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Scritto il 10 luglio 2012 alle 10:30 nella Economia | Permalink | Commenti (2)
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Scritto il 09 luglio 2012 alle 18:55 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (0)
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L'intervento congiunto sui tassi di giovedì non è bastato a ridare fiducia alle Borse. L'euforia per il summit Ue è scomparsa in 48 ore. Ora occhi puntati sulla Fed. E sul motore bloccato da cui tutto parte: l'economia reale
(di Federico Rampini - Repubblica)
Crescita "anemica" in America col tasso di disoccupazione inchiodato all'8,2%. La Triplice delle banche centrali umiliata dai mercati. Il nodo delle banche spagnole torna a dominare le paure: ormai all'ordine del giorno c'è un salvataggio della Spagna come stato sovrano, non dei singoli istituti. Il Fondo monetario estende l'allarme per un rallentamento a tutte le ex-locomotive emergenti, dalla Cina all'India. Quattro colpi duri, quattro sviluppi nefasti in sole 48 ore.
La settimana si è chiusa in un clima completamente rovesciato rispetto all'euforia del 29: ogni illusione suscitata da quel summit Ue si è già dissipata da tempo. L'ultimo venerdì di giugno sembra una data lontanissima nella storia, per il ritmo convulso degli eventi. La realtà si è presa la sua rivincita, e dice che nulla è cambiato nell'eurozona otto giorni fa.
La Spagna per collocare tra gli investitori i suoi titoli del Tesoro è costretta di nuovo a offrire rendimenti vicini al 7%: cioè insostenibili nel medio-lungo periodo. Avevano ragione dunque quei "maligni" del fronte euroscettico angloamericano, dai grandi media Usa agli uffici studi delle banche di Wall Street e di Londra, che non credettero alla versione del trionfo di Mario Monti su Angela Merkel.
Lo scudo anti-spread si è già arenato di fronte alla minaccia di un veto della Finlandia e a quella - ben più sostanziale - della Csu bavarese che è parte della coalizione di governo a Berlino. Dunque non ci saranno i massicci e risolutivi acquisti di bond italiani e spagnoli per arginare l'escalation dei rendimenti. Peggio: neppure l'operazione-salvataggio delle banche spagnole va in porto come si era sperato e creduto al summit del 29.
La novità risolutiva in quel caso doveva essere la ricapitalizzazione diretta: fondi travasati dall'Europa alle banche stesse, senza passare attraverso il Tesoro di Madrid. Era indispensabile quel passaggio diretto, per spezzare "il circolo vizioso tra debiti bancari e debiti sovrani", così era stato spiegato a Bruxelles otto giorni fa. Chiaro: bisognava evitare cioè l'effetto perverso di un'esplosione del debito pubblico spagnolo, che è automatica se gli aiuti transitano prima sul bilancio dello Stato. E invece il "circolo vizioso" è vivo e vegeto, più funzionante che mai. Con una giustificazione iper-tecnicistica: l'attuale fondo salva-Stati Efsf non può ricapitalizzare direttamente le banche, potrà farlo solo il suo successore Esm quando sarà nato, in futuro.
Arrivarci, al futuro. La ragione vera è politica. Angela Merkel ha detto sì alla ricapitalizzazione diretta delle banche spagnole solo "dopo" che sarà creata una vera vigilanza europea su tutti gli istituti di credito. Richiesta logica e ragionevole. Ma i mercati hanno capito subito che ciò equivale a rinviare tutto verso orizzonti lontani: della vigilanza europea si parla da tempo, le resistenze nazionali sono enormi, quella European Banking Authority che doveva esserne l'embrione è una patetica e impotente caricatura.
La Bce di Mario Draghi ha le sue reticenze e riserve sull'argomento, per non essere in conflitto d'interessi chiede una separazione rigida, una "muraglia cinese" fra i due mestieri di prestatore di ultima istanza e di guardiano dei suoi "clienti" (i banchieri). Insomma ci vorranno ancora mesi, se non anni, perché qualcosa di concreto appaia. Nel frattempo gli investitori stanno suonando le campane a morto per la Spagna, i rendimenti che esigono per sottoscrivere i suoi bond la spingono inesorabilmente verso il default. Ora si torna a parlare di un vertice "risolutivo", stavolta è l'Ecofin di questo lunedì: ma ormai l'eurozona ha speso le ultime riserve di credibilità, a furia di evocare la sua "ultima spiaggia" forse ci sta arrivando davvero.
Il disastro dell'eurozona ha già contagiato ampiamente il resto del mondo. Non lo dice solo la direttrice del Fmi Christine Lagarde che ammonisce sul rallentamento generalizzato dagli Stati Uniti ai Brics. Lo dicono soprattutto le reazioni dei mercati al "giovedì della Triplice", la giornata in cui Bce, banca centrale inglese e cinese sono intervenute simultaneamente con tagli dei tassi d'interesse e pompaggio di liquidità d'emergenza. Un flop micidiale, un buco nell'acqua, che non ha ricostituito la fiducia neanche per pochi minuti.
Uno spettacolo d'impotenza disarmante, che si riverbera adesso anche sulla più potente e rispettata delle banche centrali, la Federal Reserve americana. Saprà essere efficace lei, dove le altre hanno fallito? Le attese di un intervento salvifico della Fed si sono rafforzate ieri, dopo un altro dato deludente sul mercato del lavoro americano. Appena 80.000 posti di lavoro in più, il saldo netto del mese di giugno fra nuove assunzioni e licenziamenti: pochi, troppo pochi per un'America che è uscita dalla recessione con 15 milioni di disoccupati (reali). E infatti con una crescita così debole il tasso di disoccupazione resta inchiodato all'8,2%, un record storico per un periodo così prolungato dal dopoguerra.La Fed ha il dovere istituzionale di agire contro la disoccupazione, questo ne ha sempre fatto una banca centrale più interventista e risoluta di altre. Ha anche interesse a non lasciare che s'indebolisca troppo l'euro, perché già ieri a quota 1,22 era avviato su un piano inclinato che non piace all'industria esportatrice americana. Ma la Fed è entrata da tempo nel suo "semestre bianco": il banchiere centrale Ben Bernanke deve meditare se gli convenga agire troppo energicamente quando manca così poco all'elezione presidenziale. Il 6 novembre potrebbe vincere il repubblicano Mitt Romney, che al momento del rinnovo dei vertici della Fed forse si vendicherebbe contro chi ha aiutato troppo Barack Obama.
Più ancora dell'elezione, un'altra angoscia esistenziale attanaglia Bernanke: e se la Fed dovesse fallire, come hanno fallito le sue consorelle dall'Europa alla Cina? Il tasso d'interesse negli Usa è già a quota zero: da tre anni e mezzo. Le precedenti operazioni di massiccia iniezione di liquidità hanno fornito una "droga leggera" a Wall Street e alle banche Usa, ma non hanno sostanzialmente rinvigorito l'economia reale.
La politica monetaria ha dei limiti, conosciuti fin da quando li studiò John Maynard Keynes durante la Grande Depressione. Esiste una "trappola della liquidità", nella quale la moneta viene inghiottita e scompare: se manca fiducia tra i consumatori e le imprese, il denaro può anche costare zero ma nessuno lo prende e lo spende. Draghi lo ha ricordato usando un'altra immagine: "Non si può spingere con una corda". Un suo predecessore alla Banca d'Italia, Guido Carli, aveva coniato l'espressione "il cavallo non beve".
Negli Stati Uniti uno studioso della Depressione come Bernanke ha immaginato ogni possibile "offensiva anti-convenzionale" fino a ipotizzare una Fed che manda elicotteri a lanciare banconote su tutti gli Stati Uniti: resta da verificare che i consumatori beneficiati dalla manna celeste la vadano a spendere, non a tesaurizzare per accumulare un risparmio precauzionale (o per ripagare i propri debiti). Il Fondo monetario evoca un altro Armageddon entro la fine dell'anno: nella stasi tra Obama e la Camera a maggioranza repubblicana, scatterebbero degli aumenti automatici d'imposte riducendo ulteriormente il reddito disponibile e il potere d'acquisto delle famiglie. È quello il motore bloccato su cui il Fmi attira l'attenzione: l'economia reale, a cui nessuno sta rifornendo il carburante.
(Federico Rampini)
Cos'altro aggiungere? Solo che purtroppo il mondo ha scarsa memoria. Davvero si pensava che la corsa dello spread si sarebbe fermata, quando già 24 ore dopo il trionfalismo del vertice economico la Merkel era già in giro a spiegare che - lei vivente - mai si sarebbe arrivati agli eurobond? E che il meccanismo anti-spread ci sarebbe stato, ma dopo aver fatto alcune piccole cosine che non si faranno mai? Davvero si pensava che la Merkel avrebbe rinunciato a farsi finanziare il debito pubblico dagli altri paesi?
Ma l'ultima follia è stata quella di aspettare come un toccasana la riduzione di un quarto di punto nei tassi s'interesse da parte della BCE. Bene ha fatto Rampini a ricordare ai distratti la celebre frase di Guiro Carli, "il cavallo non beve". Questa frase si riferiva sia agli investimenti che alle quotazioni di borsa, essendo le due cose collegate. Il "cavallo non beve" stava a significare che in presenza di una profonda, strutturale crisi della domanda, si può ancxhe regalare il danaro a tasso zero alle imprese: queste ugualmente non investiranno in nuovi impianti produttivi, destinati a produrre merci che i consumatori non comprano.
Rampini, uno dei pochi commentatori "forniti di memoria", certamente ricorda delle periodiche, continue discese a "tasso zero" del costo del danaro in Giappone. Ci sono state a metà degli anni ottanta, e poi nel '91, nel 2001, nel 2005, nel 2010... Niente da fare. Il cavallo non beve. Le monomaniacali politiche SOLO di bilancio della Merkel producono e chiedono agli altri paesi di produrre solo ulteriori cali di sicurezza, di reddito, di tassi di occupazione, di consumi, di domanda, e poi muovamente di calo di domanda di beni strumentali, in un circolo vizioso di cui non si vede la fine.
La festa dello spread dopo i clamori del 29 Giugno è durata meno di 48 ore. Il festino delle borse ancora meno. Il calo di un quarto di punto nei tassi della BCE ha fatto crollare di nuovo le borse. Davvero si pensava che abbassando di 0,25 punti i tassi d'interesse, l'economia avrebbe fatto come nello spot di Gatorade? "Gatorade, e riparti di slancio". Sembra che non sia "as simple as that"
A chi fosse interessato a capire la inutilità di certe iniezioni di viagra praticate a pazienti in coma vegetativo, consiglierei la lettura di questo articolo:
La continua crisi dell'economia giapponese - di Makoto Itoh
"...i mitici anni in cui il Giappone cresceva ad un tasso doppio rispetto alla media occidentale e si conquistava un primato in tutti i settori industriali di punta sono finiti da tempo. L’ultimo decennio ha visto l’economia giapponese immersa in una stagnazione quasi assoluta, prodotto dell’esplosione della immane bolla speculativa degli anni 80. Le contradditorie politiche neoliberiste applicate dagli ultimi governi a tutto servono tranne che a rimettere in moto il regolare meccanismo della crescita..."
Più avanti l'articolo parla delle ripetitive (e sempre inutili) politiche del "tasso zero" praticate nei decenni dal Giappone per uscire da una crisi che da tempo è sistemica:
"...per stimolare la domanda interna e alleviare le difficoltà del sistema bancario, la Banca del Giappone ha via via ridotto il tasso di interesse ufficiale dal 6% nel 1990 all’1,75 nel 1993, continuando ad abbassarlo ulteriormente fino al minimo storico dello 0,5% nel settembre del 1995, superato poi dallo 0,1% del settembre 2001. Ma le banche non sono riuscite ad usare le facilitazioni di credito offerte della Banca del Giappone per espandere le capacità di prestito dato che il valore del loro capitale continuava a diminuire..."
Makoto Itoh é docente di economia presso l’Universitá Kokugakuin di Tokyo nonché Professor Emeritus dell’Universitá di Tokyo. È nato a Tokyo nel 1936 e ha insegnato in svariate università estere. Fra le altre opere é autore di The Japanese Economy Reconsidered (2000), Political Economy of Money and Finance (1999), Political Economy for Socialism (1995), e The Basic Theory of Capitalism (1988).
Peccato che - essendo l'articolo del novembre 2002, non abbia fatto in tempo ad occuparsi degli altri due fallimenti di queste politiche: quello del 2005, e quello del 2010.
Adesso è proprio giunto il momento che l'Italia smetta di dire solo dei si, e cominci a far valere il potenziale ricattatorio (se vi piace chiamarlo così) di un paese al quale è stato consentito di accumulare da solo un quarto dell'indebitamento dell'intera area euro. E' la nostra debolezza, ma anche la nostra forza.
Come è noto, in un microsistema come può essere quello costituito dai rapporti fra una banca e un creditore, la banca è molto dura con chi ritarda il pagamento di una rata del frigorifero, ma è impotente di fronte ai grandi - e spesso inesigibili - crediti concessi ai grandi gruppi industriali. Portare alla bancarotta un grandissimo gruppo, significherebbe dover iscrivere di colpo a bilancio, fra le perdite, una cifra che fino al giorno prima era iscritta fra le attività. Se già il mondo è spaventato dal défault di un paesetto che produce solo yoghurt acido e formaggio pecorino, cosa succederebbe se un paese come l'Italia dovesse anche solo ipotizzare un suo dèfault controllato? L'Italia starebbe malissimo, ma la Germania della Merkel non scoppierebbe di salute. Tafanus
Scritto il 07 luglio 2012 alle 11:36 nella Economia, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (4)
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Finlandia e Olanda dicono no allo scudo anti-spread. I problemi dell'euro non sono ancora finiti? (di Vito Lops - IlSole24Ore)
I mercati azionari proseguono in rialzo dopo lo straordinario allungo di venerdì seguito alla conclusione (migliore del previsto) del Consiglio Europeo. Adesso gli operatori si aspettano una mossa della Banca centrale europea che il 5 luglio, come ogni primo giovedì del mese, si riunirà per orientare la politica monetaria. Cè chi ipotizza che Mario Draghi possa far scendere per la prima volta nella storia dell'euro il tasso di riferimento sotto l'attuale minimo storico dell'1%.
Le decisioni della Bce sono una delle prossime incognite su cui si interrogano investitori e risparmiatori. A questa si unisce il ruolo di Finlandia e Olanda nella partita a scacchi tra i 17 Paesi dell'area euro per rafforzare la moneta unica e l'area, rendendo meno vulnerabili i debiti sovrani.
Dal Nord Europa, infatti, questa mattina sono arrivate dichiarazioni che rischiano di indebolire l'efficacia dei risultati ottenuti nel vertice Ue in occasione del quale, tra le varie novità (unione bancaria europea con sorveglianza che passa alla Bce, Esm - meccanismo di stabilità permanente - con poteri di ricapitalizzare direttamente le banche, unione economica e pacchetto crescita da 120 miliardi), si è deciso di potenziare il ruolo del nascente Esm (inaugurato a luglio in sostituzione del fondo salva-Stati, con al momento una dotazione finanziaria da 500 miliardi) dotandolo della capacità di acquistare titoli di Stato per frenare eventuali scorribande all'insù degli spread, senza l'autorizzazione della Troika (Ue-Bce-Fmi, come attualmente previsto) ma con un intervento delle banche centrali dei singoli Paesi membri, coordinate dalla Bce.
In una nota al Parlamento il primo ministro della Finlandia, Jyrki Katainen (nella fotina) ha comunicato di non essere d'accordo con l'intervento dell'Esm per acquistare bond sovrani sul mercato secondario, ritenendolo «un'inefficiente via per stabilizzare i mercati».
Della stessa opinione l'Olanda. Niels Redeker, portavoce del ministro delle Finanze olandese, ha ribadito che il Paese «non è a favore dell'acquisto di obbligazioni» da parte dell'Esm.
I nodi sullo scudo anti-spread - come è stato definito il piano di intervento dell'Esm sui bondi sovrani che al vertice di Bruxelles del 28-29 giugno ha ricevuto l'ok della cancelliera tedesca Angela Merkel - dovranno essere sciolti all'Eurogruppo del 9 luglio.
Secondo il primo ministro finlandese la decisione di permettere al fondo Esm di acquistare bond sovrani dovrebbe essere presa all'unanimità dei 17 Paesi, mentre il regolamento del fondo prevede una maggioranza qualificata dell'85%.
Secondo Olli Rehn si tratta di un bluff - La minaccia del governo finlandese di porre il veto all'eventuale attivazione del meccanismo anti-spread, voluto e ottenuto dall'Italia durante il vertice Ue della settimana scorsa, è un bluff. È quanto risulta da una lettura attenta del trattato dell'Esm, il fondo di salvataggio permanente dell'Eurozona, confortata dall'interpretazione del nuovo portavoce del commissario agli Affari economici e monetari, Olli Rehn.
Come ha confermato il portavoce, Simon O'Connor, l'eventuale "no" dei finlandesi all'acquisto sul mercato secondario, da parte dell'Esm, dei titoli di Stato di un Paese sotto l'attacco dei mercati non basterebbe a bloccare la decisione, se la Commissione europea e la Banca centrale europea (Bce) concludessero che la mancata azione minaccerebbe la sostenibilità economica e finanziaria della zona euro.
In questo caso, infatti, cambierebbe la procedura di voto nel consiglio di amministrazione dell'Esm, passando dal cosiddetto "comune accordo" (equivalente all'unanimità) a una sorta di maggioranza superqualificata, corrispondente all'85% delle quote di partecipazione al capitale versato dell'Esm, assegnate a ciascuno Stato membro. La Finlandia ha appena l'1,7974% delle quote. E non riuscirebbe a raggiungere il 15% per bloccare la decisione neanche se si alleasse con l'Olanda, altro Paese che si è opposto al meccanismo anti-spread, che detiene il 5,7170% delle quote.
Da notare, per contro, che l'Italia, con il 17,9137% delle quote, da sola potrebbe bloccare decisioni non gradite, come anche la Germania (27,1464%) e la Francia (20,3859%). Sotto la "soglia di blocco" resta invece la Spagna, con l'11,9037% delle quote.
«Una procedura di votazione d'urgenza - si legge nel Trattato, all'art.4) è utilizzata nei casi in cui la Commissione e la Bce concludono che la mancata adozione di una decisione urgente circa la concessione o l'attuazione di un'assistenza finanziaria (...) minaccerebbe la sostenibilità economica e finanziaria della zona euro. L'adozione di una decisione di comune accordo (...) nel quadro di detta procedura d'urgenza richiede una maggioranza qualificata dell'85% dei voti espressi».
Lo stesso meccanismo di voto (maggioranza qualificata all'85% delle quote in caso d'urgenza) vale anche per gli acquisti, da parte dell'Esm, di titoli di Stato sul mercato primario, ovvero al momento dell'emissione. Gli interventi sul primario, comunque, che sono generalmente considerati più efficaci e meno inclini ad alimentare la speculazione rispetto a quelli sul mercato secondario, non sono stati menzionati nella minaccia di "veto" finalndese.
Se però al coro dei no di Olanda e Finlandia si unisse qualche altro Paese tale da superare il 15% potrebbe riaffiorare un problema, l'ennesimo, da risolvere per far tornare a girare l'Europa.
Scritto il 03 luglio 2012 alle 08:01 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (2)
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Se Monti ha vinto o pareggiato, lo sapremo nelle prossime settimane. Un rialzo di borsa di un giorno o di una settimana non è una prova. Gli effetti delle misure si misurano sul medio termine. Ieri Angelo Baglioni, su lavoce.info Angelo Baglioni, su lavoce.info , ha pubblicato un articolo che chiarisce molte cose sull'argomento. L'articolo, che riproduciamo, ha un titolo poco incoraggiante:
Anti-Spread: Più fumo che arrosto
Il risultato ottenuto dal governo italiano sul meccanismo anti-spread è più apparente che reale: lo Esm (Fondo Europeo di Stabilità Monetaria) continuerà a operare secondo le regole già previste. La Bce è il vero vincitore della partita giocata al vertice di Bruxelles: ottiene la supervisione bancaria ed evita qualsiasi coinvolgimento nel meccanismo anti-spread. L’intervento diretto dello Esm nel capitale delle banche ci sarà, ma la Spagna dovrà attendere per poterlo usare.
Le conclusioni del vertice del 28-29 luglio prevedono, per quanto riguarda i meccanismi di stabilizzazione finanziaria nella zona euro, quanto segue:
-1) La supervisione sulle banche passerà dalle autorità nazionali alla Banca Centrale Europea.
-2) Solo dopo che tale trasferimento di sovranità sarà attuato, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Esm) potrà intervenire direttamente nelle operazioni di salvataggio e ricapitalizzazione delle banche. “Questa procedura si baserà su un'appropriata condizionalità … che sarà formalizzata in un memorandum d'intesa”.
-3) Il fondo europeo Esm potrà intervenire sul mercato dei titoli di stato per stabilizzarne i rendimenti, a patto che i paesi interessati “rispettino le raccomandazioni specifiche per paese e gli altri impegni, tra cui i rispettivi calendari, nell'ambito del semestre europeo, del patto di stabilità e crescita e delle procedure per gli squilibri eccessivi. Tali condizioni dovranno figurare in un memorandum d'intesa”.
Due novità sostanziali - I primi due punti rappresentano vere novità, di cui forse si potranno già avvalere Spagna e Irlanda per gestire le rispettive crisi bancarie. Il terzo punto, meglio noto come “meccanismo anti-spread”, non comporta invece nessun sostanziale passo avanti, essendo già tutto previsto nello Statuto dello Esm: l’Italia quindi porta a casa ben poco.
[Non a caso ieri la borsa ha registrato un rialzo record, vicino ai 7 punti, cogli indici trascinati verso l'alto dai titoli bamcari - che hanno festeggiato con rialzi vicini, in alcuni casi, al 14%. In questo quadro, incoraggiante ma non esaltante il calo dello spread, da 470 a 420 punti, che resta un valore enorme, e insistenibile. NdR)
Il trasferimento della supervisione bancaria alla Bce è un tassello importante del cammino verso la “unione bancaria”. Potrà essere effettuato in tempi relativamente rapidi per gli standard europei. Si potrà infatti sfruttare un articolo (il 127) del Trattato Ue, che dà al Consiglio europeo il potere di conferire poteri di supervisione bancaria alla Bce, previa consultazione della Commissione e del Parlamento europeo. Dovrebbe essere un iter più veloce di quello previsto per gli altri tasselli dell’unione bancaria: assicurazione europea dei depositi e fondo europeo per la gestione delle crisi bancarie.
Questi altri elementi, se mai vedranno la luce, dovranno passare per il solito rito delle proposte formulate dalla Commissione e successiva approvazione del Consiglio e del Parlamento: un processo che può richiedere anni, come è stato per la recente proposta di direttiva in materia (che abbiamo già avuto modo di commentare).
