaglie senza molti scrupoli. La rivalità fra le due donne per assicurarsi il favore di Anna Stuart aveva, perciò, presto assunto, oltre che la coloritura politica dello scontro fra il partito della guerra e quello della trattativa con la Francia, anche le connotazioni di uno scontro senza esclusione di colpi.
Il film
Nelle immagini del film si possono cogliere compiutamente le inconfondibili impronte del regista, che, evitando la narrazione storico-politica della lotta per il potere (qui al femminile), più volte rappresentata al cinema e a forte rischio mélo, ci rivela, con spietata e sarcastica cattiveria, le ingiustizie e l’orrore celati dallo sfarzo un po’ kitsch che ricopre le severe architetture degli interni elisabettiani: i soffitti con le loro decorazioni in gesso, i saloni straripanti di arazzi, quadri e oggetti di pregiata fattura con funzioni inimmaginabili (un vaso d’argento raccoglie il vomito; le raffinate decorazioni di un paravento celano gli inconfessabili divertimenti sessuali di un nobile che ignudo e imparruccato si fa colpire da arance; la biblioteca ricca di volumi, che diventano corpi contundenti nelle mani di Sarah per colpire la propria rivale, ovvero l’unica persona, in quella corte, interessata a leggerli..)
Assegnando loro un’analoga disturbante funzione, Lanthimos fa muovere nei bellissimi e accurati giardini gli animali da cortile, nonché, talvolta, nella stanza della regina i 17 coniglietti (abitualmente in gabbia) che nella sua mente disturbata e sempre più manipolata da chi decideva al suo posto, sono l’equivalente simbolico dei figli perduti, mentre nell’amena e verdissima campagna che circonda il bosco attraversato dalle carrozze dirette alla reggia, facilmente ci si imbratta sprofondando nello sterco che lorda calzari e vezzose crinoline…
Il regista fa larghissimo uso del grandangolo per rappresentare dall’alto spazi dilatati e distorti nei quali i volti e i corpi appaiono deformati in una caricatura feroce, che sembra ricordare i “mostri” di Goya, o la livida umanità di Egon Schiele. Numerose le citazioni cinefile: dal cinema grottesco di Luis Buñuel, a quelle da Kubrick. A Barry Lyndon ci riporta, oltre che l’illuminazione a lume di candela degli interni, l’apparente serenità della campagna verde; a Shining l’angoscia inquieta della mente di Anna assediata dai fantasmi.
La stupefacente colonna sonora, (in cui alla musica barocca fanno da contrappunto ripetuti effetti distorsivi perfettamente funzionali a rendere spiazzante la pellicola e ad accrescere lo straniamento dello spettatore) e la superba performance di Olivia Colman contribuiscomo a rendere estremamente interessante il film, sicuramente da vedere.
Applauditissimo a Venezia, dove ha ottenuto il Leone d’argento per la miglior regia e dove la grandissima Olivia Colman ha ricevuto la coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, il film è candidato a dieci Oscar, come Roma di Cuaron: sarà una bella sfida.
Angela Laugier
Scritto il 24 febbraio 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "La douler" (di Angela Laugier)
Regia: Emmanuel Finkiel
Principali interpreti: Mélanie Thierry, Benoît Magimel, Benjamin Biolay, Shulamit Adar, Grégoire Leprince-Ringuet, Emmanuel Bourdieu, Anne-Lise Heimburger, Patrick Lizana, Joanna Grudzinska, Caroline Ducey – 127 min. – Francia, Belgio, Svizzera 2017
1944 – Nella Parigi occupata dai nazisti viene arrestato Robert Antelme, uno dei più attivi militanti politici antinazisti che insieme ad altri intellettuali aveva costituito una cellula di Resistenza contro gli invasori e contro il regime collaborazionista di Vichy.
L’uomo era il marito di Marguerite Duras (1914–1996), la famosa scrittrice che dei fatti di quell’anno, così legati alla storia della Francia e alla propria storia personale, aveva tenuto un diario, ritrovato da lei stessa tra le carte alcuni decenni dopo, e diventato nel 1985 il romanzo La douleur.
Il film
Il regista Emmanuel Finkiel racconta, come voce fuori campo nelle primissime scene del film, del ritrovamento di quelle pagine dimenticate, e si fa garante, anche attraverso un fugace ricordo della propria simile storia familiare, della loro veridicità storica: la scrittrice, nelle pagine di La douleur aveva narrato, nella sua prosa personalissima, gli ultimi mesi dei Tedeschi a Parigi; l’arrivo della flotta aerea alleata, di cui gli antifascisti seguivano, anche attraverso Radio Londra, il progressivo avanzare dalla Normandia, e soprattutto, la estenuante attesa del ritorno dei prigionieri dai campi di concentramento.