L’intervento diretto dello Esm nelle operazioni di ricapitalizzazione delle banche in crisi ha un duplice vantaggio: 1) evita che il passaggio dei fondi europei tramite il governo nazionale del paese interessato faccia salire il debito pubblico di quel paese; 2) consente allo Esm di porre precise condizioni alle banche interessate per l’accesso ai fondi europei. La speranza è che per questa via l’accesso ai fondi sia condizionato all’imposizione di costi ai quei soggetti che hanno deciso di incorrere in rischi elevati facendo affidamento sul salvataggio pubblico: manager, azionisti, creditori (esclusi i depositanti al dettaglio).
Germania vs Italia - La Germania ha però ottenuto che questo accesso diretto ai fondi dello Esm possa avvenire solo dopo che sarà entrata in vigore la supervisione da parte della Bce, in omaggio al principio più volte ribadito dalla cancelliera Merkel: prima si trasferisce la sovranità, poi si ha accesso alle risorse comuni. Di conseguenza, l’operazione in corso a favore della banche spagnole avverrà secondo le regole attuali, cioè passando per il governo spagnolo, salvo aggiustamenti successivi. La Spagna ha però ottenuto quello che voleva, cioè che lo Esm non sia creditore privilegiato: la seniority dello Esm avrebbe fatto salire il rendimento dei titoli di stato spagnoli.
Chi ha ottenuto di meno è stata l’Italia, nonostante lo sforzo diplomatico del nostro premier. Il nostro governo era partito con l’idea che l’Esm dovesse essere dotato della flessibilità e delle risorse necessarie per intervenire sul mercato dei titoli di stato, al fine di stabilizzare i famosi spread per quei paesi che, come l’Italia, sono in regola con gli accordi europei relativi ai piani di aggiustamento fiscale. Questo comporterebbe che l’Esm possa finanziarsi presso la Bce e possa agire al di fuori della normale procedura di richiesta di aiuto da parte di un governo e successiva firma di un Memorandum, con relativo monitoraggio della Troika.
Viceversa, il risultato del vertice prevede proprio che per usufruire dell’intervento dello Esm, anche nella forma di acquisto di titoli sul mercato, si passi tramite la solita trattativa che porti alla firma del Memorandum: quindi non c’è nulla di più di quanto già previsto dallo statuto dello Esm. In parole povere, sul meccanismo anti-spread la signora Merkel non ha concesso nulla.
And the winner is... - Il vero vincitore della partita è la Bce, o meglio la Bundesbank. Da un lato, la Bce ottiene la supervisione bancaria, che le consente di estendere il suo ruolo istituzionale. Dall’altro, riesce ad evitare che le sia conferito il ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti degli stati della zona euro, ruolo sempre fortemente osteggiato dalla banca centrale tedesca, che ha sempre rumoreggiato contro il Securities Market Program della Bce, fino ad ottenere che fosse abbandonato.
Questo atteggiamento della banca centrale rappresenta un ostacolo formidabile verso l’unico meccanismo anti-spread veramente efficace: la fissazione di un target sugli spread da parte della Bce, con l’impegno ad intervenire sul mercato per farlo rispettare. La banca centrale è l’unica istituzione dotata delle risorse e della flessibilità per mettere un freno agli spread.
Tale compito rientra nella sua responsabilità di assicurare condizioni monetarie uniformi nell’area euro. Il problema dell’azzardo morale può essere risolto rendendo gli interventi condizionali al rispetto degli impegni presi dai governi nell’ambito del fiscal compact e del semestre europeo. Gli interventi non avrebbero necessariamente un impatto inflazionistico: la base monetaria creata non si tradurrebbe automaticamente in un aumento della moneta, e potrebbe essere ritirata successivamente; in ogni caso l’inflazione non è certo il problema più urgente dell’Europa in questo momento storico.
Angelo Baglioni, su lavoce.info
Negli ultimi tempi, abbiamo sempre più spesso l'impressione che stia prendendo piede, nel governo Monti, la tendenza al galleggiamento, e con un'attenzione più all'apparenza che alla sostanza delle cose. I blitz pro scontrino fiscale nelle località alla moda hanno avuto una grande eco mediatica, ma molto di più si sarebbe potuto ottenere col sistematico incrocio delle banche-dati.
Come è possibile che in Italia ci siano due milioni di case sconosciute al fisco? Sono case senza luce e senz'acqua? Incrociare i dati del catasto con quelli dei fornitori di utenze essenziali sarebbe un gioco da ragazzi...
Secondo alcuni, il "fondo per la crescita di 80 miliardi sarebbe un bluff". Grattando, si scoprirebbe che il danaro fresco è di uno o due miliardi, mentre il resto (cioè quasi tutto) sarebbe il risultato atteso di un processo innescato con quattro soldi. Dubitiamo che possa funzionare.
Il fondo europeè per lo sviluppo (130 miliardi) sembra sia costituito quasi soltanto da fondi già precedentemente stanziati. Insomma, non vorremmo andare con la memoria alle vacche di Fanfani, spostate da un podere all'altro dell'Ente Sila, a seconda degli spostamenti - concordati - delle telecamere.
Last but not least, dopo il varo dell'anti-spread, così strombazzato, Monti ha già annunciato che l'Italia ha vinto la sua battaglia, ma che per il momento non si avvarrà di questo strumento. Però non ci ha spiegato perchè. Forse che con uno spread superiore a 400 ci danneggerebbe un suo abbassamento? Ci piace pagare 80 miliardi all'anno più della Germania per il servizio del debito? Abbiamo fatto solo una battaglia di principio?
E se invece fosse corretta - come temiamo - l'analisi de lavoce.info? Tafanus
Scritto il 30 giugno 2012 alle 14:00 nella Economia, Tafanus | Permalink | Commenti (22)
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Queste le ultime novità sull'inchiesta della Procura di Trani su alcune agenzie di rating, come riportare nell'articolo di Repubblica:
S&P's: "Sull'Italia abbiamo sbagliato" - Una mail dell'inchiesta di Trani inchioda l'agenzia
Prosegue l'inchiesta della procura di Trani sulle agenzie di rating. Tra il materiale sequestrato emergono email scottanti. Un responsabile di Standard&Poor's riconoscerebbe di aver commesso errori nel giudicare le banche italiane
ll giorno in cui Standard & Poor's ha declassato l'Italia, il 13 gennaio 2012, esprimendo giudizi negativi anche sulle banche, il responsabile per le banche di S&P's , Renato Panichi, ha inviato una mail agli autori del report contestando loro di aver espresso giudizi contrari alla realtà sul sistema bancario.
La mail è stata depositata due giorni fa, assieme a nuovi atti d'indagine, dal pm di Trani Michele Ruggiero, che a fine maggio ha fatto notificare ai vertici di Standard & Poor's un avviso di conclusione delle indagini preliminari.
Gli indagati, accusati di concorso in manipolazione del mercato continuata e pluriaggravata, sono l'ex presidente di Standard & Poor's Financial Services, l'indiano Deven Sharma, il Managing Director, Head on Insurance Rating di Londra, Yann Le Pallec, e gli analisti senior del debito sovrano che firmarono i report sull'Italia: Eileen Zhang, Franklin Crawford Gill e Moritz Kraemer.
Nella mail interna Panichi scrive a Zhang e Kraemer e contesta al primo che "non è giusto" scrivere nel "RU" dell'Italia "che c'è un elevato livello di vulnerabilità ai rischi di finanziamenti esterni. Attualmente - sottolinea - è proprio il contrario, uno dei punti di forza delle banche italiane è stato proprio il limitato ricorso/appello ai finanziamenti esterni o all'ingrosso". La missiva si conclude con un invito esplicito: "Per favore rimuovi il riferimento alle banche!".
Nei confronti dei cinque indagati e delle sedi legali di Londra e New York di Standard & Poor's nei prossimi giorni il pm Ruggiero, a meno di colpi di scena dell'ultim'ora, dovrebbe firmare la richiesta di rinvio a giudizio. Alla società il magistrato contesta violazioni della legge sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Entro luglio la procura dovrebbe chiudere le indagini, tuttora in corso, sulle altre due agenzie di rating: Fitch e Moody's.
Il testo della email - Il documento è stato scritto in inglese il 13 gennaio 2012 dal responsabile per le banche di S&P, Renato Panichi, a due dei tre analisti indagati, Eileen Zhang e Moritz Kraemer, autori assieme a Franklin Crawford Gill, del report di declassamento di due gradini del debito sovrano dell'Italia da (A a BBB+) reso noto nello stesso giorno:
"Ciao Eileen e Moritz. Ho provato a chiamarvi entrambi. Ho il RU dell'Italia e vedo una frase proprio all'inizio dove menzionate 'la vulnerabilità crescente dell'Italia ai rischi di finanziamenti esterni, considerato l'elevato livello di presenza esterna nel settore finanziario e in quello del debito pubblico".
Eileen, non mi hai detto questa frase ieri, e non è giusto che tu dica che c'è un elevato livello di vulnerabilità ai rischi di finanziamenti esterni. Attualmente è proprio il contrario, uno dei punti di forza delle banche italiane è stato proprio il limitato ricorso/appello ai finanziamenti esterni o all'ingrosso. Per favore rimuovi il riferimento alle banche! Grazie. Renato".
Dalla mail - sempre a giudizio di fonti vicine alle indagini - emergono anche i contrasti tra analisti al vertice della società di rating, e la deliberata volontà di declassare l'Italia pur in assenza dei presupposti, come implicitamente dichiarato dagli stessi analisti il giorno stesso del declassamento.
Agli atti sono allegate altre mail sequestrate. Due quelle ritenute rilevanti. Nella prima Panichi scrive a Zhang: "Ciao Eileen, per favore sappi che mi piacerebbe condividere con te qualsiasi riferimento alle banche in Italia RU, se ci sono, in modo da evitare possibili errori o disallineamenti con la visione FI di domani, sono in ufficio disposto a parlarne. Grazie. Renato" [...]
Scritto il 29 giugno 2012 alle 18:38 nella Economia | Permalink | Commenti (0)
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Confesso che l'articolo della settimana scorsa che segue, di Barbara Spinelli, me l'ero perso, e per una volta sono grato a Micromega che me ne ha trasmesso il link nella sua newsletter di ieri. Barbara Spinelli è una di quelle giornaliste i cui scritti spesso dovrebbero essere letti nelle scuole.
E poco importa (se non al mio piccolo, vanesio orgoglio) di aver scritto pressocché le stesse cose il 5 giugno. La Spinelli le scrive meglio, le documenta meglio, ed ha più cultura politica e memoria storia del sottoscritto. Questo l'articolo:
I dogmi di Berlino e i danni della smemoratezza storica (di Barbara Spinelli)
La smemoratezza storica è ciò che caratterizza l'attuale leadership tedesca e sta conducendo l'intera Europa nel baratro. Berlino dimentica non solo gli anni '20, quando le furono imposte riparazioni non sostenibili e il paese precipitò nel nazismo. Dimentica anche quel che fu il piano Marshall, nel dopoguerra.
Da qualche giorno si parla, non senza speranza, della proposta avanzata il 7 giugno da Angela Merkel alla televisione tedesca. Un'unione economica e politica dell'Europa, grazie alla quale la moneta unica potrà sormontare i propri squilibri, l'indebitamento degli Stati diverrà comune debito europeo, l'Unione potrà emettere eurobond garantiti solidalmente, sorvegliare le banche unificandole.
L'obiettivo sarebbe una Federazione, ottenibile attraverso nuove graduali cessioni di sovranità nazionali: ancora in mano agli Stati, esse sono impotenti di fronte ai mercati.
La terra promessa è bella, ma è tutt'altro che chiaro se il Cancelliere voglia, e presto, quel che annuncia. Se non stia guadagnando tempo, dunque perdendolo. Comunque, l'idea è di sfidare il suo principale interlocutore: il nuovo Presidente francese.
Ricordi, la Francia, che se l'Europa non si fa la colpa è sua, non dei tedeschi. È da decenni che Parigi avversa cessioni di sovranità, e ora è messa davanti alle sue responsabilità. Né pare recedere: due ministri, degli Esteri e dell'Europa, votarono contro la Costituzione nel 2005. La rigidità francese è certo corresponsabile del presente marasma - Hollande potrebbe prendere sul serio la Merkel, costringendola a fare quel che dice di volere - ma se ascoltiamo le parole del Cancelliere e soprattutto quelle di Schäuble, ministro del Tesoro, il piano somiglia molto a un villaggio Potemkin: un prodigio, ma di cartapesta.
Di poteri rafforzati delle istituzioni europee la Merkel parlò il 14 novembre 2011 (al congresso democristiano), e poi in una conferenza a Berlino il 7 febbraio, ma mai l'idea divenne formale proposta. Il più esplicito è stato Jens Weidmann, governatore della Bundesbank. Subito dopo l'elezione di Hollande, ha scelto la tribuna di Le Monde, il 25 maggio, per stuzzicare i francesi: mettere in comune i debiti, ha detto, è impossibile senza Federazione. "Perfino nei paesi che reclamano gli eurobond, come in Francia, non constato su questo tema né dibattito pubblico, né sostegno popolare a trasferimenti di sovranità".
Il fatto è che nella posizione tedesca c'è qualcosa di profondamente specioso, e insensatamente lento. Intervistato dall'Handelsblatt, il 5 giugno, Schäuble afferma che l'unione politica è un progetto di lungo termine. Prima bisogna vincere la crisi: ogni Stato con le sue forze, e con piani di austerità che pure hanno mostrato la loro inanità. Fanno male, i piani? Sfiniscono i popoli, e aumentano perversamente i debiti nazionali? Il ministro lo nega: quasi sembra considerare la sofferenza un prelibato ingrediente della rinascita europea. La domanda frana nei paesi indebitati? Niente affatto: "I programmi non diminuiscono il potere d'acquisto, siamo solo di fronte a crisi di adattamento". L'Unione crollerà? Anche questo viene negato: "I grandi scenari apocalittici non si sono mai inverati".
La negazione dei fatti, unita a un impressionante oblio storico (come si fa, in Europa, a dire che gli scenari apocalittici non si sono mai inverati?): sono gli elementi che impregnano oggi la posizione tedesca. Se questa appare così immobile, è perché un dogma la paralizza. È il dogma della "casa in ordine", in voga tra gli economisti tedeschi dagli anni '20: se ogni Stato fa ordine come si deve, la cooperazione internazionale funzionerà e a quel punto si penserà all'unione politica, all'unione bancaria per far fronte alla crisi spagnola, alle misure per l'Italia pericolante.
Come spesso accade ai dogmi, essi contengono incongruenze logiche e un'abissale indifferenza al divenire storico. Il difetto logico, spesso sconfinante nell'ottusità, è palese nel ragionare dei vertici tedeschi. Si riconosce che l'euro senza Stato è zoppo, si rievoca quel che Kohl disse a proposito dell'unione politica, necessario complemento della moneta unica. Per la Merkel come per Schäuble, tuttavia, l'unione ha senso dopo che gli Stati avranno aggiustato le finanze: non diventa lievito della ripresa, ma si aggiunge ex post, quasi un premio.
Che significa, allora, dire che l'euro senza Stato è il vizio d'origine dell'unione monetaria? Se i rimedi ai vizi sono rinviati, vuol dire che non sono ritenuti farmaci cruciali. Cruciale è il giudizio dei mercati, non arginabili con un cambio di paradigma nella costruzione europea. Cruciale è il culto del dogma, impacchettato con carta europeista in modo da imbarazzare i francesi.
È quel che Walter Benjamin, in un frammento del 1921, chiama religione del capitalismo: quest'ultimo diventa "puro culto", che non redime ma colpevolizza soltanto. Non a caso, dice Benjamin, Schuld ha in tedesco due significati: debito e colpa. La smemoratezza storica non è meno funesta.
Berlino dimentica non solo gli anni '20, quando le furono imposte riparazioni non sostenibili e il paese precipitò nel nazismo. Dimentica anche quel che fu il piano Marshall, nel dopoguerra. Charles Maier, storico a Harvard, spiega che il piano funzionò perché non era condizionato: le riforme sarebbero venute col tempo, grazie alla ripresa europea.
Oggi toccherebbe alla Germania avere quell'atteggiamento, che legò riduzione dei debiti e rimborsi dei prestiti alla crescita ritrovata. Scrive Maier: "Gli europei dovrebbero ricordare il monito di George Marshall, nel '47: "Il paziente sprofonda, mentre i dottori deliberano"" (New York Times, 9-6-12).
Anche Obama, quando invita i tedeschi a crescere di più e fa capire che è in pericolo la sua rielezione, è privo di visione lunga. Il vissuto del dopoguerra, la leadership americana che incitò all'unificazione europea, è scordata. Solo ieri la Casa Bianca ha menzionato, auspicandola, l'unione del nostro continente.
Gli uomini degli anni '50 che Jean Monnet cita nelle Memorie, (John McCloy, consigliere di molti Presidenti; Dean Acheson, segretario di Stato; David Bruce, ambasciatore Usa in Francia) è come fossero ignoti. Nè sembra dir qualcosa, a Obama e agli europei, la storia stessa dell'America: il passaggio dalla Confederazione di Stati sovrani alla Federazione che Hamilton (allora segretario al Tesoro) accelerò nel 1790 cominciando col mettere in comune i debiti accumulati durante la guerra d'indipendenza. Il discorso che Thomas Sargent ha tenuto in occasione del premio Nobel per l'economia, nel dicembre 2011, evoca quell'esperienza a uso europeo. Fu la messa in comune dei debiti a tramutare la costituzione confederale in Federazione. Fu per rassicurare i creditori che venne conferito alla Federazione il potere di riscuotere tasse, dandole un bilancio comune non più fatiscente. Solo dopo, forti di una garanzia federale, gli Stati si prefissero nei propri ambiti il pareggio di bilancio, e nacque la moneta unica, e si fece strada l'idea di una Banca centrale.
Invece di preoccuparsi dei poteri forti, Monti ha una grande opportunità: preparare per il prossimo vertice Ue una controproposta europea, basata sul rilancio, la comunità delle banche, la parziale comunitarizzazione dei debiti, da presentare insieme ai governi che lo desiderano, Grecia in primis. I veri poteri forti non sono in Italia. Vale la pena prospettare - non in conferenze ma ai partner - un'unione politica vera. Non un'unione di cartapesta, ma un piano che dia all'Unione le risorse necessarie, il diritto di tassare più in Europa e meno nelle nazioni (a cominciare dalla tassa sulle transazioni finanziarie e le emissioni di biossido di carbonio), e metta il bilancio federale sotto il controllo del Parlamento europeo, come suggerisce lo storico Maier.
Oggi l'Unione dispone di risorse irrisorie (meno del 2 per cento del prodotto europeo), come l'America prima di Hamilton. Se la Merkel non ci sta, gli Stati favorevoli si contino, nel Consiglio europeo. Non succede il finimondo se Berlino è messa in minoranza. Accadde ai tempi dell'euro con la Thatcher. Il primo che in Europa farà votare su proposte serie passerà alla storia. (Barbara Spinelli).
Scritto il 23 giugno 2012 alle 14:00 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (5)
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1915 1939 2011
La prima volta è stato nel 1915, ad opera di tale Theobald von Bethmann Hollweg, macchietta pluridecorata, con più roba appesa addosso del Card. Bagnasco. Finì con circa 14 milioni di morti, milioni di feriti, mezzo mondo in rovina, e l'offerta speciale della Repubblica di Weimar.
La seconda volta è stato nel 1939, ad opera di un ex aiuto-panettiere ed imbianchino, assecondato da un idiota nostrano. Una bella avventura, conclusa con 55 milioni di morti, e tutto il mondo ex-civile ridotto a un cumulo di macerie, e a ricettacolo di odio.
Ora ci prova, dal 2011, con le armi dell'economia, tale Angela Merkel, una che di economia non si è mai occupata, visti i suoi studi di chimica e fisica. D'altra parte, nel mondo moderno l'incompetenza specifica è diventata un must. Una guerra mondiale più subdola delle precedenti, poichè combattuta con armi più silenziose: quelle della rapina economica..
Pensavo di essere fra i pochi (e quasi me ne vergognavo) a sentir nascere in me, lentamente ma inesorabilmente, sentimenti antitedeschi, di chiara matrice razzista. Poi oggi mi è capitato di leggere un elzeviro di Massimo Gramellini, ed ho capito di non essere il solo ad avvertire la nascita di questo spiacevole sentimento...
Forza Grecia (di Massimo Gramellini)
Continuo a sentire persone insospettabili che stasera faranno il tifo per la Grecia contro la Germania. Il calcio c'entra poco. Anche la solidarietà per i cugini mediterranei. In Italia - e non solo dalle parti del Cavalier Grillo, ultima metamorfosi di Berlusconi - sta montando un pregiudizio antitedesco: alla Germania egoista viene attribuita la crisi mortale in cui si sta avvitando l'Europa.
I più arrabbiati sono gli anziani, o diversamente giovani, ai quali le recenti vicende evocano antichi fantasmi. Se parlate con qualcuno di loro, vi dirà che gli eredi di chi trascinò l'Europa in un conflitto che la indebolì per sempre dovrebbero sentire una responsabilità speciale, affatto esaurita.
Nel dopoguerra gli americani finanziarono la rinascita di Paesi lontani, in cui oltretutto erano morti i loro figli. Come possono i tedeschi non avvertire il dovere morale di promuovere un piano Marshall per salvare l'Europa? Pensano davvero di riuscire a rimanere un'isola di benessere nel cuore di un continente in miseria?
Così ragionano i sopravvissuti della seconda guerra mondiale, arrivando a suggerire atti estremi come il boicottaggio dei prodotti tedeschi. Ma anche chi è arrivato in seguito prova un certo disagio nel confrontarsi con gli stereotipi del bavarese medio, che raffigura noi popoli mediterranei come una massa di scansafatiche abbronzati e pieni di debiti, perciò meritevoli di un ridimensionamento che ci costringa a illividire nella tristezza. In realtà il bavarese medio la pensava così già ai tempi di Kohl. Ma Kohl se ne infischiava, perché a differenza di Merkel era uno statista. (Massimo Gramellini)
...ecco... vedendo che una persona che ho sempre stimato, come Massimo Gramellini, pensa della Merkel - seppur con parole più educate - quello che penso io, e che ho già scritto in un post del 5 giugno, mi sento sinceramente sollevato. Confesso che l'altro giorno, quando ho sentito dire da alcuni analisti finanziari che era iniziata, seppur con una certa cautela, una retromarcia di capitali da titoli tedeschi ormai a rendimenti vicini allo zero, verso titoli dei piigs countries, ho sentito una certa euforia...
Davvero un trattamento meno brutale nei confronti della Grecia (che conta, vogliamo ricordarlo, l'8% dell'economia tedesca) avrebbe ridotto in miseria ogni Herr Mueller bavarese?
Finalmente anche i tedeschi non possono più indebitarsi a tasso zero? Finalmente alcune società di rating si accorgono che diverse banche tedesche potrebbero avere serissimi problemi se la crisi degli altri paesi europei dovesse approfondirsi?
Si, finalmente è così. Ma dobbiamo aiutare i tedeschi - che secondo la vulgata generalizzata non sono propriamente prontissimi di riflessi - a capire più in fretta. E per farlo, non c'è che un modo: far sentire sulla pelle di Herr Mueller non solo il viscerale, epidermico, montante disprezzo della comunità internazionale, ma anche il morso di un paio di milioni di disoccupati in più. Solo così, solo allora, forse capiranno davvero cosa significhi depressione. Quindi, alla Merkel si deve parlare nella sola lingua che conosce. Quella del Dio Danaro.
Boycott Germany
Scritto il 22 giugno 2012 alle 16:00 nella Economia, Lavoro, Politica, Razzismo, Tafanus | Permalink | Commenti (28)
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Stamattina, quando ho sentito che c'era euforia sui mercati finanziari per i risultati delle elezioni in Grecia, ni sono messo a cercare le chiusure delle borse in oriente, e ho scoperto che "l'euforia" era tale che Tokio aveva chiuso con un rialzino dell'1,7%. A quel punto, ho aggiunto agli off-topics un paio di righe dettate dal "pessimismo della ragione":
...si accettano scommesse sulla durata della "festa". Fra poche ore, si capirà che l'unica maggioranza possibile è fra due componenti che la pensano, sull'economia, in maniera diametralmente opposta...
Ero stato fin troppo ottimista. Stasera Repubblica online scrive:
MILANO - Il sospiro di sollievo sui mercati dura poco, così come l'effetto del voto di Atene. La Grecia vira a destra, e sceglie i conservatori di Antonis Samaras che promette un governo di unità nazionale, il rispetto dei patti con i creditori istituzionali e le riforme.
Le Borse brindano solo il tempo di consentire a Tokyo di chiudere a +1,77%. L'euro allunga e balza a 1,2740 dollari e a 100,54 yen, poi però ritraccia e chiude in calo sotto quota 1,26 dollari a 1,2570. L'entusiasmo dei mercati si spegne in fretta, dunque, non appena gli investitori decidono che, archiviata la Grecia, il vero problema in realtà resta la Spagna.
Così a Milano la seduta ha due volti: in avvio Piazza Affari recupera fino all'1% poi vira in territorio negativo e a fine seduta sprofonda perdendo il 2,85% dopo aver lasciato sul parterre anche oltre il 3%. Marginale anche l'effetto del pagamento delle cedole che pesano per l'1,2% dell'intero listino. Nel resto del Vecchio continente brinda solo Atene che avanza del 4,29%, Madrid è la peggiore, in calo del 2,96%, a Parigi il Cac 40 arretra dello 0,69%. Si salvano solo Francoforte e Londra che salgono dello 0,3% e dello 0,22%. Debole anche Wall Street, in attesa che domani la Fed annunci nuove misure di sostegno all'economia: il Dow Jones cede lo 0,3%, l'S&P 500 lo o,2%, mentre il Nasdaq recupera lo 0,2%.
Il voto in Grecia non allenta dunque la tensione sui debiti pubblici periferici: lo spread torna ad allargarsi e sale a quota 465 punti base. I Btp volano oltre il 6% e i Bonos spagnoli sfondano il muro del 7% e per la prima volta i titoli spagnoli rendono più di quelli irlandesi. A dimostrazione che per i mercati è Madrid il vero problema dell'Eurozona. In rialzo anche i tassi dei bund tedeschi vicini a quota 1,5% [...]
Stamattina, ancora mezzo addormentato, ho sentito un analista del Sole24Ore fare una strana analisi del ribasso italiano e spagnolo. O era ubbriaco lui, o dormivo ancora io. Dunque, il rialzo iniziale (durato peraltro alcuni millisecondi), era dovuto a ricoperture di speculatori al ribasso che, impauriti all'idea di aver sbagliato nella valutazione del trend, correvano a ricoprirsi. Ma personalmente cfredo che delle operazioni speculative al ribasso durate mesi non le chiudi con un rialzino di un'ora. C'è qualcosa che non quadra.
E quello che non quadra è che dopo l'euforia iniziale gli analisti hanno cominciato a capire che il risultato del voto - c on la necessità di una larga coalizione di diversi - non cambia di una virgola la situazione greca, e che la Merkel, teytragona come un sasso, non cambierà una virgola - nella sua dissennata politica economica - dino alle elezioni di aprile. Quindi la Grecia continuerà ad affondare, è iniziato l'assalto finale alla Spagna, e non si ferma la guerra di logoramento contro l'Italia. Poi toccherà alla Francia. E quando inizieranno a crollare le esportazioni tedesche - e solo allora - chi verrà dopo la Merkel riscoprirà la storia del New Deal. Forse
Tafanus
Scritto il 19 giugno 2012 alle 08:01 nella Economia, Tafanus | Permalink | Commenti (1)
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«Io dico - ha proseguito Fornero uscendo dall'assemblea della Confartigianato - che quelli che sono usciti sono numeri parziali e non interpretati e questa non è mai una bella cosa. Il ministro non ha mai potuto dire che i numeri non debbano essere dati. Dico soltanto - ha detto ancora Fornero - che quelli sono parziali e non interpretati. Questo è molto improprio e direi anche deresponsabilizzante in quanto interessa molti italiani».
Il ministro, sempre a proposito del "giallo" sui numeri, ha parlato di «episodio grave» ribadendo il contenuto del comunicato diffuso dal Ministero dell'Economia e del Lavoro «in occasione del decreto dei 65 mila esodati, per i quali erano approntati i fondi. Ribadisco l'intenzione seria del governo - ha aggiunto - rispetto a un problema che c'è ma la cui dimensione esatta non è contenuta in quei numeri. Perchè, per esempio, - ha detto ancora Fornero - più di 60 mila di quelle persone sono già in pensione o ci andranno quest'anno. I numeri vanno dati quando sono interamente conosciuti».
Ma ormai il ministro è "accerchiato" ed attaccato da tutti i partiti: «Sconcerta la risposta della Fornero sui vertici dell'Inps. Da Sacconi mai sarebbe venuta una risposta così. Come si dice a Napoli: la Fornero chiagne e fotte», ha detto il parlamentare del PdL Gianfranco Rotondi. «Il ministro Fornero deve avere molta cautela perchè se c'è un ripensamento da fare è sul numero degli esodati previsto dal governo e sulle risposte che deve dare e non ha ancora dato». Così l'ex ministro Giuseppe Fioroni per il quale «i dati, se veri, aiutano e stimolano una necessaria soluzione». «Invece di cimentarsi - sostiene il deputato Pd- nell'indignazione per la verità, il ministro si cimenti a trovare soluzioni e non utilizzi il tema degli esodati per cercare di creare sconvolgimento anche all'Inps, ipotizzando soluzioni che lo rendono distante dal mondo del lavoro e dai diritti dei lavoratori».
«È deprecabile che un ministro in carica dia dei numeri diversi da quelli forniti dall'Inps, che è l'ente di riferimento. Ed è inammissibile che Fornero continui a giocare allo scaricabarile senza rendersi conto delle conseguenze e dei drammi sociali provocati dalle sue scelte». Lo dice il presidente dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro. «Quella sugli esodati non può essere considerata solo l'ennesima incomprensione- prosegue- per questo l'IdV ha chiesto al ministro del Lavoro di venire a riferire in Parlamento. In ogni caso, sarebbe meglio fare a meno di un ministro dal comportamento irresponsabile e ignorante, poichè ignora come stanno realmente le cose. È lei che dà i numeri e che deve essere sfiduciata».
Scritto il 12 giugno 2012 alle 15:46 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (15)
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Spagna: Fitch taglia rating da A a BBB, outlook negativo (RCO)
Il riassetto banche costerà 60 mld, ma potrebbe salire a 100 mld (Il Sole 24 Ore Radiocor) - Fitch ha abbassato di 3 livelli il rating sovrano della Spagna, portandolo da "A" a "BBB" con outlook negativo. La decisione - spiega una nota - è stata presa a fronte di una serie di fattori, a cominciare dal probabile costo per il bilancio pubblico derivante dalla ristrutturazione e ricapitalizzazione del sistema bancario spagnolo, costo stimato ora da Fitch a circa 60 miliardi di euro, pari al 6% del Pil (contro i 30 miliardi previsti inizialmente), ma che potrebbe salire a 100 miliardi di euro, pari al 9% del Pil, se lo scenario si aggravasse rispetto alle previsioni. Il riassetto delle banche dovrebbe inoltre far salire il rapporto debito/pil fino al 95% nel 2015. L'agenzia prevede inoltre che la Spagna resti in recessione oltre che nel 2012, anche nel 2013, mentre in precedenza si attendeva per il prossimo anno una ripresa.
Scritto il 06 giugno 2012 alle 16:00 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (1)
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Scritto il 05 giugno 2012 alle 12:00 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (0)
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E' giunto il momento di dirlo chiaro: la severità sui conti pubblici della Germania è un ottimo sistema, truffaldino ma efficace, che la Germania sta usando per farsi finanziare il debito pubblico a costo zero, a spese dei paesi più poveri d'Europa.
Se osserviamo i dati aggregati dell'area euro, scopriamo che la Germania, in termini di debito consolidato rispetto al PIL, è intorno all'82%, esattamente come la media generale dell'area euro, inclusiva dei Piigs Countries. Dov'è allora la virtù della Germania della signora Merkel?
Ancora; passando al rapporto deficit annuale/PIL, fra il 2011 e il 2012 l'Italia è passata da un deficit del 3,9% al 2,7%; la Germania è cresciuta dall'1,0% all'1,5%, nonostante finanzi il suo debito pubblico a tasso zero. Nel 2012 hanno deficit uguali o addirittura inferiori a quello tedesco la Finlandia, il Lussemburgo e - fuori dall'area euro - la Svezia, e persino la Bulgaria e l'Ungheria.
Secondo uno studio abbastanza drammatico, pubblicato da Wall Street Italia (che sintetizzeremo in calce), calcolando fideiussioni e passività (come farebbe un buon padre di famiglia), invece dell'81,8% dichiarato, la Germania avrebbe un rapporto tra debito e Pil pari al 138,9%. Insomma, la signora Merkel, anzichè limitarsi a chiedere con supponenza agli altri di fare i compiti, dovrebbe iniziare a farli anche lei, in casa sua.
Ecco la chiave di lettura per la quale la Merkel si oppone, e si opporrà sempre, al varo degli eurobonds, e di politiche monetarie collettive. Finchè le consentiremo di dettare legge in Europa, alla Germania risultewrà estremamente conveniente finanziare debito pregresso, debito futuro, crescita, coi soldi degli altri, che andranno incontro ad un progressivo impoverimento. Vi sembra un discorso paradossale? No, non lo è. Finchè consentiremo alla Germania di dettare la linea, la Germania impedirà ai debiti sovrani di TUTTI gli altri stati di risalire la china, e con appropriate manovre mediatiche e di insider trading sui titoli di stato suoi e altrui, manterrà costantemente elevato lo spread delle valute dei paesi più deboli. Non tanto facendo alzare a livelli insostenibili i tassi altrui, ma facendo abbassare contestualmente i propri, che ormai sono prossimi allo zero. Insomma, per molti (sia risparmiatori in buona fede che speculatori), i titoli di stato tedeschi hanno finito con l'assumere il ruolo di beni-rifugio. Si disinveste dai titoli più deboli, e si portano i soldi alla Merkel a tasso zero.
Conseguenza? Mentre il costo del servizio del debito in Italia corre, tendenzialmente, verso i 100 miliardi di € all'anno, quello della Germania è arrivato quasi a zero. Quante tasse si potrebbero tagliare, e quanti investimenti per la crescita si potrebbero fare, con 200.000 miliardi di lire all'anno?
Purtoppo questa spirale, se non verrà fermata, tenderà ad autoalimentarsi. La Germania sarà sempre più ricca e tronfia, paesi come la Grecia, la Spagna e il Portogallo avranno i giorni contati, ma neanche l'Italia starà tanto bene. E persino alcuni paesi mitteleuropeo non avranno una bella cera.
Si può fermare questa politica assassina della Germania? Non so se si possa, so che si deve. Le pressioni di Hollande, di Monti e di altri servono fino a un certo punto. Quando qualcuno decide che una certa politica economica giova al proprio portafoglio, le uniche contromisure serie sono quelle di smontare questa politica economica.
Si può intanto fermare l'orrendo meccanismo del "fiscal compact", sul quale ha calato le braghe il governo Tremonti-Berlusconi, ma che è stato avallato anche da Monti, seppur in stato di necessità. Per memoria: il fiscal compact impone un deficit massimo dello 0,5%, e per i paesi che superano il 60% di indebitamento, prevede che il debito sia ridotto di un ventesimo all'anno. Per capirci: il rientro nel 60% costerebbe alla Germania un sacrificio di 1,1 punti di Pil all'anno. Costerebbe all'Italia un insostenibile costo di 3,25 punti di PIL all'anno. Consolidando i parametri del fiscal compact e il costo del debito, la Germania se la caverebbe con un costo di 1,5 punti di PIL all'anno, l'Italia dovrebbe sostenere un costo di 8/9 punti di PIL all'anno. Una differenza che scaverebbe un solco profondo quanto un baratro fra le due economie, destinato a non colmarsi mai più. Un costo, oltretutto, assolutamente non sostenibile.
C'è un patto in tal senso? No, non c'è un patto. C'è una proposta di patto, che potrebbe diventare legge comunitaria entro il 31 dicembre, ma solo a condizione che entro quella data il fiscal compact venga ratificato da almeno 12 paesi dell'area euro. Spero ardentemente che con ci siano, in Europa, 12 paesi con una spiccata vocazione al suicidio. Perchè se Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia piangono, non è che la Francia, l'Olanda, il Belgio stiano molto meglio. Questa follia del fiscal compact, la peggior legge pro-ciclica mai pensata da mente umana, deve ad ogni costo essere fermata.
Ma non basta. La Germania si fermerà solo se e quando la Merkel straperderà le elezioni (questo processo è già iniziato, a livello di laender). E quando la crisi comincerà a mordere anche in casa dei tanti signori Mueller, che oggi si ritengono corazzati solo perchè non ancora toccati direttamente dalla crisi. Ma attenzione, signor Mueller... quel momento non è lontano. La Germania vive di export,e il giorno in cui il resto d'Europa avrà le pezze al culo, anche la Germania avrà i suoi accattoni. Con una differenza: che l'area sud dell'Europa ha una certa familiarità con le politiche e le strategie di sopravvivenza, la Germania no. E allora dovrà fronteggiare una crisi molto, ma molto più devastante, dal punto di vista sociale, di quella italiana.
Aggiungo (e chiudo): aiutiamo la Germania a conoscere molto presto questa fase, qualora la signora Merkel non cambi strada. Iniziamo a boicottare i prodotti "made in Germany". Torniamo ad investire in titoli italiani o di altri stati europei. Facciamo crescere il costo del debito in Germania. Contribuiamo a far capire al signor Mueller che i paesi europei sono vasi comunicanti, e non pianeti separati. Simul stabunt, simul cadent. Si salvano insieme, o precipitano insieme. Come ultima istanza, se proprio non si riesce a far stare decentemente la Germania in Europa, nell'unico modo possibile (e cioè con politiche economiche comuni, e senza che qualcuno pensi di poter imporre ad altri patti leonini), si adottino politiche ritorsive - con tutti gli strumenti previsti o non espressamente vietati dalle regole comunitarie. E' giunto il momento di dire basta alla signora Merkel e ai suoi scherani. Tafanus
P.S.: come anticipato, riportiamo in calce i passi salienti dello Studio di Wall Street Italia del 27 marzo 2012 sul debito tedesco, incluso quello non contabilizzato:
L'ultima frontiera: al 140% il debito/Pil della Germania
Eurostat non tiene conto di passività contingenti o fideiussioni nel calcolare il debito pubblico. Includendoli si scopre qualcosa di peculiare: invece dell'81,8% il rapporto è su livelli "italiani": un rapporto debito/PIL pari al 138,9%.
Eurostat lo dice chiaramente: nel calcolare il debito pubblico di un paese dell'area euro non viene tenuto conto di passività contingenti o fideiussioni varie. La metodologia utilizzata dall'Unione Europea maschera la verità, presentandola per quella che non è. Il problema non è infatti solo l'approccio matematico che si vuole seguire per avere i numeri più accurati possibili.
Se si concentrano i calcoli sulle garanzie bancarie e le fideiussioni regionali e sui derivati garantiti dal paese sovrano, tenendo conto delle politiche del singolo paese, si può avere un quadro completo della situazione dell'area della moneta unica. Analizzando il caso tedesco e dell'area core si scopre che la questione del fardello debitorio non è un problema limitato alle nazioni della periferia, bensì all'intera struttura europea nel suo complesso.
L'analisi del debito della Germania è anche oggetto di uno studio della stessa Bce e della stessa Unione Europea. Determinare quali sono le dimensioni e la gravità delle passività dello stato membro principale della regione servirà ad accertare le reale condizioni finanziare in cui versa il paese, senza accettare passivamente quello che viene pubblicato sui grandi media [...]
Le fideiussioni a garanzia dei fondi di stabilizzazione ammontano a 280,6 miliardi. Le fideiussioni per i fondi di assistenza macro-finanziaria si attestano a 211 miliardi. Unite a tutte le altre fideiussioni e garanzie, il rapporto tra debito e Pil sale dall'81,8% ufficiale al 139,8%.
Scritto il 05 giugno 2012 alle 08:01 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (9)
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Nulla di nuovo sotto il cielo dei populisti italiani. Intervistato dall'agenzia di stampa americana Bloomberg, Beppe Grillo, fondatore e leader del "Movimento Cinque Stelle" ha detto che uscire dal sistema della moneta unica non deve essere più un tabù. "L'euro - ha spiegato - è un cappio al collo che si restringe di giorno in giorno". Meglio tornare alla lira, agli anni ruggenti della svalutazione competitiva (del 40-50 per cento, ha suggerito), grazie alla quale abbiamo accumulato la polvere sotto i tappeti, sperando che nessuno sarebbe andato mai ad alzarli, e abbiamo anche ingrossato le tasche di molti imprenditori pigri e non proprio competitivi.
Ma prima di Grillo, ben prima, la pensata l'aveva avuta la Lega Nord, in un'altra stagione rispetto a quella degli investimenti off shore di Francesco Belsito. Bobo Maroni, allora ministro del Welfare, propose un ritorno alla liretta nazionale con tanto di referendum popolare. Un "uno due" magistrale (da vero professionista dello spettacolo, verrebbe da dire) per parlare alla pancia del paese, e soprattutto a quella del nord rancoroso.
Fantaeconomia, parole a vuoto. Demagogia. E la Grande Crisi non era nemmeno alle porte. Andò ancora oltre il collega leghista di Maroni, Roberto Calderoli. Una vera sfida tra i due cavalli di razza del Carroccio: torniamo alla Lira ("con la elle maiuscola", disse, non si sa perché, Calderoli) e agganciamola - nientepopodimeno - al dollaro americano. Poi l'annuncio del dentista bergamasco sedotto dalla politica: "Pagliarini e Giorgetti partiranno per gli Stati Uniti per studiare il dossier". Roba seria. Eravamo nel 2005. Nel 2012 urgono nuovi autori per i testi di economia di Beppe Grillo. Troppo facile copiare la Lega.
(da "Poteri Forti" - di Roberto Mania)
Scritto il 14 maggio 2012 alle 17:43 nella Economia, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (16)
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Doveva esserci il vento di tempesta dell'antipolitica, che avrebbe indiscriminatamente colpito, alla cieca, destra e sinistra. Non è stato così, tranne che in Grecia. La bufera è arrivata, ma sta devastando in primis i tifosi ciechi e biechi del "rigore" ( e SOLO del rigore), e coloro che pensavano di poter continuare a vita a massacrare sempre e solo i ceti più deboli, salvaguardando quel 10% di fortunati, bancarottieri, evasori, réntiers che si spartiscono da soli metà della torta. Non è stato così. e da domani anche la Merkel sarà costretta a cambiare passo, se non vorrà essere travolta. Per ora dallo Schleswig-Holstein ha avuto solo uno stuzzichino. Ma adesso anche in Germania cominciano ad arrivare le migliaia di disoccupati, ad iniziare da Lufthansa e Ford.
La Cancelliera di Ferro diventerà d'alluminio, o sarà travolta, lander dopo lander.
GERMANIA - Nell’ambito delle elezioni in Germania, Angela Merkel è riuscita a mantenere il primato nello Schleswig-Holstein con il 30,6% e il partito social-democratico non è riuscito a superare il 29,5%. Ma la coalizione di Centro-Destra che fa capo all’attuale Cancelliera tedesca ha comunque perso il controllo del Land. Lo Stato del Schleswig-Holstein è un piccolo Stato rurale, che si trova nella parte più settentrionale della Germania e viene considerato un banco di prova per il Governo Merkel.
INGHILTERRA - I laburisti ottengono la maggioranza e conquistano il controllo delle più importanti città del Regno Unito. Soltanto Londra rimane ai conservatori, ma Johnson stacca il rivale Livingstone solo di qualche punto. La vittoria dei Labour è stata una landslide victory, una vittoria netta e consistente. Il partito di Ed Milliband stacca i Tories vincendo in 52 consigli comunali, acquistandone 30 rispetto al 2008 e conquistando il controllo di città importanti come Cardiff, Southampton, Plymouth, Norwich e Birmingham. Sono 700 complessivamente i seggi conquistati, il 16 per cento del consenso è strappato ai conservatori, ora solo al 31 per cento.
FRANCIA - Una folla enorme. Bandiere rosse al vento, ma pure svariati tricolori, quelli che piacciono tanto anche a Nicolas Sarkozy. Urla. Pianti. E’ quanto sta succedendo stasera nella piazza della Bastiglia, a Parigi. Già da diverse ore, li’, dove 31 anni fa, il 10 maggio 1981, il popolo della gauche aveva festeggiato l’elezione di François Mitterrand, oggi, sotto un cielo denso di nubi, minaccioso, ma che non ha spaventato nessuno, hanno iniziato a radunarsi, fin dalle prime ore del pomeriggio, in forma spontanea, i sostenitori di François Hollande. E in particolare i più giovani, che via twitter e network sociali avevano già capito che era fatta. Che ce l’aveva fatta. E’ la Parigi più popolare, in arrivo dalle periferie, che si è riversata nelle strade. Si’, Hollande è il nuovo Presidente. «Sarko, sei finito», si legge in numerosi manifesti, branditi davanti alle telecamere. Secondo gli ultimi exit poll Hollande ha ottenuto il 51,9% dei voti, contro il 48,1% a Sarkozy. Sono dati ormai quasi certi. E con un divario notevole. Anche se non cosi’ amplio come si attendeva alla vigilia del voto.
P.S.: Per la cronaca, l'ultima volta che la sinistra aveva potuto festeggiare una vittoria alle presidenziale, correva l'anno 1988. Sono trascorsi 24 anni: quasi un quarto di secolo.