Fedele al romanzo, dunque, la storia è vista dagli occhi di Marguerite Duras (la bravissima Mélanie Thierry), protagonista della profonda riflessione sul dolore, tema centrale del film, che le sue stesse parole ci comunicano, ciò che lo rende particolarmente suggestivo, a patto di vederne la versione originale, sottotitolata: il modo migliore per cogliere, ascoltandola, la musica poetica della sua bellissima prosa, che è lucidissima e insieme molto appassionata, poiché ne riflette sia l’indicibile e lacerante angoscia, sia l’incertezza e la trepidazione per la sorte di Robert, nonché il senso di colpa per averlo tradito con Dyonis Mascolo (Benjamin Biolay), l’amico impegnato come lui nell’organizzazione antinazista, mentre diventa sempre più evidente la preoccupazione ansiosa dei compagni *di Robert Antelme, che dopo il suo arresto erano maggiormente in pericolo ed erano stati costretti ad aumentare la vigilanza per evitare che qualche involontaria imprudenza li esponesse all’arresto, alla tortura e alla deportazione.
La prima parte del film ci parla dei tentativi molto rischiosi di Marguerite, di conoscere la sorte del marito incontrando un funzionario francese, Pierre Rabier (da Benoît Magimel interpretato magnificamente), addetto, per volontà del governo di Vichy (e perciò al servizio della Gestapo), all’ordine interno: piccolo uomo senza qualità, meschino nell’invidia sociale degli intellettuali affermati a cui vorrebbe rassomigliare, perfetto esemplare della banalità del male e dei malvagi di cui aveva parlato la Arendt,.
Gli incontri avvenivano nei ristoranti frequentati dalla media e piccola borghesia reazionaria e portavano inevitabilmente il segno dell’ambiguità: mellifluo, goffamente galante, lusingato dalle attenzioni di una scrittrice, Rabier promette ma non mantiene, allude ma sostanzialmente minaccia ed è un vile pronto a fuggire insieme agli altri collaborazionisti e all’esercito occupante che, finalmente sconfitto, ora arrotolava le ingloriose bandiere, nel tripudio delle persone per bene. Lo strazio dell’attesa, il dolore e l’angoscia, però avevano messo in forse la salute psico-fisica di Marguerite, che, delusa a ogni nuovo arrivo dei superstiti dell’orrore concentrazionario**, viveva in una dimensione di torpido sfinimento tra incubi e allucinazioni che sempre meno distingueva dalla realtà. Era arrivato, infine, tra gli ultimi e moribondo il povero Robert: un uomo che le sciagure avevano profondamente trasformato, irriconoscibile nell’aspetto e nel profondo del cuore, che Marguerite non avrebbe più amato.
La regia di Finkiel non sempre convincente, ma nell’insieme non priva di efficacia, riesce nell’audace scommessa di mantenere la grandezza e la poesia del romanzo, senza venir meno all’imperativo categorico del cinema: raccontare per immagini. Lo fa abolendo il controcampo e mantenendo sempre in primo piano Marguerite, nonché, quando occorre, sfocando digitalmente gli sfondi e i personaggi in maniera graduale, fino alla loro riduzione a ombra significativa, secondo il probabile modello dell’ungherese László Nemes.
Un film da vedere.
*fra essi anche François Mitterand, sotto il falso nome di François Morlan e interpretato nel film da Grégoire Leprince-Ringuet
**Il senso di angoscia allucinatoria e impotente erano presenti in molti che si erano illusi nel ritorno dei parenti a lungo attesi e che ora non si rassegnavano alla nuova realtà francese che aveva cancellato troppo in fretta il dolore per tornare a vivere in fretta, senza fare i conti con le colpe che avevano reso possibile la tragedia.
Angela Laugier
Scritto il 10 febbraio 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film: IN GUERRA (di Angela Laugier)
Titolo originale: En guerre
Regia: Stéphane Brizé
Principali interpreti: Vincent Lindon, Mélanie Rover, Jacques Borderie, David Rey, Olivier LemaireIsabelle Rufin, Bruno Bourthol, Sébastien Vamelle, Valérie Lamond, Guillaume Daret, Jean Grosset, Frédéric Lacomare, Anthony Pitalier, Séverine Charrie – 105 min. – Francia 2018.