GRECIA - Pesante sconfitta elettorale alle elezioni politiche anticipate in Grecia per i due partiti, Pasok di Evangelos Venizelos e Nea Dimokratia di Antonis Samaras, che hanno sostenuto il Governo tecnico di Lucas Papademos negli ultimi mesi. I due partiti di centrosinistra e centrodestra, che hanno appoggiato il doloroso e drammatico piano di austerity per evitare il default della Grecia, sono stati fortemente penalizzati. Lo stesso discorso vale anche per quei partiti che anche per un breve periodo hanno appoggiato il Governo Papademos. Il popolo greco ha invece premiato i partiti estremisti (Syriza di estrema sinistra e Alba D’Oro di estrema destra) e una buona parte (il 40%) ha preferito non recarsi proprio alle urne. Nel pomeriggio di ieri ci sono state minacce da parte del movimento neonazista Alba D’Oro, che a sorpresa è riuscito ad approdare in Parlamento. Un vero e proprio terremoto politico che rischia di compromettere il futuro del Paese nell’Eurozona, oltre al rischio di un nuovo voto anticipato (AP)
Questo il quadro. Come da copione, oggi la Spectre della finanza speculativa ha provato a spaventare il mondo. I mercati hanno aperto in profondo rosso, quasi ad avvalorare l'equazione "sinistre al governo = catastrofe economica". La finanza speculativa ha fatto esattamente quello che ci si aspettava che facesse. La svolta a sinistra generalizzata in Europa era largamente prevista. Nei giorni scorsi le operazioni a termine al ribasso non si sono contate. Stamattina i mercati hanno provato ad approfondire il ribasso dei titoli azionari e sui titoli di stato, ma a quattro ore dall'apertura dei mercati siamo già in fase di ricoperture, cogli indici che guadagnano in molti casi tutto quanto perso in mattinata, e in altri casi virano addirittura in positivo.
L'ALLARME ROSSO "APERTURE"
Tutto come da copione. Lo spread tenta di sfondare di nuovo quota 400, ma passano poche ore, e arretra fino a diventare, seppur simbolicamente, più basso rispetto alle chiusure di venerdì scorso:
Tutto come da copione, dicevamo. Ricordo benissimo, nel '94, di come i mercati - sempre così lungimiranti - abbiano festeggiato con un'apertura in forte rialzo l'incredibile vittoria del farabutto. Sembrava fosse arrivato al potere il Nuovo Profeta delle Magnifiche Sorti e Progressive del paese. In poche settimane, era tutto finito. Ciò che ha lasciato il berlusconismo al Paese (e contribuito ampiamente a lasciare all'Europa) è un cumulo di macerie la cui sola rimozione sarà più lunga, costosa e difficile della rimozione delle macerie dell'Aquila, della rimozione della "Costa Concordia", e del decommissioning di un'ottanntina di centrali nucleari in Giappone e Germania.
Il vero risultato elettorale - pessimo ma prevedibile - arriva dalla Grecia. I partiti istituzionali - il Pasok e Nuova Democrazia, che insieme avevano, storicamente, il 60% dei voti, dimezzano, e insieme oggi valgono un terzo del parlamento che emergerà. Salgono per la prima volta al potere partiti nazisti e razzisti, ma anche partiti sognatori di estrema sinistra. Ne emerge un quadro di assoluta ingovernabilità, ma la Spectre sa benissimo quale sia il peso della Grecia nell'economia globalizzata, specie dopo la Cura Merkel: prossimo allo zero.
Grecia, Schleswig-Holstein, Inghilterra, Francia, questo pomeriggio in Italia. Avanzano populismi non spendibili. il Front National in Francia, i nazisti e l'estrema sinistra in Grecia, i Piraten in Germania. In Italia avanzerà il Grillismo, ma pochi saranno in grado di accorgersi che l'eventuale avanzata di qualche consigliere comunale grillino a Roccacannuccia sarà non spendibile, e che comunque avverrà a spese di altri populismi (la Lega, ma anche il dipietrismo). La torta del populismo non crescerà. Troppi cani sullo stesso osso. Parafrasando i "Tre TRE": "L'acqua è poca, e 'a papera nun galleggia".
Un'ultima considerazione, prima di tuffarci nell'avventura dello spoglio odierno in Italia: la temuta caduta verticale della partecipazione al voto - che avrebbe dovuto certificare la morte della politica, e la vittoria dell'antipolitica, non c'è stata in Francia, e in Italia c'è stato un calo, e non il dimezzamento o quasi previsto dai mitici "sondaggisti CAWI".
Il significato di questo calo lo capiremo dolo gli scrutini. Perchè se fosse equamente distribuito fra i partiti, sarebbe un segnale di vittoria dell'antipolitica e del qualunquismo. Ma se fosse disegualmente distribuito, con la punizione preferenziale di alcuni partiti, allora dovremmo trovare altre - e più intelligenti - chiavi di lettura. Tafanus.
Scritto il 07 maggio 2012 alle 13:48 nella Economia, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (7)
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"Il Pd è pronto a governare". Parola di Pierluigi Bersani, che ha incontrato oggi la stampa estera. "Dopo i disastri della politica personalistica e populistica, il Pd è pronto a governare il paese e caricarsi sulle spalle il fardello dei disastri combinati da altri in questi anni", afferma il segretario democratico rispondendo a una domanda su un possibile governo di Beppe Grillo. "Al contrario - sostiene - le cose stanno girando nell'altro senso. Abbiamo avuto al governo la personalizzazione estrema e il populismo e questo ha stremato il sistema politico, ma ora ci sarà una fase ricostruttiva". "Noi siamo dei bebè - dice ancora - perché il Pd è nato quatto anni fa, ma il Pd non è più un esperimento, è il primo partito del paese in grado di caricarsi del governo del paese" e "sono piuttosto fiducioso sui candidati del Pd alle prossime amministrative".
"Ci stiamo avvitando in un meccanismo che vede alternarsi recessione e compressione dei bilanci. Io mi auguro che i prossimi appuntamenti elettorali ci diano lo spazio per dare forza a una piattaforma, quella dei progressisti europei, che è alternativa alla destra. Oggi la destra è ingabbiata dalla sua stessa ricetta, noi invece pensiamo che si possano attivare subito investimenti, ad esempio attraverso gli enti locali" [...]
Bersani si dice quindi convinto che dal voto dei prossimi giorni nei vari paesi europei "ci potrà essere l'inizio di un cambiamento di fase". "Da qui al 2013 o si percorre la strada di forze progressiste, democratiche ed europeiste che fronteggiano il populismo, consentendoci di guardare con fiducia all'europa, o se vince l'altra strada in fondo non c'è l'Europa". Invece, "se vince Hollande - sottolinea - penso che Monti dovrà cogliere tutti gli spazi in Europa perché ci sia un cambiamento di rotta rispetto alle politiche anticrisi". "Monti lo sta facendo, nei colloqui con Angela Merkel, ma non abbiamo piu' molto tempo". Del resto, avverte il leader democratico, "quando arriverà in parlamento noi voteremo il fiscal compact, ma chiederemo che sia affiancato da un'iniziativa per la crescita".
"Il tema dell'occupazione - aggiunge - è largamente europeo in questo momento. In Italia abbiamo dati drammatici, ma non siamo i soli ad averli". Sulla riforma del mercato del lavoro il segretario del Pd spiega: "Adesso mi sembra che in commissione si stia discutendo ancora di tecnicalità, ma mi auguro che quando si arriverà al punto, non si voglia mettere in discussione il punto di equilibrio trovato sull'articolo 18". "Il 95 per cento delle imprese - precisa - è sotto la soglia dell'articolo 18. Il problema non è questo è che qui non c'è lavoro, non girano liquidità e investimenti. E il governo deve trovare una risposta".
Altro tema caldo di questi giorni è l'Imu. "Il peso dell'Imu è effettivamente micidiale. Per questo noi proponemmo di affiancare all'Imu un'imposta patrimoniale sui grandi patrimoni per redistruire meglio il carico. Ma i miei contendenti politici, allora dov'erano? Noi possiamo anche dire qualcosa, ma loro dovrebbero stare zitti". (Repubblica del 2 maggio 2012)
Scritto il 02 maggio 2012 alle 15:58 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (1)
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Periodicamente, quando il piatto piange, non ci sono più le piazze di una volta, e i "regazzi" non vogliono o non possono più pagare 30 euri per ascoltare comizi a pagamento di un ex comico imbolsito dagli anni e dal troppo urlare, ecco che Giuseppe Rag. Grillo tira vuori alternativamente l'abolizione della pensione ai parlamentari dopo due anni e mezzo di legislaturta (amenità che ancora campeggia sul "Programma" del comico, pur essendo cambiata da un pezzo la normativa), e la minchiata fine-di-mondo: "Facciamo come l'Islanda, non rimborsiamo più i titoli del debito pubblico"!
A questo punto dalle platee degli adoratori paganti si levano standing ovations, sguardi adoranti di ragazzini con la licenza di terza media inferiore superata faticosamente, e pacati ma convinti cenni di assenso di attempati annuitori da bar dello sport.
Ora, a costo di deludere questa vasta platea di imbecilli da riporto, vorremo ricordare alcuni fondamentali demo-economici al Pifferaio Magico, e ai topini ciechi.
Ragioniere, per ridurre le cose alla sua portata (e alla portata degli imbecilli da riporto), le consegno degli altri dati:
Ragioniere, si dia una calmata, e cerchi di ragionare. Si concentri. Ci sono delle cose che persino diplomati alla CEPU o alla Scuola Radio Elettra TV per Corrispondenza possono capire, impegnandosi. Provi, non è difficile. Altrimenti che ragioniere è?
P.S.: Ragioniere, se ha tempo, ci spieghi cosa succederebbe - qualora prendessimo questa brillante decisione - alla prossima asta dei titoli di stato. E giacchè c'è, provi a immaginare quale sarebbe da domani la quotazione dei titoli di Stato in mano alle famiglie italiane... Le stesse famiglie in favore delle quali lei combatte una strenua battaglia. Sparando non cannonate, ma cazzate...
L'ultimo post-minchiata sull'argomento del comico è fresco fresco, risale solo al 15 aprile (Link)
Facciamo come l'Islanda
"Il piccolo Stato isolano, nel mezzo dell'Oceano Atlantico, era finito nel mirino del Fondo Monetario Internazione (FMI) che imponeva l'immediato rimborso del debito contratto con Gran Bretagna e Olanda per salvare la Icesave, società controllanta da Landsbanki, banca affossata dalla crisi. I banchieri islandesi avevano infatti concordato un prestito pari alla metà del PIL islandese (5,6 miliardi di euro) a fronte del danno subito dai correntisti dei due paesi. L'Islanda ha deciso di nazionalizzare gli istituti di credito colpiti dalla crisi ma così facendo il debito con GB e Olanda è finito sulle spalle della popolazione, costretta a pagare nel 2009 una prima trance consistente in 3,5 miliardi di dollari.
Ma la forza e la dignità degli islandesi non ha permesso che questo accadesse: dopo la legge del 2009 che prevedeva questo pagamento, è stato subito convocato un referendum che nel Marzo 2010 ha bocciato sonoramente la legge, vietando qualsiasi rimborso. A dicembre dello stesso anno il ministro dell'economia Sigfusson decise di ignorare il referendum e riproporre il provvedimento (i referendum non vengono dimenticati solo in Italia a quanto pare): il rimborso del debito viene infatti ordinato dall'Europa come requisito fondamentale per entrare nell'Unione. Ma niente da fare: i cittadini, infuriati, non solo hanno costretto la politica a far scattare l'arresto per i banchieri responsabili del crac, ma lo scorso fine settimana hanno nuovamente bocciato la legge con un altro referendum plebiscitario. Nessun rimborso, nessun pagamento".
...ora lo sappiamo... non pagare i debiti liberamente contratti non è disonestà o incapacità, ma "forza e dignità"... Sarà per questo che il Rag. Cazzaro per sette anni non ha pagato i suoi debiti col fisco, lasciando che a farsi carico fossero altri, pagando per se e per il Grillo Evasore Condonato? Tafanus.
Scritto il 27 aprile 2012 alle 11:33 nella Economia, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (19)
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Un triste 25 Aprile di povertà crescente. Caro Monti, non ci sarà ripresa dei consumi consentendo ai negozi di restar vuoti anche di notte, anzichè solo di giorno. I consumi potranno aumentare solo quando il 90% della popolazione non sarà più costretta a pagare il conto di quel 10% di evasori, ladri, privilegiati, e appartenenti alle varie caste, che si dividono il 48% della ricchezza nazionale.
Se ne faccia una ragiione. Ormai non è più procrastinabile il doloroso compito di far sì che anche i ricchi piangano. Ormai non è più sostenibile che siano salariati, stipendiati e pensionati a farsi carico del 93% dell'IRPEF riscossa. Auguri anche a lei. Tafanus
Scritto il 25 aprile 2012 alle 16:29 nella Economia, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (3)
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Perché Monti continua a farci del male, agitando lo spettro della Grecia? Possibile che nella squadra dei tecnici non ci sia uno psicologo in grado di spiegargli che i cittadini non sono bambini da spaventare, ma adulti da motivare?
Anche ieri la solita storia: cari italiani, se non vi tassassimo a sangue, fareste la fine di Atene. Nel racconto montiano l’Italia è un viandante sopravvissuto miracolosamente alla prima fase della carneficina, ma tuttora inseguito da un branco di lupi a cui ogni giorno deve sacrificare uno stinco o un gomito per avere salva la vita. Una fotografia vera, ma schiacciata sul presente. Manca ciò che da tempo si chiede invano ai governanti: una visione del futuro. Aumentare la benzina è un’aspirina, non una cura. E non lo è neppure combattere l’economia sommersa dei privati senza toccare la spesa pubblica e il sottobosco corrotto della burocrazia.
I nostri nonni possedevano il nulla, ma si sentivano dire dalla politica che, sgobbando con passione, avrebbero potuto avere tutto o almeno qualcosa. Adesso il sentimento dominante nel discorso pubblico non è più la voglia, ma la paura. Quella peggiore, poi: la paura di perdere, anticamera della sconfitta sicura. Il cittadino è disposto a sacrificarsi se gli si offrono una direzione di marcia e una prospettiva di riscossa. Ma se ci si limita a spaventarlo col babau della povertà, lungi dal reagire si dispera e si arrende. Forse, oltre che uno psicologo, a questa squadra di tecnici manca un filosofo. Uno che li aiuti a capire che nel destino delle nazioni esiste qualcosa di più grande dello spread.
(Massimo Gramellini)
Scritto il 19 aprile 2012 alle 20:47 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (0)
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Francia, i sondaggi lanciano François Hollande. Sarkozy cede voti alla destra di Le Pen. A quattro giorni dal primo turno, il presidente uscente crolla nelle ultime previsioni di voto: tra i suoi elettori sale la tentazione di preferire il Front National, mentre a sinistra il candidato socialista guadagna consensi
PARIGI - Fuga in avanti di François Hollande, crollo improvviso di Nicolas Sarkozy. A meno di quattro giorni dal primo turno, continuano le montagne russe dei sondaggi. Nelle ultime rilevazioni, il candidato socialista supera quello della destra di almeno due punti (29,5% per Hollande contro 27,5% per Sarkozy). Secondo altri istituti lo scarto sarebbe addirittura di quattro punti (29% contro 25%).
Tutti i sondaggisti registrano una rimonta di Marine Le Pen, tra il 14 e il 17% delle preferenze, a danno di Sarkozy. La leader del Front National dovrebbe conquistare la terza posizione nel voto di domenica, a scapito di Jean-Luc Mélenchon, candidato del Front de la Gauche (tra il 13 e il 15%) in leggero calo.
Molti esperti raccomandano prudenza. L'astensionismo potrebbe essere elevato, intorno al 30% dell'elettorato. Gli indecisi sono in aumento ed esiste una forte "volatilità" dell'elettorato tra i candidati degli stessi schieramenti. Alcuni elettori, dicono i politologi, possono cambiare idea fino al giorno prima del voto, addirittura al momento di entrare nel seggio. E' quello che rende imponderabile il primo turno, uno scrutinio che serve spesso a esprimere un voto di opinione.
La presenza di dieci candidati, alcuni quasi sconosciuti e "meteore" del mondo politico, rende complesse le previsioni di questo turno delle presidenziali. Non sarebbe la prima volta che i sondaggi sbagliano. E' ancora forte il ricordo del clamoroso flop del 2002, quando nessuno aveva previsto che Jean-Marie Le
Pen potesse superare l'allora candidato socialista Lionel Jospin e arrivare al secondo turno contro l'allora presidente Jacques Chirac.
Una tendenza che è confermata, sondaggio dopo sondaggio, è quella del vantaggio di Hollande su Sarkozy al ballottaggio previsto il 6 maggio. Su questo, tutti gli istituti concordano. Lo scarto è valutato con un minimo di sei punti (54% contro 48%) fino a un massimo di sedici (58% contro 42%) secondo l'ultima rilevazione pubblicata da Csa. "Se perdo, sarò il solo responsabile" ha detto il Presidente-Candidato Sarkozy in un'intervista a L'Express. Una battuta che lascia filtrare il dubbio della sconfitta. Come quando aveva detto, qualche settimana fa, che si sarebbe ritirato dalla politica in caso di mancata rielezione. Una minaccia, un modo di mettere pressione sugli indecisi a destra? A dispetto dei sondaggi, la campagna va avanti come se tutto fosse ancora possibile. "Mi batterò fino alla fine" ha annunciato Sarkozy ieri in Bretagna. Il suo ultimo comizio, prima di domenica, sarà a Nizza, feudo del Front National. Un elettorato che in parte lo aveva votato nel 2007 e che ora sembra voltargli le spalle
(ANSA/Repubblica)
Questa è una buona notizia, perchè potrà spostare voti di destra moderata da Sarkozy a Hollande, accrescendone le possibilità di vittoria. Ed è una buona notizia per noi italiani
Forse le presidenziali francesi potranno dare una svolta alle suicide politiche economiche dell'eurozona, fin qui guidate dalla folle ologarchia di Sarkozy e della Merkel, ma di fatto dalla Merkel, col comico Sarkozy al guinzaglio: obbediente cagnolino felice di scodinzolare accanto al capo-branco. I risultati delle folli politiche recessive della Merkel sono sotto gli occhi di tutti. L'Europa ridotta a una sorta di fortino dell'euro-marco, i "Piigs Countries" condannati a politiche economiche recessive pro-cicliche, che aggravano il male anzichè curarlo. Le previsioni delle istituzioni economiche (dalla BCE, al FMI, alla OCSE) che a turno peggiorano le previsioni economiche dell'eurozona, e spostano sempre più in avanti la data della radiosa ripresa. Un giorno saremo tutti senza debiti, senza lavoro e senza speranza.
Per quanto riguarda l'Italia, l'accettazione - senza oppore una linea Maginot di resistenza - ai diktat della culona, sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante gli sforzi economici fatti dal paese (iniqui ma enormi), in cinque mesi il debito pubblico è passato dal 120% al 123,4% di un PIL in calo. Cambiali in bianco, che rassomigliano all'acquisto gioioso di una robusta corda insaponata a cui impiccarsi. Quale mente folle, in un paese che si trova nelle condizioni dell'Italia, ha potuto accettare di costituzionalizzare il pareggio di bilancio, e il rientro di un ventesimo all'anno della differenza fra il debito ammesso (60% del PIL) e quello effettivo?
Lo ha dovuto fare Berlusconi, quando ha dovuto abbandonare - obtorto collo - la favoletta della crisi che non c'era, e che ove mai vi fosse stata a sua insaputa, l'Italia ne era uscita prima e meglio degli altri. Ma la decisione è stata avallata da Monti, ed è una decisione folle, perchè rischia di far avvitare l'Italia in una sindrome greca.
Cinque mesi fa, con un PIL in calo di alcuni decimali di punto, e con un debito al 120%, ci eravamo impegnati a ridurre il debito di 3 punti di PIL all'anno, pari a circa 45 miliardi. Ai quali dobbiamo aggiungere 70 miliardi di costo del debito. Totale, 115 miliardi di avanzo primario all'anno da "costruire".
A cinque mesi di distanza, ci ritroviamo col debito passato dal 120% del PIL al 123,4%. Per il combinato-disposto dell'aumento del debito, e del progressivo aumento del costo per maggiori interessi su maggiori importi, il costo del debito passerà a non meno di 90 miliardi di euro, e il fiscal compact ci imporrà di ridurre il debito di 50 miliardi. L'avanzo primario che dovremmo generare passerà da un folle ammontare di 115 miliardi, ad uno - superfolle - di 140 miliardi.
Ormai possiamo finanziarci solo presso gli strozzini. Ci vorrebbe un Keynes, un Marshall, e invece ciò che abbiamo è la ridicola coppia Sarkozy-Merkel, con Monti a fare da comprimario, senza palle e capacità contrattuale per denunciare lo sciagurato fiscal-compact, mandare all'aria l'impegno estorto al'accoppiata Berlù-Tremò per la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, e spiegare che è giunto il momento, in Europa - a costo di pagare un prezzo in termini di ripresa di un certo tasso d'inflazione, di rimettere cautamente in moto la macchinetta che stampa gli euri.
Quindi durante il prossimo week-end, anzichè tifare per Del Piero, tiferò per François Hollande e per la Aubry.
Tafanus.
Scritto il 18 aprile 2012 alle 16:30 nella Berlusconi, Economia, Politica | Permalink | Commenti (4)
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“Con le tue finestre aperte sulla strada e gli occhi chiusi sulla gente, con la tua tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente”, cantava il grande Fabrizio, e pare adattarsi mirabilmente alla descrizione di un presidente del consiglio che pare ignorare bellamente i segnali che gli arrivano da un numero, lo spread, che non fa riferimento alla Spagna (che del resto ha problemi assai maggiori) ma alla politica “tecnica” genuflessa davanti ai poteri forti che tengono in scacco anche questo governo.
Con la banca europea che ha garantito in effetti la sopravvivenza delle banche tramite un’erogazione di denaro fresco a costo risibile il governo Monti ha assicurato la sopravvivenza degli istituti, e con una bella strizzata a pensioni e servizi ha identicamente abbattuto il fabbisogno della macchina statale, senza peraltro toccare rendite di posizione indecenti, quali la possibilità di cumulare pensioni e consulenze per i boiardi di stato, di disporre di capitoli di spesa allucinanti per senatori e parlamentari, oltre che per la presidenza della Repubblica, del Senato e della Camera.
Non parliamo poi della incredibile storia legata al famigerato “rimborso elettorale” ai partiti, il cui utilizzo è ben documentato dagli scandali che stanno emergendo da UDC (dove questo signor Lusi si è appropriato della sciocchezza di 26 milioni di euro pubblici, e dove il resto dei soldi nessuna sa bene dove sia finito) e dalla Lega, dove tre bifolchi hanno saccheggiato il denaro pubblico ad uso e consumo del “cerchio magico” in Lauree e diplomi falsi, beni immobili intestati alla moglie dello scemo del villaggio (Umberto Bossi, e chi se no ?), investimenti in Tanzania che oggi si scopre sono di fatto a fondo perduto, gioielli e macchine per i figli dello scemo.