Presentato a novembre nelle nostre sale e dalle medesime assai presto uscito, l’ho miracolosamente ripreso al volo e in lingua originale, grazie alla breve riproposizione del cinema Massimo di Torino (Museo del Cinema).
La vicenda in breve e il film
Nel cuore della Francia di oggi (Nuova Aquitania) più di mille lavoratori della Perrin, fabbrica dell’indotto automobilistico ad alto contenuto tecnologico, sono impegnati a difendere il posto di lavoro, messo in forse dalla direzione dell’azienda che ha sede in Germania, di cui lo stabilimento francese è parte organica. Dalle parole del sindacalista Laurent (Vincent Lindon, magnifico) apprendiamo subito che i motivi dello scontro vanno ricercati nella disdetta padronale dell’accordo, sottoscritto dalle due parti in conflitto due anni prima, quando i lavoratori, pur di difendere la sicurezza del posto di lavoro, avevano rinunciato, per cinque anni a qualsiasi rivendicazione salariale, con un sacrificio non piccolo, che non avrebbe impedito purtroppo alla proprietà tedesca di chiedere la chiusura della sua filiale francese, in crisi di mercato.
Questo bel film è la storia di una vera e propria guerra, vissuta dagli spettatori in presa diretta fin dalla prima scena, nella quale la presenza dei giornalisti e della TV ai colloqui fra i sindacalisti e i dirigenti dell fabbrica assume il valore indicativo della scelta narrativa del regista: la cronaca, che presto penetra, tuttavia, al di là degli aspetti documentari e giornalistici, per parlarci di quegli aspetti che spesso sfuggono alla frettolosa narrazione dei fatti. Se, infatti, al centro del film è lo scontro aspro fra antagonisti classici della storia occidentale degli ultimi due secoli (e anche di una parte della storia del suo cinema), il regista coglie, in tutta la loro durezza, gli elementi di novità che potrebbero rendere insanabile il conflitto, mostrandoci, attraverso i personaggi e le loro parole i caratteri connotativi delle classi in lotta: da una parte l’anarchismo sempre più arrogante, mascherato dal bon ton di facciata e dal bla bla dei luoghi comuni duri a morire, dei neo-liberisti internazionali, riottosi a riconoscere l’urgenza di mediazioni che ne limitino lo strapotere; dall’altra, attraverso le divisioni all’interno del sindacato, l’inesistenza palese di una strategia capace di proporre soluzioni alla nuova sfida della globalizzazione non ricorrendo soltanto alle armi spuntate e subalterne della rivendicazione e degli slogan, inutilmente urlati dall’onesto e generoso Laurent Amédeo. Egli inoltre evidenzia, attraverso l’imbarazzo balbettante delle autorità politiche, l’inadeguatezza del potere pubblico a farsi portatore di proposte capaci di sbloccare situazioni apparentemente senza uscita, restituendo ai più deboli qualche speranza e qualche ragione per vivere.
Stephan Brizé affronta, dunque, ancora il tema del lavoro e della sua precarietà nel mondo globalizzato, dopo aver fatto uscire qualche anno fa La legge del mercato (2015), con lo stesso attore di allora, Vincent Lindon, senza indugiare (lodevolmente) questa volta, però, sugli aspetti privati e patetici della vita del protagonista. Ci offre, in tal modo, con questo durissimo e tragico film, numerose occasioni di riflessioni sul nostro presente e sul futuro probabilmente non roseo che attende le prossime generazioni.
Da vedere e meditare!
Angela Laugier
Scritto il 03 febbraio 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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SUSPIRIA: qualche estemporanea riflessione a proposito del film di Dario Argento, del remake di Luca Guadagnino e una premessa indispensabile: non volendo rovinare la visione di chi non ha ancora visto i due film, o uno solo dei due, non accennerò che molto brevemente alla vicenda che raccontano. (di Angela Laugier)
Sebbene non abbia mai amato particolarmente il genere horror, ho atteso con un po’ di impazienza di vedermi il rifacimento di Luca Guadagnino del celeberrimo Suspiria, opera fra le più apprezzate di Dario Argento. Di Argento avevo visto, da giovane, un buon numero di film, incuriosita non poco dalla insolita ambientazione torinese di molti di essi, diventata ai nostri giorni oggetto di culto nella mia città, testimoniato addirittura dai percorsi turistici per cinefili argentiani. Non mi ponevo, vedendole anni fa, il problema se queste pellicole fossero o no capolavori: il mio interesse nasceva infatti, come ho detto, soprattutto da curiosità. Al regista riconoscevo, tuttavia, un’abilità non comune, quasi geniale, nel creare inconfondibili atmosfere di tensione sullo sfondo di luoghi a me molto familiari, ma quei suoi film, così aggressivamente spaventosi e inquietanti, erano talmente lontani dal “mio” cinema, che non ne avevo mai considerato l’aspetto autoriale: di lì a poco li avrei abbandonati senza molto ripensarci, non avendoli mai molto amati.
Confesso, con un po’ di imbarazzo, pertanto, che solo da poco tempo ho visto Suspiria e che, nonostante continui a ritenerla un’ opera lontana da me, ho voluto ancora rivederla prima dell’uscita del remake, per cogliere l’originalità delle scelte registiche di Luca Guadagnino. Numerose opinioni di critici e di giornalisti, che ne avevano apprezzato l’anteprima veneziana qualche mese fa, sostenevano d’altronde l’assoluta diversità delle due opere, cosa quasi ovvia, data la diversa personalità dei due registi.
In realtà Guadagnino mantiene la sceneggiatura del film di Dario Argento, modificandone la location (Berlino, non Friburgo) e la collocazione temporale, che riporta la vicenda della scuola di danza e delle streghe che la dirigono, nonché l’arrivo della studentessa Suzy dagli Stati Uniti, in una piovosa notte piena di molte paurose stranezze, agli anni ’70, quando nella claustrofobica e grigia Berlino Ovest, isolata dalla Germania orientale per la presenza del muro, si scatenava l’azione di protesta paramilitare, con i numerosi episodi di guerriglia urbana e di terrorismo organizzati dalla RAF (banda Baader-Meinhof).
Al centro del remake Guadagnino colloca, inoltre, la figura di uno psicanalista ebreo, il dottor Kemperer, fuggito dalla Germania delle leggi razziali, che, vissuto nella speranza di rivedere la moglie amatissima, scopre ora di non averla salvata (per fiduciosa leggerezza) dall’internamento nei campi nazisti, dove la poveretta aveva trovato la morte. Ora è un vecchissimo signore che medita lacanianamente sull’origine del male e sulla colpa, sulla propria individuale responsabilità, oltre che su quella dei nazisti. Suzy è una sua paziente, come lo era la studentessa Patricia, sparita misteriosamente la notte del suo arrivo alla scuola di danza diretta da Madame Blanc, interpretata qui da un’ambigua Tilda Swinton (era Alida Valli la Madame Blanc di Dario Argento, donna di indiscutibile perfidia, dall’espressione dura e cattiva).
Guadagnino cerca dunque di inserire elementi di disturbo e di incertezza nella fiaba lineare di Dario Argento che era stato attento, da bravo narratore di fiabe, a separare buoni da cattivi e bene da male, in modo da favorire attraverso l’orrore per il male e per i cattivi (le cattive in questo caso) l’identificazione morale degli spettatori. I riferimenti storico-politici e culturali di questo remake depotenziano gli effetti paurosi e orrorifici dell’originale, senza trasformarlo davvero in un film politico o storico, che non pare essere nelle corde del regista. Rimane un discreto e accurato rifacimento del vecchio film, un po’ complicato e nebuloso nel finale, come i cieli di Berlino, ma formalmente elegantissimo, apprezzabile per l’intelligenza delle numerose citazioni (da Fassbinder a Von Trier), nonché per la complessità della colonna sonora e per la bravura delle interpreti (strabiliante la Swinton), ma, oltre a suscitare pochi brividi negli spettatori, lascia l’impressione di un film velleitario e un po’ deludente, soprattutto per chi, come me, aveva molto apprezzato il regista di "Chiamami col tuo nome".
QUI un’intervista di Dario Argento non priva di polemica nei confronti del remake del suo film, ma sostanzialmente condivisibile
Interpreti: Dakota Johnson, Tilda Swinton, Mia Goth, Lutz Ebersdorf, Jessica Harper – 152 min. – USA, Italia 2018
Angela Laugier
Scritto il 13 gennaio 2019 alle 12:20 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (3)
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Recensione del film "Il gioco delle coppie" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Doubles vies
Regia: Olivier Assayas
Principali interpreti: Guillaume Canet, Juliette Binoche, Vincent Macaigne, Nora Hamzawi, Christa Théret, Pascal Greggory, Laurent Poitrenaux, Sigrid Bouaziz, Lionel Dray, Nicolas Bouchaud, Antoine Reinartz – 100 min. – Francia 2018.