Quel grande ed attento politico di Bersani, in luogo di sganciarsi dalla giusta arrabbiatura degli Italiani che vedono questi “finanziamenti” come il fumo negli occhi, decide bene di affermare “il mancato finanziamento pubblico ai partiti è antidemocratico”, dimenticandosi che nel 1993 un referendum ha affossato di fatto qualunque erogazione di denaro pubblico alle organizzazioni a delinquere che sono oggi i partiti.
Tutti uguali? ma certamente no, resta il fatto che il cosiddetto “rimborso elettorale” che non deve essere in alcun modo giustificato è stato votato sostanzialmente all’unanimità con l’esclusione dei Radicali: non sarete tutti uguali, ma votare una schifezza del genere non vi fa particolare onore, cari signori del PD.
Il carico da undici ce lo mette un signore che è stato beccato dalla TV tedesca a volare low cost, per poi prendersi il rimborso pieno da eurodeputato: egregio Presidente (la maiuscola è solo per la funzione, non certo per la persona), lo vogliamo dire che sono stati dati una montagna di soldi a partiti e partitini che hanno mangiato a sazietà alimentando la corruzione, primo problema Italiano (ben più grande dell’evasione fiscale, fra l’altro, come attesta la Corte dei Conti, che oggi dobbiamo ripianare caricando di costi i cittadini onesti?
Arriviamo quindi al nostro presidente del consiglio: vede, professor Monti, oggi il suo governo ha bisogno di azioni coraggiose, non idiote. Quindi frasi come quella del “ministro” Fornero che afferma che “o passa il decreto sul lavoro o andiamo a casa”, ben consapevole che si sta parlando della fantasmagorica cifra di 70-80 reintegri l’anno, andrebbero stigmatizzate ferocemente, in quanto (e glielo dice un imprenditore) il problema delle assunzioni non è certo quello del licenziamento per giusta causa, ma il costo complessivo del dipendente, oggi tale per cui chiunque ci pensa tre volte prima di aprire una nuova società.
Vede, benché sia certamente a sua conoscenza, le segnalo lo stesso che in Germania il dipendente costa molto di più che in Italia, ma il carico fiscale sull’assunzione è nettamente più basso: in altri termini il lavoratore prende di più perché lo stato è meno vorace. Magari anche grazie al fatto che i politici presi con le mani nella marmellata prima si dimettono e poi, se colpevoli, vanno anche in galera.
Invece noi cosa abbiamo? Un parlamento che dopo tangentopoli cambia le leggi sul finanziamento pubblico ai partiti il 5 marzo 1993, quando il governo varò un decreto legge (il decreto Conso, da Giovanni Conso, il Ministro della Giustizia che lo propose) che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti e definito per questo il colpo di spugna.
Il decreto, che recepiva un testo già discusso e approvato dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato, conteneva un controverso articolo che dava alla legge un valore retroattivo, e che quindi ha compreso anche gli inquisiti di Mani Pulite, di fatto disinnescando i rischi politici di tale indagine (mica per niente D’Alema aveva ai tempi richiesto la famosa “soluzione politica”).
Conclusioni ? Sì. La politica di oggi è il vero cancro Italiano, che pesa in termini di circa 75 miliardi l’anno in costi diretti ed indiretti sul bilancio dello stato. Oggi o la politica si riforma, magari grazie ad azioni davvero coraggiose da parte sua, egregio professor Monti, oppure l’autorevolezza che Le è stata conferita è mal riposta. Faccia quello che deve fare, e lo faccia alla svelta.
Se i “partiti” non la seguiranno in quello che è sacrosanto fare le suggerisco di lasciare la carica: alle prossime elezioni vedremo quale sarà il giudizio degli elettori su questa classe politica di incapaci maneggioni con lo sguardo fisso sui fatti loro, “col permesso di trasmettere e il divieto di parlare”.
Professor Monti, gentilmente, ascolti Fabrizio De Andrè. Perché davvero con i ministri che si è scelto, mi pare che non solo non riesca più a volare, ma nemmeno a saltellare, ed oggi avremmo bisogno di qualcosa di più di un gruppo di galline starnazzanti. Avremmo bisogno di fatti, e non di pugnettte.
Axel
Scritto il 18 aprile 2012 alle 07:59 nella Axel, Economia, Politica | Permalink | Commenti (4)
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Leggo questo messaggio dell'amico Amedeo Piva, messaggio che non posso non far mio e comunicare a voi. Come al solito, generalizzare non va, e rinunciare a distinguere è solo e sempre segno di pigrizia mentale.
Che la delinquenza di una minoranza di parlamentari, perché di minoranza si tratta, debba offuscare la rettitudine di una maggioranza che non fa cronaca e non va in prima pagina, è segno di un analfabetismo socialpolitico che preoccupa e mette paura. La democrazia richiede una maturità che molti non hanno e che invece pretendono dagli altri. Se anche fosse vero che tutti i politici sono ladri e delinquenti, la domanda che si pone e che mette in crisi noi e non loro è: "Ma chi ce li ha mandati in parlamento? Lo Spirito Santo?".
Finchè andremo alle urne, imbalsamati nelle bende consortili e cortigiane dei nostri piccoli e immediati interessi familiari o amichevoli e di simpatia o di mercantili favori, ma incoscienti del nostro essere CITTADINI, preoccupati della GENERALE situazione e di un FUTURO cui mettere fondamenta, la democrazia sarà sempre zerbino per maneggioni, ladri e millantatori! Così come la storia degli ultimi venti anni ci insegna! Eccovi, allora, il messaggio dell'amico Amedeo. Un abbraccio.
Aldo Antonelli
“I PARTITI SONO I VERI NEMICI DI MONTI”
Ho provato un forte senso di fastidio nel leggere questo titolo, “I partiti sono i veri nemici di Monti”, che riassume la posizione dell’economista e giornalista Ernesto Auci su Firstonline
Auci muove da constatazioni e considerazioni piuttosto diffuse, per offrire la sua ricetta, non certo originale, su come far ripartire l’economia. La ripresa dell’Italia dovrebbe trovare avvio in un robusto taglio della spesa pubblica che potrebbe, nel breve tempo, dare le risorse necessarie per abbassare le tasse su redditi, lavoro e imprese e rimettere in moto, quindi, consumi ed investimenti.
L’autore condisce questa sua analisi con un’invettiva pericolosa e demagogica (va molto di moda, ora!), rivolta indiscriminatamente a tutti i partiti che andrebbero "alla ricerca di una facile popolarità con proposte demagogiche ed irrealistiche che, spacciate come eque e compassionevoli nei confronti dei sacrifici dei cittadini, finiscono in realtà per acuire i malanni del Paese condannandolo ad una lunga depressione.”
E poi “Il Governo Monti deve guardarsi dall’abbraccio dei partiti che formalmente lo sostengono, ma che in realtà sono solo alla ricerca di formule miracolose per continuare a fare quello che hanno sempre fatto e cioè distribuire soldi e posti alle proprie clientele”.
Mi ha infastidito questa filippica dell’economista perché consolida, ingiustamente, un modo di pensare che si sta diffondendo, e cioè che si salverà l’Italia demonizzando i partiti. E proprio nel momento in cui sarebbe indispensabile entrare nel merito e riconoscere il grande lavoro di ricucitura che, sia pure con limiti-errori-ambiguità, stanno realizzando insieme Alfano, Casini e Bersani.
Provasse il Governo Monti a guidare il Paese senza queste difficili mediazioni e in un baleno gli sconvolgimenti della (piccola) Grecia travolgerebbero l’Italia e non lascerebbero tranquilla l’Europa!
L’economista Auci ritiene anche che la riduzione della spesa pubblica sarebbe “uno scherzo per qualsiasi buon manager chiamato a risanare un’impresa in difficoltà”. Non ne sarei così sicuro. Qualcun altro, in un recente passato, ha creduto di poter gestire un Paese come fosse una grande azienda ed esportare in ambito politico i suoi successi imprenditoriali. In tanti ci hanno creduto, cedendo a un’illusione le cui conseguenze ci stanno costando un carissimo prezzo.
Sull’abilità e capacità dei “salvifici” manager – rispondendo a demagogia con demagogia – basterebbe ricordare che una delle tappe di questa crisi ha avuto come protagonisti i prodotti finanziari inquinati messi sul mercato non dai politici ma dai banchieri, che hanno rubato i risparmi e avvelenato il mercato.
Ma forse vale di più un invito a riflettere con maggior pacatezza, non fare di ogni erba un fascio, non cedere né alla demagogia anti-partitica, né all’arroccamento acritico su posizioni di strenua difesa dello status quo. Vale molto di più condividere le responsabilità e rimboccarsi le maniche (sì, proprio rimboccarsi le maniche, come fanno Bersani ed Enrico Letta).
Aldo Antonelli
Caro Aldo,
vorrei ricordare a te e ai lettori chi è Ernesto Auci. Giusto per non aiutarlo ad essere definito "un economista". Leggiamo le sue note biografiche da una fonte non sospetta:
ERNESTO AUCI - Nato a Roma nel 1946, ha conseguito la laurea in Economia e Commercio presso l’Università della capitale nel 1969. Giornalista praticante a “Il Globo”, quotidiano economico romano di proprietà della Confindustria, è diventato professionista nel 1970. Due anni dopo è passato a “IlSole24Ore” di Milano con la qualifica di redattore. Del quotidiano allora diretto da Alberto Mucci è stato, quindi, capo servizio per la finanza (1974) e vice direttore (1978).
Passato al Gruppo Rizzoli in qualità di vicedirettore de “L’Europeo” nel 1979, quando il giornale era affidato a Mario Pirani, ha, quindi, lavorato a “Il Mattino” di Napoli: prima come caporedattore e poi come inviato articolista. Nel 1984 è stato nominato Direttore Centrale per la Relazioni Esterne della Confindustria e dal 1992 al 1997 è stato responsabile dell’Ente Informazione e Stampa di Fiat SpA.
Nel 1997 è stato nominato Direttore responsabile de “IlSole24Ore” ed in seguito è stato anche Amministratore delegato de "IlSole24OreSpA". Nel dicembre 2002 è diventato Presidente e Amministratore delegato della ITEDI, Amministratore delegato dell’Editrice “La Stampa” e Presidente della Publikompass. Dal 1° dicembre 2004 è responsabile delle Relazioni Istituzionali di Fiat SpA. Cura i rapporti con le istituzioni nazionali ed internazionali e coordina tra l’altro le attività delle sedi di Roma e di Bruxelles. Alla stessa data ha lasciato le cariche ricoperte in ITEDI, nell’Editoriale La Stampa e in Publikompass rimanendo come consigliere nelle prime due società.
Insomma, una vita sotto l'ombrello della Confindustria e della Fiat, cioè di due organizzazioni specializzate nell'arte suprema del "chiagne 'e fotte". Gli manca solo una cattedra alla Luiss (ma arriverà, prima o poi, vedrai...) e il suo destino sarà compiuto. Quale meraviglia se esprime le idee che esprime? Mi meraviglierei se esprimesse qualche idea in favore non già dei padroni delle ferriere, ma della "ggente comune".
Quando un sedicente economista - nato e cresciuta sotto la coperta di Linus della Fiat e di Confindustria - fa affermazioni come questa: "...la riduzione della spesa pubblica sarebbe “uno scherzo per qualsiasi buon manager chiamato a risanare un’impresa in difficoltà...”, mi viene da chiedergli un paio di cosine:
-a) I partiti suoi amici, dalla nascita della Repubblica in poi, hanno governato per l'85% del tempo. Perchè Auci non li ha bacchettati, quando giocavano a "culo e camicia" con la classe imprenditoriale?
-b) se tutto è "as simple as that", perchè il prode Augi, anzichè limitarsi a far uscire aria dall'orifizio orale, non si è mai proposto come genio della politica attiva, o almeno come piccolo padroncino, dove rischiare - grazie alla sua genialità - soldi suoi e idee sue, senza salvagente, coperte di Linus e poltroncine confindustriali? Ad Auci la spiegazione.
Un abbraccio, Antonio
Scritto il 17 aprile 2012 alle 15:45 nella Economia, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (2)
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"Bolletta zero", una serpentina ci salverà - Inaugurato a Parma un edificio residenziale autosufficiente termicamente: la giusta temperatura è generata da una "pompa di calore" basata su una semplice valvola da frigorifero. Energia da una falda acquifera (Repubblica/Parma del 14/04/2012)
Potere di una serpentina elettrica. Quella del frigorifero. Da sola riesce a scaldare e a raffreddare un'intera palazzina, mandando in soffitta le caldaie a metano grazie alla cosiddetta tecnologia "Bolletta zero" (con la sua variante più esotica di "Freedom Power"). Lo assicurano i responsabili della Cooperativa edile artigiana e della Enterprise Immobiliare SpA, che nel quartiere Montanara stanno costruendo sette palazzine autosufficienti in energia termica.
Il primo edificio è stato inaugurato in mattinata, invitati tutti i candidati sindaco "ai quali non daremo parola e che dovranno soltanto ascoltare, vedere e poi - come ha detto con passione Ercole Porta della Cooperativa - inserire nella futura giunta, per il 50 percento, le persone che hanno realizzato questo progetto, persone che sanno le cose: da soli, altrimenti non si fa un tubo" [...]
"Bolletta zero" è una tecnologia sulla quale nel 2007 Cooperativa Edile Artigiana decise di investire. Prima cautela: "La bolletta sarà zero - illustra Paolo Baghi della Enterprice, l'immobiliare responsabile dell'intervento nel quartiere Montanara (accanto alla tangenziale, in via Armstrong) - soltanto per quanto riguarda il riscaldamento invernale e il refrigeramento estivo, mentre si continuerà a pagare normalmente per l'elettricità dei singoli appartamenti" (..."soltanto"??? modesti... insomma, riscaldamento e condizionamento ve li paga la falda freatica. Per le lampadine e il PC dovrete provvedere da soli. NdR)
La parola magica è "pompa di calore". Il riferimento è ad una macchina "semplicissima e che, in fondo - come spiega l'ingegnere responsabile Massimiliano Paladini - è stata inventata nell'Ottocento, basata sul funzionamento reversibile di una normale serpentina da frigorifero". La pompa attinge acqua da una falda acquifera sottostante, da fiumi sotterranei non potabili: la macchina ne preleva il calore, misurato di solito sui 10 gradi centigradi, per poi riportare l'acqua nella falda. "A quel punto la pompa di calore compie il miracolo di trasformare quei gradi centigradi in energia termica per il nostro appartamento, dunque in riscaldamento o, essendo la serpentina utilizzabile anche all'inverso, in aria fresca per l'estate".
Niente di nuovo, cose vecchie e risapute ma rimaste finora tabù come conferma Paladini: "Fino a poco tempo fa si preferiva non provare neppure a parlare di falde acquifere come fonte di energia, ora per fortuna si sono generate combinazioni favorevoli, dalle leggi regionali alla presenza di una falda qui in zona Montanara, che hanno reso possibile tirare fuori dal cassetto quanto di più buono l'uomo abbia mai inventato e quanto di migliore la tecnica offra da secoli".
Il cerchio si chiude grazie ai pannelli solari, necessari ad immagazzinare calore che - trasformato in energia elettrica - serve ad alimentare, oltre che ascensore e illuminazione condominiale, proprio la pompa di calore. Applauso, aperitivo in via Armostrong. Muto però Bernazzoli e i suoi colleghi. "Siamo in campagna elettorale - dicono Baghi e Porta - devono solo ascoltare".
La parola ce l'ha invece Paolo Giandebiagi, l'architetto che ha progettato le sette palazzine: "Il Psc relativo - ha spiegato - risale a metà anni Novanta, la progettazione alla fine di quel decennio. Avevamo a disposizione 138mila metri quadrati, ne abbiamo usato solo 38mila, credo che sia il primo caso a Parma, una scelta precisa di stop al consumo di suolo". Tutte le palazzine sono inoltre ascritte alla classe A nella scala dei consumi energetici: la più economa e all'avanguardia (riscaldamento radiante a pavimento, pareti coibentate eccetera). Prezzo, naturalmente: bilocali da 52 metri quadrati più balcone a 135mila euro. "Siamo nella norma, dentro la logica di mercato, sui 2300 euro al metro quadrato"dicono dalla Cooperativa artigiana. (m. s.)
Che dire? Quando leggo nel programma-minchiata del comico genovese che vuole costringere gli enti pubblici a ridurre del 10% il consumo di metano per riscaldamento in 5 anni (wow!), e poi leggo di questo progetto - anzi, di questa realtà - che azzera i costi totali in zero anni, facendo case a prezzo di mercato, mi chiedo quale virus di ebola abbia potuto erodere il cervello di un paio milioni di italiani che applaudono un guru senz'arte né parte, che chiama "Checca" Vendola", "vecchio" Bersani, "non statuto" lo statuto, e che in temi quali l'immigrazione ha sposato le più becere teorie di Borghezio & Salvini, mi viene in mente un deprimente adagio: "...ogni paese ha la classe politica che si merita..."
Tafanus.
Scritto il 17 aprile 2012 alle 13:53 nella Ambiente, Economia, Tennis | Permalink | Commenti (3)
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Lavoratori dipendenti, pensionati, esodati. Pesa sulle loro spalle il grosso della stangata salva-Italia. Mentre rentier, professionisti, banche e imprese...
(di Stefano Livadiotti e Maurizio Maggi - l'Espresso)
In sette anni un balzo indietro di un quarto di secolo. Tra il 2007 e il 2014 il reddito disponibile pro capite, ovvero quanto resta in tasca ai cittadini dopo aver pagato le tasse (e incassato i sussidi pubblici), tornerà al livello del 1986: 28 anni perduti. La recessione da un lato e l'urgenza di aggiustare i conti pubblici stanno provocando una poderosa marcia indietro dell'economia italiana che è ben illustrata dal grafico qui sopra, elaborato da Prometeia e basato sulle previsioni della società di ricerca fino al 2014, l'anno in cui dovrebbe esserci un po' di ripresa.
È il salatissimo tributo che prima il morente governo di Silvio Berlusconi poi quello tecnico di Mario Monti hanno chiesto agli italiani. Nel pieno di una recessione a due stadi una manovra da almeno 81 miliardi a regime (nel 2014), con la beffa di un'appendice non prevista per finanziare la riforma del mercato del lavoro. Dall'articolato che doveva aumentare la flessibilità in entrata e in uscita dei lavoratori è spuntato infatti un altro pugno di tasse: taglio alla deducibilità fiscale per le auto aziendali, stangata sui proprietari di case che affittano senza usare il sistema fofettario di tassazione del 20 per cento, due euro di aumento per la tassa di imbarco sugli aerei, riduzione della deducibilità della quota Rcauto destinata al Servizio sanitario nazionale.
Tasse, tasse, tasse e ancora tasse: un'ossessione. Il cui impatto non è ancora stato percepito del tutto dall'opinione pubblica. Sarà anche vero che l'obiettivo di riconquistare la fiducia dei mercati internazionali e di avviare il riequilibrio tra entrate e spese pubbliche era, ed è tuttora, prioritario ma la mazzata è pesante. Paolo Onofri, l'economista che guida Prometeia, descrive questo scenario per l'Italia da qui al 2020: "La crescita media annua non andrà oltro lo 0,5-1 per cento; il Pil tornerà al livello del 2007 soltanto nel 2019; il deficit pubblico sarà azzerato nel 2014; lo spread si abbasserà a 100 punti base nel 2018". Se tutto va bene. E non è detto. Perché in mezzo ci sono le elezioni e nulla garantisce che il futuro governo riesca a garantire un avanzo primario (entrate meno uscite al netto degli interessi) del 4-5 per cento per altri otto anni almeno. E poi ci sono le incognite internazionali: la stabilità dell'Euroarea dove il contagio si estende subito dai paesi che non rispettano gli impegni agli altri; la ripresa americana; la tenuta della locomotiva cinese (vedere l'articolo di Minxin Pei a pag. 150). I progressi dell'Italia nel controllo dei conti pubblici rischiano di essere vanificati dalle tensioni di ogni tipo che riportano in su lo spread e fanno crollare gli indici di Borsa. Come sta succedendo in questi giorni a causa dei brutti dati sulla creazione di posti di lavoro negli Stati Uniti oppure del cattivo esito di un'asta di titoli di Stato spagnoli.
Monti è stato onesto quando, nel corso del recente viaggio a Pechino, ha ammesso che il cocktail di tasse, balzelli e rincari è "rozzo". Ma ha aggiunto che, senza bere questo amaro calice, l'Italia rischiava di finire come la Grecia. Il risultato è che la sequenza di manovre a base di inasprimenti fiscali costerà alle sole famiglie qualcosa come il 3,5 per cento del Pil: 55 miliardi, euro più euro meno. E la contropartita di questo salasso senza precedenti è, di fatto, sopravvivere: con una crescita del Pil pari allo 0,5 per cento annuo la prospettiva di recuperare il reddito e i 900 mila posti di lavoro che sono scomparsi nei sette nerissimi anni della crisi è molto lontana. Le famiglie avranno meno margini per indebitarsi con le banche, saranno costrette a ridurre la propensione al risparmio per mantenere il più possibile invariato il tenore di vita, in molti casi dovranno intaccare la ricchezza accumulata vendendo attività finanziarie e immobili.
È questo, oltre a un (robusto) pizzico di equità in più, che manca nel pur grande sforzo compiuto dal governo Monti: la speranza di una rapida inversione di rotta. Accontentarsi di essere riusciti a evitare la catastrofe del default e di aver riassaporato per un attimo il gusto di uno spread sotto ai 300 punti non basta. Il problema è oggi rianimare un sistema spremuto, reduce da un arretramento di proporzioni bibliche che di fronte a sé ha solo la prospettiva di non soccombere, trascinandosi per anni con tassi di crescita micragnosi. Mentre tutt'intorno ancora la Grecia, il Portogallo e la Spagna minacciano di travolgere l'area dell'euro con le loro difficoltà.
E allora "l'Espresso" è andato a vedere in quali tasche hanno frugato gli ultimi governi per capire quali sono stati gli effetti dei vari provvedimenti su diverse macrocategorie di contribuenti, a chi sono richiesti i sacrifici più pesanti per arrivare al tragurado del pareggio di bilancio nel 2013. Ne è uscita una classifica in cui nessuno vorrebbe primeggiare e che assegna la maglia rosa, come sempre, a chi, più di tanto, non può prendere scorciatoie. Come i pensionati, i lavoratori dipendenti, i proprietari di case. E chi possiede un'automobile. Il tentativo di raddrizzare la barca fa perno su di loro.
PROPRIETARI DI CASE - Botte da orbi sui proprietari di case, e cioè sul 75 per cento circa degli italiani, che dal 2012 dovranno fare i conti con l'Imu, l'imposta municipale unificata varata in sostituzione della vecchia Ici e dalla quale è atteso un gettito per le casse delle Stato di 21,4 miliardi (tenendo conto anche degli immobili non residenziali). Con l'Imu torna a essere tassata la prima casa. Non solo. L'aliquota sale dallo 0,4 allo 0,76 per cento e si applica su un valore catastale (che in futuro sarà calcolato sui metri quadrati e non più sui vani) ottenuto moltiplicando per 160 (invece che per 100) la rendita rivalutata del 5 per cento. Dall'imposta dovuta per l'abitazione principale si detraggono 200 euro. Prima però bisogna fare i conti con i Comuni, cui è lasciata la facoltà di aumentare (fino all'1,06 per cento) o di diminuire (entro lo 0,3 per cento) l'aliquota di base. In corsa si è aggiunto il taglio dello sconto fiscale per chi incassa l'affitto.
BANCHE: PAURA RIENTRATA - Sembrava in arrivo una sberla da 2 miliardi di euro con l'abolizione delle commissioni sulle linee di credito. Ma la rivolta dei banchieri ha fatto cancellare la nuova norma, alleggerendo assai gli effetti delle manovre governative sugli istituti di credito. Che sono obbligati ad aprire un conto corrente senza nessuna spesa per i pensionati che non ce l'hanno e incassano una pensione di massimo 1.500 euro al mese e rinunciare alle commissioni sulle carte di credito quando si fa rifornimento di carburante fino a100 euro.
Inoltre, devono sveltire i tempi per la surroga dei mutui: dopo 10 giorni scattano penali fino all'1 per cento del valore del prestito. E se vogliono che il cliente assicuri il mutuo che sta per accendere, gli devono sottoporre due preventivi di compagnie senza legami con il gruppo bancario che eroga il prestito.
ESODATI: FIGLI DI NESSUNO - Il governo ha promesso loro un salvagente, in mancanza del quale sarebbero chiamati a pagare il contributo più salato. Sono i cosiddetti esodati, e cioè i lavoratori che dopo aver perduto o lasciato il loro posto di lavoro contando di andarsene tranquillamente in pensione si sono poi visti cambiare sotto il naso i requisiti per incassare l'assegno. In base ai primi calcoli, il ministro Fornero aveva stanziato una cifra (partendo da 240 milioni per il 2013) sufficiente a metterne in salvo 65 mila. Ma ora, mentre il presidente dell'Inps, Antonio Mastrapasqua, ha ammesso in parlamento di avere difficoltà a contarli con precisione, si dice siano invece 350 mila. Così, in attesa di conoscere le reali dimensioni del fenomeno, il governo ha garantito che ci metterà una pezza: per chi non potrà andare in pensione con le vecchie regole, potrebbe scattare un sussidio.
LAVORATORI DIPENDENTI: ADDIZIONALI ASSASSINE - Il governo Monti non ha cambiato le aliquote Irpef (per chi la paga, quindi soprattutto i lavoratori dipendenti) ma ha ritoccato le addizionali regionali. Nel decreto Salva Italia l'aliquota sale dallo 0,9 all'1,23 per cento. Ogni regione può decidere un ulteriore aumento, fino a un massimo dello 0,50 per cento. Chi vive in regioni con i conti sanitari disastrati (tipo Calabria, Campania, Lazio) potrà vedersi appioppare un balzello aggiuntivo dello 0,30 per cento. Con la media di Trilussa, ogni italiano dovrebbe sborsare 62 euro in più all'anno, considerando l'imponibile medio di 19 mila euro. Se il reddito è di 30 mila, l'aumento è di 99 euro, mentre con 50 mila euro l'incremento sale a 165 euro. Con 50 mila euro di reddito, in Calabria e Molise si pagano complessivamente 1.015 euro, nel Lazio 865 e in Sardegna 615. E se tutti i sindaci sfruttano l'addizionale Irpef
comunale massima (0,80 per cento)? Per i cittadini, altra botta da 1,7 miliardi.
IMPRESE: TRA SCONTI E MAZZATE - Le imprese hanno "avuto" (sgravi per chi ricapitalizza, deducibilità del costo del lavoro dall'Irap, sconti per giovani e donne) ma dovranno pure aprire il portafoglio. La riforma del mercato del lavoro dovrebbe aumentare complessivamente le loro spese di 1,7 miliardi nel 2013 e di 2,9 miliardi l'anno dopo. L'Imu costerà 1,5 miliardi di euro in più solo per gli immobili produttivi: un miliardo, secondo la Cgia di Mestre, graverà su industriali e artigiani, con un maggior esborso medio di 1.566 a testa. L'aumento peserà per almeno 225 milioni sui terreni, agricoli e non. Le aziende che sfornano prodotti alimentari, per la cura del corpo e della casa, pagano l'aumento dell'Iva, che accresce i prezzi e deprime le vendite. Ogni punto di Iva in più, secondo Centromarca, lima mezzo punto di consumi. E se in autunno scatterà l'aumento dal 21 al 23 per cento gli acquisti caleranno ancora.
RISPARMIATORI: DEPOSITI SALVI - Chi ha scelto i sempre più gettonati conti di deposito o tieni i quattrini sul conto corrente è contento perché il prelievo fiscale sugli interessi dei depositi è sceso dal 27 al 20 per cento. Ma è l'unica nota positiva. Su tutti gli strumenti finanziari, infatti, da quest'anno grava l'imposta di bollo (con l'esclusione dei fondi pensione, dei fondi a carattere sanitario e i buoni fruttiferi postali per somme sotto i 5 mila euro). I risparmiatori dovranno tutti sganciare 34,20, ai quali va aggiunta un'imposta calcolata in modo proporzionale: pari allo 0,10 per cento della somma, fino a un massimo di 1.200 euro, per i depositi fino a 1,2 milioni di euro, per il 2012. L'anno prossimo il balzello salirà allo 0,15 per cento e sparirà il tetto massimo. L'imposta di bollo colpisce azioni, titoli di Stato, fondi comuni, obbligazioni, polizze assicurative dal contenuto finanziario.
AUTOMOBILISTI: CARISSIMO PIENO - Categoria trasversale e bacchettatissima. Nell'ultimo anno, le quattro ruote hanno ricevuto varie mazzate. In un mercato già depresso, l'aumento dell'1 per cento dell'Iva - dal 20 al 21 per cento - è stata la ciliegina avariata su una torta che si sta afflosciando. E il decreto Salva Italia prevede un possibile ulteriore rialzo, in ottobre, fino al 23 per cento, se i conti pubblici lo richederanno. Sul groppone è arrivato pure l'incremento dell'Ipt, l'Imposta provinciale di trascrizione: le province possono aumentarla fino al massimo del 30 per cento, la maggioranza lo farà. La bastonata più pesante arriva però dall'aumento delle accise sui carburanti, che ormai pesano più del 50 per cento della benzina o del gasolio alla pompa. Cattive notizie pure dal fronte assicurativo: l'aliquota dell'imposta sull'Rc Auto può essere incrementata o limata del 3,5 per cento. Inutile dire che la maggior parte delle province ha optato per l'aumento.
PENSIONATI: TOSATURA GENERALE - Stretta sulle pensioni di anzianità che diventano "anticipate": per il 2012 serviranno 42 anni e un mese di contribuzione per gli uomini, 41 e un mese per le donne, a prescindere dall'età, ma con una penalizzazione per chi esce prima dei 62 anni. Innalzamento dei requisiti per gli assegni di vecchiaia (da 65 a 66 anni; da 60 a 62 anni per le donne del privato). Passaggio al sistema di calcolo contributivo per le anzianità maturate dal 2012 anche per chi aveva più di 18 anni di versamenti nel 1995. Adeguamento dei requisiti ai dati sulla speranza di vita. Soppressione per due anni dell'indicizzazione per le pensioni superiori a tre volte il minimo (circa 1.400 euro al mese). La riforma non ha salvato nessuno. Lo dice la relazione al provvedimento: risparmi per oltre 12 miliardi nel 2017 e per 15,261 miliardi nel 2021.
RENTIER: PAGANO PURE LORO (Moderatamente) - Sì, i ricchi stavolta un po' pagano. Anche se hanno evitato la patrimoniale, nemica giurata di chi vive di rendita. Il manipolo dei 30 mila contribuenti sopra i 300 mila euro di reddito deve sborsare il contributo di solidarietà del 3 per cento. I possessori di case di lusso (anche all'estero) sono colpiti dall'Imu e dalla rivalutazione delle rendite catastali. Capitolo scudo fiscale: sui capitali "scudati" rimasti fuori dall'Italia a fine 2011 è dovuta un imposta di bollo del 4 per mille; quest'anno l'imposta sale all'1 per cento e all'1,35 per cento nel 2013. Uno 0,1 per mille (che dal 2013 diventa 0,5) grava sulle attività finanziarie regolari oltre confine. Pesanti i balzelli sulle auto di lusso potenti (20 euro a kiloWatt dopo la soglia di 185) e sui posti barca: 5 euro al giorno dai 10,1 ai 12 metri fino a 703 euro al giorno per gli yacht oltre i 64 metri. Persino gli aerei executive sono finiti nel mirino: in questo caso la tassa va a peso.
STATALI: GIÀ DATO A TREMONTI - Il contributo di solidarietà (una trattenuta del 10 per cento sulle buste-paga oltre i 90 mila euro) l'aveva introdotto già nel 2010 Giulio Tremonti da inquilino di via XX Settembre. E lo stesso vale per il blocco dei contratti stabilito esplicitamente per il 2010-2012 ed implicitamente (non sono infatti previsti stanziamenti in bilancio) per il triennio successivo e quello dell'organico (fino al 2013 si può fare un'assunzione per ogni cinque persone che lasciano il lavoro). Alla norma che consente agli enti pubblici di procedere al licenziamento per giustificato motivo economico-finanziario aveva invece già pensato l'allora ministro Renato Brunetta. Se non si può certo dire che fosse stato raschiato il fondo del barile nello sgangherato mondo del pubblico impiego, è dunque vero che al governo Monti restavano margini di manovra ridotti. Tipo il tetto allo stipendio dei mega dirigenti. Che puntualmente è arrivato.
COMMERCIANTI: TRA I BLITZ E LE TASSE - Sono sotto schiaffo. Mentre la Guardia di Finanza e gli 007 dell'Agenzia delle entrate intensificano i blitz a caccia di evasori, sui consumi già depressi dalla crisi incombe la minaccia di un incremento autunnale dell'Iva (dal 10 al 12 per cento quella ridotta e dal 21 al 23 per cento quella ordinaria). In più, devono fare i conti con la nuova Imu, che secondo la Cgia di Mestre, avrà un costo supplementare di 569 euro l'anno per ogni bottega, e con la deregolamentazione del regime degli orari e delle aperture degli esercizi varata dal governo: se prima si poteva stare aperti per non più di 13 ore consecutive tra le sette del mattino e le dieci della sera nei giorni feriali e nei festivi era prevista la chiusura salvo deroghe, ora c'è la possibilità di tenere le saracinesche alzate per ventiquattr'ore su ventiquattro in tutto l'anno. Costi certi e incrementi di fatturato dubbi, vista l'aria.
AVVOCATI: TARIFFARIO ADDIO - Poteva andare peggio. L'agguerrita e trasversale lobby che rappresenta la categoria nei palazzi della politica ha lavorato bene. Così, per esempio, alla fine è caduto l'obbligo per il professionista di presentare un preventivo nero su bianco, sostituito da un meno impegnativo dovere di informare il cliente sui possibili costi della causa. È passata invece la cancellazione delle tariffe minime e massime, che aumenta il potere contrattuale della clientela più forte (a partire da banche e assicurazioni) nei confronti dei 230 mila avvocati italiani (ma la novità è relativa, perché già con le lenzuolate di Bersani erano venute meno le sanzioni per la violazione delle tariffe minime). È stata inoltre introdotta la possibilità, per i soci di capitale, di controllare fino al 30 per cento delle società costituite con i professionisti del codice.
FARMACISTI: PIU' LICENZE, E NON SOLO - Le novità brutte sono due: il via libera del governo all'apertura di circa 5 mila nuovi negozi (già ce ne sono 18 mila) e l'età massima del direttore, fissata in 65 anni. "Molti titolari sono anziani e lavorano soltanto insieme a un familiare; spesso non c'è neppure un collaboratore part-time. Non hanno le possibilità finanziarie per pagare un direttore, che va nominato appena il titolare compie 65 anni. Molte farmacie sarebbero costrette a chiudere", si lamenta Annarosa Racca, presidente di Federfarma (16.700 farmacisti iscritti), che aggiunge: "E abbiamo già perso l'esclusiva sui farmaci costosi e speciali, che si possono ottenere in ospedale e all'Asl, e sui prodotti galenici e della veterinaria. Un disastro". Ma il vero pericolo, cioè la possibilità che i prodotti di fascia C tra cui il Viagra e simili fossero venduti al di fuori delle farmacie, l'hanno scampato.
NOTAI: SACRIFICI STUDIATI - Li ha ringraziati per la "sensibilità" il sottosegretario Antonio Catricalà. Perché le norme che potrebbero limare i loro introiti le hanno chieste loro, i notai. Il primo è l'aumento della pianta organica, con concorsi per 1.500 nuovi notai. Oggi le sedi notarili sono 5.779, a fine 2015 arriveranno a 6.279. Più concorrenza in un settore che, secondo il Consiglio nazionale del notariato, in quattro anni ha visto calare del 40 per cento i ricavi. Secondo punto: il notaio interverrà gratuitamente al momento della fondazione di una Srl semplificata, le nuove società promosse da giovani sotto i 35 anni con un capitale fino a10 mila euro, che nella prima stesura della legge avrebbero dovuto autocertificarsi. I notai hanno detto "occhio alle infiltrazioni mafiose", offrendosi di seguire le pratiche gratis. E la norma è cambiata.
TASSISTI: SCAMPATO PERICOLO - Considerati il simbolo della resistenza a oltranza davanti a ogni politica di liberalizzazione, i guidatori delle auto bianche hanno rischiato grosso, ma alla fine se la sono cavata abbastanza a buon mercato. La nuova autorità, che dovrà essere insediata entro il 31 maggio, non avrà poteri diretti in materia di numero di licenze e livelli tariffari: potrà solo fornire indicazioni (di sua iniziativa o su specifica richiesta) a Comuni e Regioni ed eventualmente rivolgersi ai Tar per ottenerne l'applicazione. Le altre due principali novità riguardano: la possibilità per i Comuni di disporre servizi sostitutivi a quello delle auto bianche (tipo: i taxi collettivi); l'opzione, per i titolari di licenza, di far fronte a richieste di potenziamento del servizio da parte dei municipi attraverso la cessione ad altre persone della guida del taxi al termine del normale turno di servizio. Come dire che Bittarelli & C. l'hanno sfangata ancora.
Scritto il 13 aprile 2012 alle 16:00 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (11)
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In questi giorni di calcio, palme, agnelli, gite fuori porta con la frittata di pasta, molti giornali hanno riportato con molta meraviglia la notizia che negli ultimi tre anni, nelle classi d'età under 35, si sono persi più di un milione di posti di lavoro.
Nessuno ha colto la vera notizia, tragica, che diamo a livello previsionale da anni, con testardaggine: che in un paese che invecchia, nel quale i posti di lavoro sono inchiodati da mille anni intorno ai 23 milioni, e nel quale il traguardo dell'età pensionabile (e del ricambio del personale) si sposta sempre più avanti, non poteva che succedere quello di cui finalmente sembrano accorgersi persino i nostri mitici giuslavoristi. Vediamo la tabella, presa da Repubblica di ieri:
La notizia, di fatto, non è che si siano persi 1.053.000 posti di lavoro fra gli under 35; la notizia è che i posti di lavoro persi in totale sono stati 434.000 (comunque tantissimi) fra tutte le classi d'età. Con una spaventosa variante qualitativa: 1.238.000 posti di lavoro persi fra gli under 44 (cioè fra persone nel pieno delle loro forze e del loro potenziale creativo e lavorativo), e 804.000 posti di lavoro "guadagnati" fra gli over 44.
In altri termini, come ampiamente previsto e predicato da anni, da noi e da altri non-giuslavoristi, spostare sempre più avanti l'età della pensione non permette un ricambio generazionale, lascia al lavoro persone stanche, demotivate, e costose, e crea masse di giovani sfiduciati, sbandati, senza futuro, e pronti a qualsiasi richiamo, anche eversivo. Cos'hanno da perdere?
Una ultima considerazione: negli anni del baby-boom, 1.238.000 persone rappresentavano grosso modo 15 mesi di nascite. Da quando la natalità italiana (insieme a quella giapponese) è scesa ai livelli più bassi al mondo, ciò che stiamo combinando in Italia significa, sic et simpliciter, che in tre anni siamo riusciti a rimandare l'età d'ingresso al lavoro dei nati in circa due anni e mezzo. Una tragedia epocale.
Credo che se non ci sarà una seria, profonda inversione di rotta, l'Italia potrebbe ritrovarsi, fra non molto, a vivere una nuova stagione di anni di piombo. E non è certo un augurio, il mio, ma solo un grande, profondo, fondato timore.
Tafanus.
Scritto il 08 aprile 2012 alle 23:24 nella Economia, Lavoro, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (7)
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Crolla l'occupazione giovanile: -14,8% in un anno. Persi più di un milione di posti di lavoro fra gli under 35. Ma non c'è nessun problema! Adesso, col nuovo art. 18, le cose potranno persino peggiorare. E non dobbiamo sottovalutare il fatto che le forme di precariato col governo Monti si sono drasticamente ridotte: da 46 a 45. Insomma, i nostri ggiovani hanno un grande futuro alle spalle. Tafanus
Scritto il 07 aprile 2012 alle 17:22 nella Economia, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (5)
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Professor Monti, ci farebbe capire se le modifiche all'inguardabile legge che aveva in mente le ha fatte per far fessi e contenti i sindacati e i partiti di sinistra, o perchè intende in buona fede rispettare gli accordi così faticosamente raggiunti?
Una riforma «importante, difficile da capire e da spiegare», magari anche «controversa» ma per Mario Monti resta il fatto che quella sul mercato del lavoro rappresenta uno dei «passi vitali, necessari verso un’Italia più moderna». E da Napoli, Monti dedica anche un’importante sottolineatura sul delicato tasto dei reintegri: «Le imprese sono insoddisfatte perchè avrebbero voluto la sparizione della parola reintegro», dalla riforma dell’articolo 18, «ma col tempo capiranno che ciò avverrà in presenza di fattispecie - sottolinea - molto estreme e improbabili» [...]
Scritto il 05 aprile 2012 alle 21:08 nella Economia | Permalink | Commenti (3)
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LA STRANA CARRIERA DI FRANCESCO BELSITO - Un curriculum accademico di tutto rispetto, di fronte al quale quello del sedicente prof. Mario Monti impallidisce...
Francesco Belsito (nato a Genova nel 1971) inizia come buttafuori in locali notturni di Genova. Alla nascita di Forza Italia, si fionda dentro (il partito è di bocca buona) e diventa portaborse, gorilla ed autista di Alfredo Biondi. Nel 2002 (e fino al 2005) transita nella Lega Nord, che lo catapulta nella posizione di Capo della Segreteria del Presidente del Consiglio Regionale della Liguria. Nella XIV legislatura ricopre l'incarico di consigliere del sottosegretario agli Interni.
Dal 2007 al 2010 è stato nominato vice segretario nazionale della Lega Nord per la Liguria, e dal 2009 ricopre incarichi nella Lega Nord Nazionale come Tesoriere del partito, al posto del predecessore Maurizio Balocchi, del quale eredita anche la carica di Sottesegretario di Stato con delega alla Semplificazione. Nel 2010, sempre per merito, suppongo, conquista la carica di Vice Presidente di Fincantieri (...qualora qualcuno volesse capire perchè la Fincantieri è oggi tecnicamente fallita... NdR)
Ma naturalmente le ragioni di una carriera così brillante (da buttafuori a Vice Presidente di Fincantieri, sottosegretario, tesoriere della Lega) è da ricercarsi esclusivamente nei suoi meriti professionali e nei suoi titoli accademici. Francesco Belsito è uno che ha studiato. Doppia laurea. Una in Scienze della Comunicazione, conseguita presso un diplomificio di Malta, non riconosciuto in Italia; la seconda addirittura in Scienze Politiche in una Università di Londra. Ma all'Università di Genova (che - come è noto - è formata da comunisti e da terroni) il suo curriculum scolastico è totalmente azzerato. Raso al suolo.
Ma non è tutto: anche il diploma che da perito tecnico che avrebbe preso - chissà perchè - in un istituto privato del Napoletano, risulta falso. Belsito non risulta nella lista degli esaminandi, e la firma del Preside sul Diploma risulta falsa. Questo diplomificio inoltre è stato chiuso, pochi anni dopo, per compravendita di esami...
Belsito e Bossi: mano sul cuore, o sul portafogli?
I guai giudiziari di Belsito iniziano il 10 gennaio 2012 quando Belsito, in qualità di Tesoriere della Lega Nord, stanzia oltre 7 milioni di rimborsi elettorali in investimenti in paesi stranieri (e talvolta strani...) come Tanzania, Cipro e Norvegia. Emergono poi altri movimenti interessanti dell'anno precedente (che fanno lamentare a Belsito la violazione del segreto bancario) sui conti correnti liguri della Lega [...]
La vicenda, per la quale Belsito è stato indagato dalla Procura di Milano (in collaborazione con altre procure della penisola), avrebbe provocato numerose reazioni di disappunto tra i militanti ed esponenti del partito. Lo stesso Umberto Bossi è stato costretto a chiarire di aver approvato personalmente le operazioni di Belsito e di aver investito all'estero invece che in Btp italiani perché a suo dire l'Italia era a rischio default (... la Tanzania e Cipro, viceversa, erano paesi di tutto riposo... NdR)
In Marzo 2012, attraverso un' operazione congiunta tra le procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria, con un'inchiesta sui finanziamenti della Lega, Belsito viene indagato per le ipotesi di reato di appropriazione indebita e truffa aggravata ai danni dello Stato, proprio in relazione ai finanziamenti pubblici che la Lega percepisce come rimborsi elettorali. E' la prima volta che una procura formula una costruzione giuridica che ritiene di contestare come truffa ai danni dello Stato l'indebita percezione dei rimborsi elettorali da parte di un partito politico.
Oggi, infine, la notizia clamorosa: Belsito avrebbe dichiarato di aver compiuto alcune operazioni nell'interesse della famiglia Bossi. Fine della parabola discendente del proprietario del copyright "Roma Ladrona". I ladroni abitano anche a Cassano Magnago? Tafanus
Scritto il 03 aprile 2012 alle 17:19 nella Criminalità dei politici, Economia, Tafanus | Permalink | Commenti (0)
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(di Tito Boeri 30.03.2012)
Il Governo insiste che non cambierà una virgola della riforma del lavoro. Ma la riforma ancora non c’è. Due lettere inviate ai quotidiani nei giorni scorsi dai ministri Fornero e Patroni Griffi hanno chiarito che non è affatto chiaro ciò su cui politici, tecnici e parti sociali “si stanno scazzottando” (l’espressione è di uno dei pugili, Pierluigi Bersani).
La prima lettera ci informava del fatto che il Governo deve ancora definire il regime che si applicherà alle partite Iva e che “le proposte saranno messe a punto entro pochi giorni”. La seconda lettera sosteneva che la riforma comunque non si applicherà al pubblico impiego, contravvenendo al testo licenziato solo due giorni prima dal Consiglio dei Ministri e aprendo conflitti fra dipendenti pubblici e privati nonchè possibili problemi di costituzionalità della riforma.