Il titolo italiano è, al solito, fuorviante, ma il film, se non vi lasciate ingannare, è un’occasione intelligente per riflettere sorridendo
Il titolo italiano, forse, si propone di attrarre chi cerca una commedia piccante, ma è del tutto fuori luogo per quest’ultimo film di Olivier Assayas, il sofisticato regista francese che con i suoi personaggi, questa volta ci parla dei problemi che stanno nascendo per il mutamento velocissimo della tecnica della comunicazione. Internet, infatti, ha favorito non solo la velocità della posta e delle transazioni commerciali, ma, soppiantando completamente i lenti modi utilizzati da secoli per divulgare il pensiero e la scrittura, ha messo in crisi il mondo degli editori, figure professionali, forse in via di estinzione, mediatori indispensabili, fino a ieri, fra le esigenze del mercato librario e quelle della libertà dell’esprimere e del creare. In questo film, intelligente e spiritoso, Assayas ci fa entrare subito nel cuore del problema: un editore, Alain (Guillaume Canet), uno scrittore Leonard (Vincent Macaigne), molte discussioni, amabili e chic, come si conviene a intellettuali di buona cultura e un po’ nostalgici dei tempi in cui gli editori sceglievano i loro autori avendo ben presente il loro pubblico, secondo una prassi consolidata, ora travolta dalle opportunità offerte dal web, luogo per eccellenza degli scrittori “fai da te”. Le donne del film, a loro volta intelligenti e colte, sembrano essersi adattate un po’ meglio all’evolversi dei tempi: la moglie di Alain, Selène (Juliette Binoche), già attrice shakespeariana, si è da tempo rassegnata a interpretare ruoli molto meno prestigiosi, recitando per i serial televisivi la parte di donna poliziotto, orribilmente travestita; la moglie di Leonard, Valérie (Nora Hamzawi), è segretaria di un uomo politico di sinistra e lo aiuta nella corsa elettorale, quanto mai incerta, perchè anche nella società è penetrato il virus dei social network e anche i politici sono soggetti ai Like e al narcisismo degli incompetenti. Chi, invece, non nutre alcun dubbio sulle magnifiche sorti e progressive del futuro virtuale è la giovanissima segretaria-amante di Alain: Laure (Christa Théret) ottimista come è giusto che sia una giovane donna che ha studiato a fondo il problema e che si impegna per inventare soluzioni alle difficoltà crescenti, senza riserve nostalgiche, ma animata da profonda fiducia nel futuro, senza la quale, non restano che i rimpianti sterili e una battaglia di retroguardia sicuramente perdente. Il bel finale sorridente sembra ridestare, anche nei personaggi più disillusi, un po’ di speranza, trasmettendola, come mi auguro, agli spettatori. Grandissimi gli attori, credibilissimi nella parte difficile che il regista ha voluto assegnare loro, in questo suo ultimo film talvolta surreale nel gioco tragi-comico del rispecchiamento narcisistico che spesso lo rende spiazzante e non tra i più facili: non per tutti, perciò.
Scritto il 06 gennaio 2019 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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Recensione del film "Cold War" (di Angela Laugier)
Titolo originale: Zimna wojna
Regia: Pawel Pawlikowski
Principali interpreti: Joanna Kulig, Tomasz Kot, Borys Szyc, Agata Kulesza, Cédric Kahn, Jeanne Balibar, Adam Woronowicz, Adam Ferency, Jacek Rozenek, Martin Budny – 85 min. – Polonia 2018
“Ogni grande amore reca con sé il pensiero crudele di uccidere l’oggetto dell’amore così da sottrarlo una volta per tutte al giuoco perverso del mutamento: perché l’ amore ha ribrezzo del mutamento più ancora che della distruzione” – F. Nietzsche – Umano, troppo umano
L’amore appassionato fra i due protagonisti del film era nato sullo sfondo della Polonia smembrata, ridotta in macerie e costretta nell’orbita dei paesi satelliti dell’Unione Sovietica, dopo la II guerra mondiale. In un pesante clima di diffidenza, Viktor, direttore della Scuola di Musica e di canto popolare, percorreva le campagne su un camion alla ricerca delle ricche tradizioni folkloriche del paese e di giovani talenti del canto e della danza che fossero in grado di farle rivivere nel clima politico nuovo*.