Non si tratta certo di aspetti secondari. Coinvolgono milioni di lavoratori. Questi “chiarimenti” che intervengono dopo settimane di tira e molla nella cosiddetta concertazione, riunioni Abc che annunciano accordi sul testo elaborato dal tavolo e, infine, un Consiglio dei Ministri che ha approvato la riforma, ci pongono alcuni quesiti inquietanti. Di cosa hanno mai discusso al tavolo? Di cosa si è parlato in tutto questo tempo se nodi così essenziali non sono ancora stati definiti? Su cosa ci si è confrontati nei tavoli tecnici? E come è possibile che il confronto politico possa aspirare ad una sintesi, fondata su soluzione pragmatiche anziché contrapposizioni ideologiche, se non c’è una base di proposte ben definite da cui partire? Attorno a cosa bisogna aspirare a raccogliere il consenso? Ancora, perché alimentare ansie di lavoratori e datori di lavoro annunciando provvedimenti ancora non ben definiti? Perché creare cosi tanta inutile incertezza attorno al modo con cui verranno regolati in futuro i rapporti di lavoro?
Mai forse come in questo caso il diavolo è nei dettagli. Per definire questi dettagli bisogna scrivere un testo di legge e simulare gli effetti, i costi, di diverse alternative. Invece di molti richiami di circostanza ad un confronto civile e meno ideologico, dovremmo tutti chiedere al governo: per favore dacci un articolato!
Scritto il 03 aprile 2012 alle 08:00 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (2)
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Volete sapere perchè l'establishment dell'energia tradizionale è così "scettica" sul futuro delle rinnovabili? Eccovi serviti:
Allarme del presidente dell'azienda elettrica Andrea Colombo: "Più fonti verdi e meno consumi, le centrali tradizionali faticano a guadagnare". Nel mirino gli incentivi a eolico e fotovoltaico (di Valerio Gualerzi - Repubblica)
Il boom nella produzione di energia rinnovabile, arrivata ormai a coprire oltre un quarto del fabbisogno nazionale di elettricità, unito a consumi ormai da anni stabili o in calo, rende sempre più mariginale la necessità di produrre energia dalle centrali tradizionali, costringendole a lavorare a scartamento ridotto, con pesanti ripercussioni sulla loro redditività.
A lanciare quello che per i grandi produttori di energia è un allarme rosso è il presidente dell'Enel Paolo Andrea Colombo. "Lo sviluppo delle rinnovabili, unito alla stagnazione della domanda, sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendone a rischio la possibilità di rimanere in esercizio", ha lamentato oggi Colombo [...]
(continua su www.repubblica.it)
Scritto il 30 marzo 2012 alle 18:26 nella Economia | Permalink | Commenti (4)
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Dopo le recenti discussioni su nucleare ed energie rinnovabili, capita come il cacio sui maccheroni questo articolo di Stefano Vergine sul progetto "Desertec". E con questo forse dovremmo porre fine a qualsiasi diatriba sull'argomento. Ecco uno stralcio dell'articolo:
Si chiama Desertec. È un progetto faraonico. Per generare e portare in Europa energia dal deserto. La centrale, potente come una nucleare, partirà entro l'anno. Ecco come funzionerà
Sfruttare il sole africano per creare energia pulita. Sembrò un'idea fantastica quella del fisico tedesco Gerhard Knies che nel 1986 riassunse le sue ricerche in questa frase: "In sole sei ore arriva nel continente africano una quantità di energia solare pari a quella consumata nel mondo in un anno intero". Insomma, se solo in una piccola parte del deserto del Sahara fossero installate strutture capaci di trasformare quella luce in energia, l'Europa avrebbe risolto buona parte dei suoi problemi. E a 25 anni di distanza, l'utopia è diventata un progetto. Si chiama Desertec, ha tra i sostenitori parecchi pesi massimi dell'industria europea e vanta un doppio obiettivo. Da un lato fornire elettricità alle popolazioni di Nord Africa e Medio Oriente; dall'altro importare verso Nord l'energia in eccesso, diminuendo così la nostra dipendenza dai combustibili fossili.
Per la precisione, Desertec punta a soddisfare entro il 2050 l'intero fabbisogno energetico di Nord Africa e Medio Oriente, oltre al 15 per cento delle necessità europee. E vuole farlo costruendo una immensa rete di impianti solari ed eolici connessi al Vecchio Continente attraverso dei cavi sottomarini. Le incognite però non mancano. A partire dal finanziamento necessario per realizzare il progetto. Per finire alle incognite sulla stabilità politica dell'area. E poi gli interrogativi tecnici: gli impianti reggeranno alle tempeste di sabbia del Sahara? Ci sarà abbastanza acqua per farli funzionare? E alla fine, l'energia sarà davvero conveniente per i consumatori?
Ma i soci di Desertec Industrial Initiative (DII), il consorzio a maggioranza tedesca promotore dell'iniziativa, non sembrano preoccupati. Alla fine dell'ottobre scorso, Ernst Reuch, amministratore delegato di Munich Re, gigante assicurativo e socio forte di Dii, annunciava che i lavori di costruzione della prima centrale inizieranno quest'anno. Un'accelerazione di marcia improvvisa, visto che nel 2009, quando il consorzio fu creato, la data d'inizio era fissata al 2015. Il primo tassello di Desertec dovrebbe sorgere nella città marocchina di Ouarzazate, ultimo avamposto urbano prima del Sahara: una centrale solare da 500 MW, che per intenderci equivale a quanto può produrre un impianto nucleare. La centrale marocchina costerà circa 2 miliardi di euro e sarà costituita da quattro impianti fotovoltaici e due solari termodinamici.
Proprio su quest'ultima tecnologia sembra voler puntare Dii. A differenza del fotovoltaico, dove l'energia solare viene convertita in elettricità grazie ai semiconduttori (solitamente il silicio), nel solare termodinamico la luce viene riflessa da una serie di specchi verso un tubo al cui interno scorre un fluido. Raggiunta la temperatura ideale, il fluido (oli o sali fusi) finisce dentro uno scambiatore di calore dove produce vapore che, come in qualsiasi centrale termica, aziona una turbina da cui si genera elettricità. Il vantaggio principale è che, a differenza di eolico e fotovoltaico, grazie alla possibilità di accumulare calore, il solare termodinamico permette di produrre elettricità senza sosta. Proprio come una centrale a gas o a carbone. Con il vantaggio di emettere una quantità di gas serra infinitamente più bassa. Inoltre i pannelli sono ormai quasi tutti fatti in Cina, mentre il solare termodinamico è una tecnologia finora prodotta per gran parte in Europa. In Germania, in particolare. Le tedesche Siemens e Schott Solar, entrambe azioniste di Dii, sono tra le poche società al mondo capaci di realizzare i tubi di vetro attraverso cui scorre il liquido riscaldabile.
Per preparare il terreno, a metà dicembre Dii ha firmato un memorandum di intesa con Sonelgaz, il monopolista algerino di gas ed elettricità. Anche con la Tunisia del dopo Ben Ali i contatti per installare impianti sono stati già avviati, mentre resta per ora il silenzio sulle trattative con Egitto e Libia. Di certo a far parte del Desertec non sarà solo il Marocco, sicuramente oggi tra i paesi nordafricani più stabili a livello istituzionale e già dotato di un collegamento con l'Europa grazie a due cavi sottomarini con una capacità complessiva di 1.400 megawatt che arrivano in Spagna.
Proprio quello del trasporto è un problema ancora tutto da risolvere. Per ora Desertec ha firmato un accordo quadro con Medgrid, un consorzio a maggioranza francese composto da operatori delle reti europee, ma di progetti concreti ancora non ce ne sono. E diversi analisti sostengono che Medgrid, più che un consorzio complementare al Desertec, sia un progetto concorrente. Spiega Stefano Casertano, docente di Politica Internazionale all'Università di Potsdam, in Germania: ""In teoria Desertec produce e Medgrid trasporta, ma la pressione esercitata da Parigi perché Medgrid vedesse la luce e partecipasse all'impresa, unita alla presenza nel consorzio di aziende transalpine come Alstom e Areva, tradizionalmente produttrici di energia, lascia credere che la Francia non si voglia accontentare di mettere i cavi sott'acqua e stare a guardare i tedeschi che installano miliardi di euro d'impianti solari". Insomma una battaglia tra Francia e Germania che si è già fatta sentire con l'acquisto della società israeliana Solel, leader nella realizzazione di impianti solari termodinamici, conquistata infine da Siemens con un'offerta da 400 milioni di dollari che ha sbaragliato la concorrenza delle transalpine Alstom e Areva.
Per realizzare l'intero progetto, linee di trasmissione comprese, Dii ha ipotizzato che da qui al 2050 saranno necessari 400 miliardi di euro. La cifra è enorme, ma i nomi degli azionisti fanno pensare che alla fine, recessione permettendo, i quattrini si troveranno. Mettendo insieme i due consorzi emerge il gotha dell'economia europea: ci sono le tedesche E.on, Siemens, Rwe e Deutsche Bank; le francesi Alstom, Areva, Edf e Saint Gobain; le spagnole Red Electrica e Abengoa; le italiane Enel Green Power, Terna e Unicredit. Una ridda di nomi che ha già attirato le critiche di chi sperava che con la rivoluzione rinnovabile non si passasse semplicemente dal petrolio al sole, ma da un modello di produzione centralizzato ad uno diffuso, dalla grande centrale controllata dalla multinazionale ai piccoli impianti installati sul tetto di ogni casa.
E l'Italia non sta a guardare
Che ruolo avrà l'Italia nello sviluppo del Desertec? Quasi sicuramente sarà un punto di passaggio dell'energia visto che, cartina alla mano, i cavi che collegheranno Africa e Europa potranno passare sul nostro territorio, su quello greco e su quello spagnolo. Qui in prima fila c'è Prysmian, leader mondiale nella produzione di cavi, che vicino a Pozzuoli ha uno stabilimento di oltre 400 dipendenti dove si realizzano proprio quelli sottomarini. Nel consorzio Medgrid ci sono anche i francesi di Nexans, grandi concorrenti della ex Pirelli Cavi.
Non ci sono però solo i cavi. "I grandi vantaggi dovrebbero riguardare la nostra intera industria, perché abbiamo tutte le condizioni per ospitare una filiera completa", dice Cesare Fera, presidente Anest, l'associazione italiana che raccoglie 25 aziende attive nel settore del solare termodinamico, tecnologia candidata a diventare simbolo del Desertec.
Tra i soci italiani di Desertec e del francese Medgrid ci sono Enel Green Power, Terna e Unicredit. Nessuno di questi produce tecnologia. Eppure è stato il premio Nobel per la fisica, Carlo Rubbia, a inventare i tubi ricevitori a sali fusi, cuore di questo genere di impianti. Nonostante ciò, in Italia il solare termodinamico non si è ancora sviluppato. L'unica produzione arriva dalla mini-centrale di Priolo Gargallo (Siracusa), basata proprio sulla tecnologia inventata da Rubbia e messa in funzione dopo dieci anni di difficoltosa gestazione grazie a una collaborazione tra Enel ed Enea.
"È mancata la volontà politica per uno sviluppo del settore", sostiene Fera. Il Conto energia attualmente in vigore promette incentivi per 125 milioni di euro all'anno per 25 anni, ma secondo Anest i vincoli tecnologici e autorizzativi sono troppo stringenti. Il risultato è che mentre in Spagna ci sono 15 centrali funzionanti e 18 in costruzione, per un totale di 2.500 MW, in Italia ci dobbiamo accontentare dei 5 MW di Priolo Gargallo e dei 180 MW in corso di autorizzazione: oltre dieci volte in meno. L'associazione che raccoglie i produttori italiani di specchi, tubi e motori non ha perso però le speranze. Spiega Fera: "Meglio di noi hanno fatto anche Germania e Usa. Ora però, con il nuovo governo, sembra che le cose stiano cambiando. Il ministro dell'Ambiente, Corrado Clini, dovrebbe varare a breve un decreto per stimolare lo sviluppo di una filiera in Italia ed evitare, come accaduto già con i pannelli fotovoltaici e le pale eoliche, che anche questa tecnologia rinnovabile diventi un prodotto made in China". Anche perché i campioni nazionali non mancano. Nel 2009 la tedesca Siemens ha voluto creare una joint venture con Angelantoni, azienda umbra che per prima ha sviluppato industrialmente i tubi ricevitori a sali fusi inventati da Rubbia. Proprio quei componenti che potrebbero trasformare in elettricità il sole del Sahara.
(di Stefano Vergine - l'Espresso)
Scritto il 30 marzo 2012 alle 17:19 nella Ambiente, Economia, Scienza | Permalink | Commenti (19)
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Prima che la surreale discussione sull'art. 18 si surriscaldasse - per i concetti e i toni della Signora Fornero, e del suo ministro Mario Monti, lo spread btp-bund era sceso fino a 275 punti. Oggi, dopo circa tre settimane di cieca rabbia contro quei 50 reintegrati all'anno (vero problema economico dell'Italia), possiamo misurare quanto i mercati abbiamo punito SuperMario.
Già, perchè si da il caso che se l'andamento dello spread veniva sventolato come uno scudetto quando scendeva (anche da noi), non può non essere guardato con timore e sospetto quando marca una nuova retrocessione dell'Italia. E cosa è cambiato, in questi giorni? Solo la cieca rabbia dell'accoppiata Monti/Fornero contro chi chiede salvaguardia per i 357.000 "esodati" - che non è il caso di lasciar moriire di fame per l'insipienza con la quale questo governo ha trattato la materia - e contro coloro che pretenderebbero che le decisioni della magistratura sulla definizione di un licenziamento come "discriminatorio" piuttosto che come "economico", venissero rispettate. Sempre, quando sono favorevoli al padrone, e quando sono favorevoli al lavoratore.
Inoltre, una vertenza che fra persone perbene si risolverebbe in un'ora di riunione, con questo governo quei maledetti 50 reintegri all'anno sono diventati la linea del Piave. E il Parlamento, esattamente come da scuola berlusconiana, è diventato non il depositario del potere legislativo (uno dei poteri su cui si reggono le democrazie), ma un impaccio, che impedisce a King Mario e a questa Fornero, ridicola epigona di Margareth Tatcher, di fare a pezzi alla svelta questi rompiscatole di lavoratori. Per cui i mitici mercati hanno capito che se questo governo continua con questa stupida arroganza, non vivrà a lungo.
E oggi il nuovo totem - lo spread - è risalito dal minimo degli ultimi mesi di 275 punti, al massimo odierno di 350 punti. Settantacinque punti in più, che a regime significano un costo per interssi risalito di 15 miliardi di euro all'anno. E questa cifra equivale a spanne al costo di un sussidio di sussistenza di 1.000 euro al mese non a 357.000 esodati, ma al triplo: a un milione e 250mila esadoti. Dei 50 reintegri all'anno invece mi rifiuto di parlare, perchè continuo a considerarla una abissale minchiata, che creerà sia alle finanze pubbliche - e sia, in prospettiva, alle aziende - un danno economico ben più grave del costo dei 50 reintegri.Tafanus.
Scritto il 29 marzo 2012 alle 21:41 nella Economia, Lavoro, Leggi e diritto, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (2)
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...mentre il mondo si trastulla ancora col nucleare, che attualmente copre il 5% del fabbisogno energetico globale...
Presentato il rapporto di Legambiente "Comuni rinnovabili". Grazie alla produzione di 400 mila impianti diffusi sul territorio le rinnovabili coprono il 26% dei consumi nazionali. Il ministro Clini: "C'è poco spazio per altre grandi centrali termoelettriche"
ROMA - L'Italia non è completamente coperta da pannelli solari e non siamo ancora stati sfrattati da casa, eppure nel 2011 il 26,6% dell'elettricità e il 14% dell'energia totale che abbiamo consumato è stata comunque prodotta da fonti pulite. "Comuni rinnovabili", l'annuale rapporto realizzato da Legambiente, ha tra i tanti meriti soprattutto quello di ricordarci come un lento e silenzioso cambiamento dal basso ha rivoluzionato negli ultimi anni il sistema energetico italiano, smentendo i catastrofici verdetti dei detrattori interessati. ''Se tutta l'Italia fosse ricoperta di pannelli solari e la popolazione venisse trasferita su navi avremmo comunque a disposizione un quarto dell'energia necessaria", sentenziava nel 2010 l'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni.
Bene, l'ultimo dossier di Legambiente, realizzato in collaborazione con il Gse e Sorgenia, presentato questa mattina a Roma alla presenza del ministro dell'Ambiente Corrado Clini e del Presidente dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas Guido Bortoni, certifica invece che un obiettivo simile è stato centrato nel giro di appena due anni senza bisogno dei paventati devastanti effetti collaterali.
(Il link sottostante, per chi fosse interessato, conduce al rapporto completodi Legambiente, GSE e Sorgenia, da conservare per consultazione. NdR)
Un nuovo modello. "Dal 2000 ad oggi 32 TWh da fonti rinnovabili si sono aggiunti al contributo dei vecchi impianti idroelettrici e geotermici", si legge nel rapporto. "E' qualcosa di mai visto, che ribalta completamente il modello energetico costruito negli ultimi secoli intorno alle fonti fossili, ai grandi impianti, agli oligopoli", spiega il curatore Edoardo Zanchini. "Decine di migliaia di impianti installati negli ultimi anni (piccoli, grandi, da fonti diverse) e i tanti progetti in corso di realizzazione - sottolinea - stanno dando forma a un nuovo modello di generazione distribuita, in uno scenario che cambia completamente rispetto al modo tradizionale di guardare all'energia e al rapporto con il territorio".
Risultati esaltanti. "Comuni rinnovabili" snocciola quindi una lunga serie di numeri che descrivono la portata del fenomeno. Grazie a oltre 400 mila impianti distribuiti su tutto il Paese, la produzione da fonti rinnovabili "nel 2011 ha raggiunto il 26,6% dei consumi elettrici complessivi italiani (eravamo al 23% nel 2010), e il 14% dei consumi energetici finali (eravamo all'8% nel 2000)". "In un anno - si legge ancora nel dossier - la produzione è passata da 76,9 TWh a 84,1, secondo i dati del GSE, e malgrado il contributo dell'idroelettrico sia sceso (da 51 TWh a 47), perché intanto sono cresciute tutte le altre fonti". Nel trarre i bilanci non si può prescindere dal totale, ma la vera forza delle rinnovabili per come viene fotografata dal rapporto di Legambiente sta nella loro capillarità.
(Come si può vedere dal grafico, l'Italia ha già superato la quota del 25% di rinnovabili. WQuella quota che, secondo il catastrofista, disinteressato AD dell'ENI. Paolo Scaroni, avrebbe già dovuto produrre un esodo biblico di 60 milioli di italiani verso altri luoghi, per totale occupazione dell'intero territorio compiuta dagli orrendi ed invasivi pannelli fotovoltaici. Ebbene, io per il 99% del mio tempo e dei mieie percorsi, nbon vedo un solo pannello. Sarò diventato cieco, o scemo? NdR)
Non solo fotovoltaico - Grazie a un mix di fonti pulite (grande idroelettrico escluso), ben 279 Comuni soddisfano una percentuale compresa tra il 50 e il 79% delle loro necessità, 1338 coprono tra il 20 e il 49%, mentre quelli autosufficienti per la sola elettricità sono oltre 2mila. E se siete preoccupati per gli impatti sul paesaggio è il caso di citare anche i 109 municipi dove questo obiettivo è centrato grazie esclusivamente al fotovoltaico installato sui tetti degli edifici. Il top è rappresentato infine dai 23 comuni energeticamente autosufficienti al 100%, quasi tutti concentrati nell'arco alpino. In testa alla classifica troviamo quest'anno una nuova entrata, Varna, in provincia di Bolzano, che copre il 100% del fabbisogno delle proprie famiglie attraverso 66 impianti fotovoltaici per complessivi 3,3 MW, un piccolissimo impianto mini idroelettrico da 70 kW e un impianto a biogas da 1.140 kW mentre l'energia termica viene prodotta attraverso un impianto a biomasse da 6.500 kW e distribuita attraverso una rete di teleriscaldamento [...]
Ciò che ancora manca. Il rapporto fotografa insomma un caso italiano di successo, con punte di eccellenza a livello internazionale, ma secondo Legambiente non è tanto importante ricordare le valutazioni dei tanti "che avevano considerato questi risultati semplicemente impossibili da realizzare" quanto gettare le basi per consolidare e ampliare gli obiettivi raggiunti. La madre di tutte le ricette è la definizione di quel piano energetico nazionale che manca ormai da decenni e che ormai, vista l'emergenza ambientale, dovrebbe chiamarsi Piano per il Clima. Al suo interno, spiega Zanchini, "è il momento di dare certezze a questa prospettiva, puntando su un modello sempre più efficiente, distribuito, rinnovabile: non sono consentiti ulteriori e incomprensibili ritardi da parte del governo nell'emanazione dei decreti di incentivo alle rinnovabili termiche ed elettriche, e serve anche più coraggio per spingere la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio".
Luoghi comuni da rivedere. Ma proprio come il successo delle rinnovabili ha smentito i luoghi comuni sulla loro inevitabile marginalità, allo stesso modo se si vuole davvero andare avanti occorre fare piazza pulita dal ritornello che ci vuole perennemente in credito di nuove centrali. "Secondo i dati di Terna - ricorda il dossier - il totale di centrali termoelettriche installate è pari a 78mila MW, a cui vanno aggiunti 41mila MW da fonti rinnovabili. Se consideriamo che il record assoluto di consumi di elettricità in Italia (avvenuto il 18 dicembre 2007) è di 56.822 MW richiesti complessivamente alla rete, si comprende come il tema della sicurezza, e quindi la necessità di realizzare nuove centrali, non esista", a maggior ragione in virtù dei tanti "investimenti fatti in centrali che lavorano meno ore di quanto programmato. Con la conseguenza che le aziende hanno interesse a non far calare i prezzi per rientrare degli investimenti".
La sponda del ministro Clini. In realtà le prime bozze che circolano in materia di incentivi alle rinnovabili (termiche ed extra fotovolotaico), insieme alle spinte per il varo di un quinto conto energia che dia un giro di vite troppo stretto al solare incutono grande preoccupazione per il futuro. Ma consolo se non altro che dopo tanto tempo a questa parte le analisi degli ambientalisti coincidano non solo con quelle di un crescente settore industriale, ma anche con quelle del ministero dell'Ambiente. E' necessario "rafforzare la diffusione degli impianti di generazione distribuita incardinata sulle fonti rinnovabili di efficienza energetica", ha avvisato oggi il ministro Clini. Bisogna, ha ricordato, "rivedere il Piano energetico nazionale, aggiornare il Piano d'azione sulle rinnovabili e mettere insieme queste due cose, tenendo presente la direttiva Ue, sull'efficienza energetica, ormai in fase di approvazione, e legando tutto questo alle smart cities e all'efficienza energetica". Tutto ciò, ha considerato ancora Clini, "mette in discussione la situazione attuale, nella quale c'è poco spazio per altre grandi centrali termoelettriche e questo impatta sul monopolio energetico nazionale. Ma ormai - ha concluso - questo è lo schema sul quale stiamo lavorando".