Si erano incontrati in quelle circostanze, Zula (Joanna Kulig) bionda e giovane, dal volto delicato, dalla voce meravigliosa e dal passato oscuro e Viktor (Tomasz Kot), molto meno giovane, pensoso, dal dolce sorriso malinconico. Si erano piaciuti subito, e molto presto amati appassionatamente. Il colpo di fulmine era stato di quelli destinati a resistere anche ai momenti difficili (non pochi), alle lusinghe e alle minacce del potere, nonché alle lunghe separazioni imposte dalla lontananza. Lui, poco interessato al folklore tradizionale, si era trasferito in esilio volontario a Parigi, per coltivare le proprie aspirazioni di jazzista; lei, che non si era sentita di seguirlo, era rimasta in patria per diventare, trascinata dal successo, una star di prima grandezza, in grado di farsi apprezzare in Polonia come a Mosca, ma anche in tournée: a Berlino; sulla costa dalmata o nella stessa Parigi.
Lo spostarsi di Zula offriva alla coppia l’occasione per rivedersi e per rinnovare la passione, che conosceva anche i momenti duri dello scontro e dell’odio, inevitabili per la diversità della cultura e delle aspirazioni, ma soprattutto per la natura totalizzante dell’amore vero e profondo che tende ad annullare l’altro come bene aveva intuito Nietzsche dal quale ho tratto la citazione dell’incipit. Il regista ce lo racconta per sequenze ellittiche relativamente brevi, lasciando che sia la nostra immaginazione a colmare il vuoto fra un incontro e l’altro, irrilevante a paragone dell’eccezionale continuità dolorosa di un amore che, nella tragica e magnifica conclusione, trova infine la dimensione, a lungo perseguita da entrambi, dell’eternità.
…Avez-vous perçu ce silence absolu qui résonne sur terre juste avant la tombée de la nuit? Seule une oreille tendue vers le rayonnement profond des êtres peut le capter, échappant aux bruits parasites. Ce qu’on appelle “un couple”, au sens inaccessible du terme, se forme lorsque deux personnes entendent ce rayonnement en chacune d’elles, réciproquement et dans le monde alentour. Personne d’autre ne peut s’y immiscer. (Julia Kristeva – da L’Horloge enchantée).
Il tema della passione amorosa fra estasi e tormenti è l’elemento di maggiore interesse del film: situazioni e personaggi sembrano evocare, con molta finezza, illustri precedenti cinematografici (alcune storie “nere”di Truffaut, la mitezza innocente di Karol Karol nel Film bianco di Kieslowski…), ma anche, probabilmente, letterari: lo sfuggirsi e il riprendersi; il riso e il pianto, l’odio e l’amore hanno remote radici nella poesia, nel teatro e anche nel melodramma, quasi sicuramente parte del background culturale del bravo Pawel Pawlikowski, che con quest’ultimo suo film, quest’anno, a Cannes ha ottenuto la Palma per la miglior regia.
Un bellissimo bianco e nero** e l’insolito formato 4:3 sottolineano la distanza nel tempo dei fatti raccontati, probabilmente ispirati a Pawlikowski da una storia di famiglia, che ai genitori, infatti, ha dedicato questo lavoro.
Nel film la musica assume varie funzioni narrative: quella folklorica avvia la storia degli amanti e scandisce i successi di Zula; il jazz che Viktor suona nelle cave di Parigi ne evidenzia il carattere malinconico e triste; infine, il rock di Elvis Presley, negli anni ’60, che scatena la danza della infaticabile Zula sul tavolo di un locale parigino, ci porta verso la fine di un’epoca, preparando la conclusione della storia del grande amore, favorito dal dopoguerra della povertà diffusa e delle illusioni. Gli interpreti, ottimamente diretti, lasciano in noi un’impressione profonda di verità, così come il film, a tratti disuguale, ma sicuramente bello, insolito e da vedere.
*1949- 1964: è il quindicennio in cui si svolge la storia del film.La seconda guerra mondiale era alle spalle, ma si stava profilando la realtà della guerra fredda fra l’Unione Sovietica e gli USA, di cui l’Europa, ridefinita nei confini nazionali, stava facendo le spese. L’Unione Sovietica seguiva con preoccupazione il risorgere delle nostalgie separatiste presenti in vasti territori polacchi, direttamente o indirettamente, finiti sotto la propria egemonia politica dopo la catastrofe bellica e cercava di ottenere, anche attraverso il ricupero delle tradizioni popolari, il consenso delle masse ostili.
**come nel suo precedente Ida.
Angela Laugier
Scritto il 30 dicembre 2018 alle 08:00 nella Angela Laugier, Cinema | Permalink | Commenti (0)
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