Scritto il 28 marzo 2012 alle 23:56 nella Economia, Nucleare, Politica, Scienza | Permalink | Commenti (22)
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La nostra opinione su quanto sta succedendo nel governo e nel paese l'abbiamo già espressa: tutto il dibattito si sta concentrando sull'art. 18, che a parere di molti è solo la guerra a un innocuo simbolo, che tuttavia produce effetti che nessuna legge Fornero potrà cancellare, visto che la Fornero deve adeguarsi - che lo voglia o no - alla Legge Suprema, che è la Costituzione. Le 26 paginette stiracchiate, affrettatamente tirate su perchè un terzo del governo le ha reclamate, contengono - come abbiamo scritto ed argomentato - tanta aria fritta, e due errori di sostanza, che abbiamo illustrato ed argomentato:
-1) L'esclusione della reintegra nei licenziamenti richiesti per ragioni economiche, anche qualora il magistrato ravvisi che le ragioni addotte dal datore di lavoro siano pretestuose, non reggerebbero al primo ricorso in appello o in cassazione. Non c'è ddl Fornero che possa consentire che un provvedimento di un datore di lavoro, giudicato illecito dal magistrato, possa tuttavia produrre effetti permanenti a danno di una parte. Illecito il licenziamento? Improponibile la permanenza degli effetti del licenziamento. Monti e la Fornero lo sanno benissimo. Perchè insistono? Solo per offrire lo scalpo del sindacato alla destra?
-2) Molte delle 26 pagine sono infarcite da provvedimentini abbastanza ridicoli (tipo il "congedo di paternità" di tre giorni, oltretutto obbligatorio), e di scoperte dell'acqua tiepida, come il riconoscimento dello status di dipendente diretto a chi lavora da tre anni nella stessa azienda. Bene lo spiegano - come mostreremo più avanti - l'editoriale odierno di Scalfari, il gruppo di giuslavoristi di Bologna, e l'analisi del Prof. Luciano Gallino.
Vediamo cosa scrivono in questi giorni personaggi di un certo peso, che non possono essere sospettati di essere ostili a Monti, avendo entusiasticamente appoggiato la nascita del c.d. "governo tecnico". E cominciamo da una scelta di passaggi dell'articolessa odierna di Eugenio Scalfari:
Due simbolismi contrapposti: l'ha detto Giorgio Napolitano definendo perfettamente le posizioni del governo e del sindacato a proposito dell'articolo 18. Noi lo stiamo scrivendo da almeno un mese, da quando quei due simbolismi hanno egemonizzato i media, l'opinione pubblica e il dibattito politico. I simboli sono una rappresentazione della realtà semplificata all'estremo. E poiché ogni realtà è sempre relativa perché dipende dal punto di vista di chi la guarda e la vive, la sua semplificazione genera inevitabilmente radicali contrapposizioni, una tesi ed una anti-tesi. La soluzione di questa dialettica nel caso migliore dà luogo alla sintesi (in politica si chiama compromesso), nel caso peggiore si risolve con uno scontro. Affidarsi ai simboli è dunque molto pericoloso. Sono contrapposizioni sciagurate che hanno perfino provocato guerre mondiali: nel 1914 l'uccisione del delfino degli Asburgo da parte d'un terrorista serbo scatenò la prima guerra mondiale che provocò dieci milioni di morti; nel 1939 il simbolo fu Danzica e i morti furono trenta milioni, genocidio della Shoah a parte.Nel caso nostro non ci saranno per fortuna né morti né feriti, ma lo sconquasso sociale e politico sarà intenso se non si arriverà ad un compromesso: potrebbe cadere il governo Monti, potrebbe sfasciarsi il Partito democratico e la sinistra italiana finirebbe in soffitta, lo "spread" potrebbe tornare a livelli intollerabili con conseguenze nefaste per tutta l'Europa, e tutto questo perché le due parti contrapposte vogliono stabilire - mi si passi un'espressione scurrile ma appropriata - chi ce l'ha più lungo.
Infatti il peso e l'importanza dell'articolo 18 è pressoché irrilevante. I casi in cui è stato applicato il reingresso nel posto di lavoro negli ultimi dieci anni non arrivano al migliaio e soprattutto non ha mai avuto ripercussioni sullo sviluppo dell'economia reale e sui suoi fondamentali. In vigenza di quell'articolo gli investimenti, i profitti, il livello dei salari, le esportazioni, i consumi, sono andati bene o male per cause completamente diverse. Quanto alla giusta causa, la cui presenza può consentire un licenziamento e la cui assenza può renderlo possibile, essa è già contenuta in leggi precedenti all'articolo 18 e può essere sempre sollevata dinanzi al magistrato [...]
Mi permetto di ricordare che questo giornale ed io personalmente siamo stati fin dall'inizio e addirittura prima ancora che nascesse, fautori del governo Monti e lo siamo tuttora anche sulla riforma del lavoro, che riteniamo positiva in quasi tutte le sue parti, nella lotta al precariato, nell'estensione delle tutele a tutta la platea dei disoccupati, nell'estensione del contratto a tempo indeterminato, nella flessibilità all'entrata ed anche all'uscita. Rischiare tutto questo per difendere un simbolo di irrilevante significato è un errore politico grave. E poiché questo non è un governo tecnico - come erroneamente molti e lo stesso Monti continuano a ripetere - ma è un governo politico a tutti gli effetti, commettere un errore politico è grave [...]
Il mio ragionamento sarebbe tuttavia incompleto se non dicessi che le osservazioni fin qui formulate riguardano non soltanto il governo ma anche la Cgil, perché anch'essa si sta battendo per un simbolo di irrilevante significato. Capisco che Susanna Camusso deve convivere con la Fiom, ciascuno ha i suoi crucci fuori casa e dentro casa. Ma se si minaccia di mettere a fuoco il Paese per un simbolo irrilevante possono verificarsi conseguenze sciagurate. La Camusso dovrebbe indicare qual è il compromesso sul quale sarebbe d'accordo il sindacato. Il modello tedesco sui licenziamenti motivati per ragioni economiche lo accetterebbe?
Alcuni ministri affermano di averglielo chiesto e di averne ricevuto risposta positiva. Se questo è vero, abbia il coraggio di dirlo in pubblico: darebbe gran forza a tutti coloro che vogliono arrivare alla sintesi tra i due simbolismi contrapposti e salvare la parte positiva della riforma del lavoro. Per quanto sappiamo noi la Camusso è ferma sulla posizione che l'articolo 18 sia intoccabile. Ebbene, noi siamo contrari ai cosiddetti valori non negoziabili. Lo siamo nei confronti della Chiesa che può sostenere l'intoccabilità di quei valori quando si rivolge ai suoi fedeli ma non quando pretende che la sua dottrina entri nella legislazione. Non esistono valori intoccabili salvo quelli della legalità, dell'etica pubblica e della parità dei cittadini di fronte alla legge.
Nel campo del lavoro il diritto intoccabile è quello della rappresentanza di tutti i lavoratori nelle aziende in cui lavorano. Quello sì, è un diritto intoccabile e laddove è stato violato va assolutamente recuperato. L'articolo 18 è stato certamente una conquista ma per quanto riguarda le modalità della sua applicazione non è intoccabile [...] Se è vero come è vero che i casi di reingresso nel posto di lavoro si contano su poche dita, questo vale per il governo come per il sindacato, vale per Elsa Fornero quanto per Susanna Camusso. Tutte e due su questo punto stanno sbagliando e tutte e due si stanno assumendo grandi responsabilità. Ci riflettano prima che sia troppo tardi. Ci rifletta anche il presidente del Consiglio e i suoi ministri. Alcuni di loro si sono fatti sentire all'interno del Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Da Fabrizio Barca a Giarda, a Balduzzi ed è stato un utile campanello d'allarme (...si è fatto sentire anche Passera, se è per questo. NdR)
Chiedere riflessione a Di Pietro, a Vendola, a Diliberto è tempo perso. Loro pensano agli interessi di bottega e basta. Ma ai partiti della "strana" maggioranza si deve chiedere di guardare con molta attenzione ciò che potrà avvenire in Parlamento.Bersani proporrà di adottare il sistema tedesco per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Quel sistema prevede un tentativo di conciliazione tra l'imprenditore e il sindacato d'azienda; in caso di fallimento (secondo le statistiche le trattative fallite sono soltanto l'11 per cento dei casi) si va dal magistrato del lavoro che può annullare il licenziamento (reingresso) o stabilire un congruo indennizzo. Su questo punto il Pd è compatto, da Veltroni a D'Alema, a Franceschini, a Letta, a Fioroni. È probabile che anche Casini e Fini confluiranno sulla stessa posizione. Perfino Squinzi, il neo-presidente di Confindustria, sembra disponibile ad accettare questa soluzione. L'incognita resta il Pdl o almeno una parte dei parlamentari di quel partito. Vedremo il risultato delle votazioni [...]
In calce alle osservazioni di Scalfari - che condivido quasi integralmente - vorrei aggiungere un piccolo distinguo: la guerra sui simbolismi - se tale è in tutto e per tutto - del Governo e della Camusso, forse sono speculari, certamente non hanno lo stesso peso. Il Governo a cento modi per uscire dal rimbambimento attuale, il sindacato ne ha uno solo. A quale titolo il Governo potrebbe invocare diktat europei se proponesse di adottare pari pari il metodo tedesco? Potrebbe la Merkel bocciare se stessa? Potrebbe affermare che ciò che è equo e funzionale in Germania sia iniquo e dissipatore in Italia? No, non potrebbe. Il sindacato, per converso, ha un solo strumento a disposizione: la lotta sindacale. E il vulnus operato da Marchionne ai danni della FIOM non fa altro che rendere più giustificata e urgente la posizione dura della Camusso. NdR
E vediamo cosa scrivevano, solo quattro giorni fa, 53 addetti ai lavori bolognesi, nella sintesi che ne fa Repubblica:
"...intanto finiscono nel mirino alcune norme presentate dal governo come una novità in sede di trattativa, quando in realtà si tratterebbe di tutele "già acquisite da anni". E' quanto sostengono da Bologna 53 personalità, tra professori ed esperti di diritto del lavoro, che giudicano "sconcertante" l'atteggiamento del governo, perché "disinformato" o, in alternativa, "spregiudicato".
Primi firmatari della nota sono Umberto Romagnoli, Luigi Mariucci, Piergiovanni Alleva, Giovanni Orlandini e Sergio Matone, cui seguono i nomi di 21 esperti bolognesi e quelli di altri da Torino (tra i firmatari Luciano Gallino, professore di Sociologia all'università), Firenze, Milano e Roma. Che puntano l'indice, in particolare, sulle due normative annunciate oggi a tutela dei lavoratori: l'obbligo di assumere un lavoratore a tempo indeterminato dopo 36 mesi di contratti a termine, e l'estensione dell'obbligo di reintegro in caso di licenziamento discriminatorio anche in un'azienda con meno di 16 dipendenti.
Tutele che, a detta degli esperti, esistono già da tempo nel nostro ordinamento, ma che il governo presenta come nuove "per far digerire la pillola delle modifiche peggiorative". Nello specifico, i 53 giuslavoristi indicano che l'estensione dell'obbligo di reintegro nelle piccole aziende è previsto dall'articolo 3 delle legge 109 del 1990, mentre il termine massimo dei 36 mesi è previsto dall'articolo 5 comma 4 bis del decreto legislativo 368 del 2001.
Ma oggi un altro sostenitore della prima ora del governo Monti, Luciano Gallino, si pone delle domande, in un articolo odierno dal titolo “Così non si combatte la piaga del precariato” (non ancora online):
Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le “Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali” o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro.
Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata – in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre – perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare.
Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi.
Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato “assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce.”
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere.
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori.
Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.
A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.
Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile.
Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.
Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.
Luciano Gallino.
P.S.: mentre termino di scrivere questo post, sento su RaiNew24 che le infantili impuntature del governo Fornero sull'art. 18, e i chiarimenti forniti da fonti sempre più autorevoli e numerose sulla magnifica inutilità di questa battaglia di celodurismo, hanno fatto crollare il consenso al governo Monti dal 50% di inzio mese, al 44% attuale. Persino fra i sostenitori più convinti del governo Monti, e cioè fra gli elettori dell'UDC e del PD. Bersani ci rifletta su....
Scritto il 25 marzo 2012 alle 19:36 nella Economia, Lavoro, Leggi e diritto, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (5)
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Se la regoletta di guardare allo spread per misurare la guarigione è valida, dobbiamo applicarla anche per misurare le ricadute. Ebbene, dal minimo della settimana scorsa (275 punti-base), lo spread oggi risale a 316 punti. Si tratta di 41 punti in più. Si tratta, a regime, di un maggior costo per interessi di 8 miliardi di euro all'anno.
Spero che questa riforma di stampo cileno muoia in culla. Amen. Tafanus
Scritto il 22 marzo 2012 alle 16:00 nella Economia, Lavoro, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (27)
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Confindustria spaccata, ma alla successione a Marcegaglia arriva Squinzi, patron della MAPEI. Perde Bombassei, patron della Brembo, fortemente sostenuto dall'uomo col maglioncino, il quale aveva detto: "Se vincerà Bombassei, la Fiat potrebbe rientrare in Confindustria". Di questa grande opportunità per l'Italia non è fregato niente a nessuno.
A Bombassei, che sostiene di aver avuto i voti delle "regioni che contano", è arrivato l'appoggio della Lombardia, con la piccola, insignificante eccezione di Assolombarda. Una delle prime dichiarazioni di Squinzi è statala seguente:
"L'art. 18? per il mondo industriale italiano è l'ultimo dei problemi"
Ora Fornero decida se vogliamo seppellire la minchiata-distintivo dell'art. 18, o se dobbiamo seppellire il suo governo. Il Governo Monti ora si dedichi a cose serie. Come creare occupazione, domanda, crescita. Non come creare disoccupazione e liti giudiziarie infinite.
Scritto il 22 marzo 2012 alle 13:16 nella Economia, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (0)
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Caro Monti, lei, dopo la fase emergenziale, sta sbagliando TUTTO. Fossi in lei, sarei molto preoccupato. Sta sposando tutto ciò che viene da destra, e bocciando tutto ciò che viene da sinistra. Non già per convinzione, ma perchè - come ha ormai ampiamente dimostrato - MAI farà qualcosa sulla quale ci sia il veto della destra. Fossi in lei, ascolterei con molta preoccupazione la frase telegrafica di Bersani: "se Monti accetta veti dalla destra, vuol dire che i veti possono essere posti. Ne trarremo le conseguenze". Traduciamo? "Adesso i veti inizieremo a porli anche noi.
Ed ora dedichiamoci all'analisi di quanto è emerso ieri, alternando notizie, commenti, valutazioni, domande... Tafanus
Un pacchetto di 16 ore di sciopero, di cui 8 per uno sciopero generale con manifestazioni territoriali e 8 per assemblee. E’ questa la proposta della segreteria della Cgil al direttivo del sindacati contro la riforma del mercato del lavoro e le modifiche all’articolo 18. La linea dura dell’unione guidata da Susanna Camusso ha subito raccolto il sostegno di alcuni partiti del centrosinistra.
Domani, intanto, è stato convocato l’incontro conclusivo al ministero del lavoro sulla riforma del mercato del lavoro con le imprese e i sindacati per la messa a punto definitiva del testo sulla riforma. Un progetto di modifica del mercato del lavoro che ha incassato l’apprezzamento dell’Unione Europea. “Ha intenzione di dinamizzare il mercato del lavoro, corrisponde al nostro obiettivo di creare un mercato più dinamico e la sua direzione è degna di sostegno” ha dichiarato il commissario Ue all’occupazione Lazlo Andor, precisando come la riforma abbia un’“ambizione notevole”.
La Cgil: “Ci saranno espulsioni di massa”. Come annunciato, la reazione del sindacato non si è fatta attendere. Sulla stessa linea le tute blu della Cgil guidate da Maurizio Landini: “La riforma non riduce la precarietà, non estende gli ammortizzatori ma rende più facili i licenziamenti”. Il segretario generale della Fiom ha poi sottolineato che la normativa “sarà contrastata con ogni mezzo e con ogni forma di protesta democratica nelle fabbriche e nel Paese”. Una riforma che è una “follia”, ha aggiunto il leader della Fiom. Toni confermati dal segretario confederale Fulvio Fammoni: ”Abbiamo il dovere di portare a casa dei risultati prima che si avvii un biennio di espulsioni di massa nelle aziende”.
Cisl: “Compromesso onorevole”. Se la Cgil annuncia battaglia, la Cisl di Raffaele Bonanni parla di “compromesso onorevole”. Per il segretario, la normativa “rafforza la protezione anche per i lavoratori” anche nelle aziende con meno di quindici dipendenti (per le quali attualmente non vige l’articolo 18) (...inutile ricordare ai distratti chi sia Bonanni: quello che ha appoggiato Berlusconi nel far fallire l'accordo AirFrance - Alitalia; quello che andava a cena di nascosto in via Grazioni con Angeletti, passando dalla porta di servizio come un ladro; quello del mitico "Patto per l'Italia" mai realizzato, e della cui mancata realizzazione mai Bonanni e Angeletti hanno chieto sonto a Berlusconi. Insomma, il prototipo esemplare di sindacalista giallo. NdR)
La sinistra: “Cambiare”. Tensione anche nel mondo della politica con l’Italia dei Valori ha promesso “il Vietnam” in Parlamento. “Diciamo al presidente del Consiglio che il partito non starà a guardare e che farà tutto quanto è in suo potere per evitare questo scempio dei diritti. Siamo pronti ad un Vietnam parlamentare e a scendere in piazza con i lavoratori e i disoccupati”, ha attaccato Leoluca Orlando.
Da sinistra interviene anche il leader di Sinistra e Libertà Nichi Vendola: ”E’ davvero imbarazzante l’atteggiamento del governo Monti, a fronte di un’Italia che sta vivendo una sofferenza, un disagio straordinario. Di fronte a notizie di suicidi di chi non riesce a trovare lavoro, di fronte alla disperazione di un’intera generazione di ragazzi e ragazze, assediata dalla precarietà. L’unica ossessione del governo Monti è quella di recidere il legame con la nostra cultura democratica. Cancellare l’articolo 18, manipolarlo, deformarlo, significa semplicemente portare lo scalpo della civiltà del lavoro presso i potentati della finanza internazionale”. ”Credo che a decidere non sia il governo ma il parlamento” dichiara il sindaco di Milano Giuliano Pisapia (Pisapia ha ragione, fermo restando che ormai il Parlamento - peggio che ai tempi di Berlusconi - non conta più un cazzo. Dodici voti di fiducia in dodici settimane. Chiaro iol concetto, no? Monti decide, poi va in Parlamento a chiedere la fiducia. Nessuna discussione, nessuna modifica. Prendere o lasciare. Col ricatto dello spread e del downgrading. Abbiamo conosciuto di peggio, ma anche di meglio. NdR)
I dubbi del Pd. Ma gli occhi sono puntati sul Partito democratico che sull’argomento si è spaccato e che avrà un compito non facile una volta che il provvedimento sarà all’esame dell’Aula. Se Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd, paragona Monti a Sacconi, il vicesegretario Enrico Letta esclude che in aula i democratici voteranno contro il provvedimento. In realtà le voci nel Pd contrarie in particolare alle riforme dell’articolo 18 si moltiplicano: “Il punto caldo dell’articolo 18 che non va bene perché è profondamente sbagliato aumentare la possibilità di licenziamento per motivi economici” dice l’ex ministro del lavoro Cesare Damiano. “Sull’articolo 18 penso che la Cgil abbia ragione” sostiene Giovanna Melandri (per piacere, Enrico Letta smetta di fare il nipote di Gianni Letta, o vada dove lo porta il cuore. NdR)
L’eccezione è solo quella del giuslavorista Pietro Ichino: “Vivere questo progetto di riforma dell’articolo 18 come una medicina amara e indigesta da ingerire con il naso tappato da parte del Pd a me sembra molto fuori luogo”. Secondo il giuslavorista “questa battaglia è il cuore di questo progetto del governo Monti che attinge in larga parte a materiale programmatico elaborato in questi anni all’interno del Pd” (...no, non all'interno del PD, ma all'interno della cricca Morando - Veltroni - Ichino. E' diversa, la cosa. NdR)
Sull’argomento, il segretario Pierluigi Bersani decide per il momento di non prendere posizione: “Non parlo di lavoro e articolo 18 perché ne parlerò questa sera a Porta a Porta”. Insomma, il leader del Pd sceglie il salotto televisivo di Bruno Vespa per spiegare la posizione del suo partito sulla riforma targata Monti-Fornero concedendo solo un “non so se si può parlare di accordo”. Però la base del partito non ha nessuna voglia di aspettare Porta a Porta per capire la linea del Pd. Al contrario, attraverso la Rete, chiede ai propri leader di prendere una posizione netta: “Votare contro la riforma e staccare la spina al governo Monti”. O quantomeno organizzare un referendum interno fra gli iscritti al partito. (Caro Monti, io prenderei molto sul serio i segnali che arrivano dalla rete... C'è stato un tempo in cui la rete prendeva gli input dalla grande stampa... si è accorto che da due anni è la stampa a misurare la temperatura del paese attraverso la rete? NdR)
No dal sindacato dei funzionari di polizia. In attesa del talk condotto da Vespa una singolare presa di posizione contro la riforma del governo arriva dall’Associazione Nazionale dei Funzionari di Polizia. “Varare una norma che in tema di licenziamento illegittimo non preveda la possibilità di reintegro del lavoratore avrà effetti negativi sull’ordine pubblico”, ha detto in una nota il segretario nazionale Enzo Marco Letizia aggiungendo che “con il solo indennizzo per il lavoratore licenziato ingiustamente passerebbe un messaggio assai negativo, quello che con un po’ di denaro si ha la libertà di togliere illegittimamente il futuro alle persone”.
...e questo l'elenco degli entusiasti...
Il Pdl: “Avanti così”. Una decisa adesione alla riforma arriva invece da destra. “La Cgil non ha diritto di veto ed è un bene che ciò sia emerso. Il confronto con le parti sociali è un dovere. Ma ora è il tempo delle decisioni” dichiara il capogruppo del Pdl in Senato Maurizio Gasparri. “A fronte di questa mediazione i cui riflessi saranno attentamente esaminati, ci sembra una forzatura in larga parte di natura ideologica il dissenso e la radicalizzazione che stanno dando alla questione la Cgil e alcune forze politiche di sinistra e dell’estrema sinistra” rincara il collega alla Camera Fabrizio Cicchitto. “Con questa riforma l’Italia va avanti ed era giusto che andasse avanti perchè si trovava indietro in tutte le classifiche europee e internazionali – ha sottolineato il segretario del partito Angelino Alfano – L’Italia, infatti, stazionava in posti bassi delle classifiche relative all’occupazione giovanile e femminile. Noi difenderemo questa riforma e siamo contenti del fatto che il conto non lo paghino le piccole e medie imprese con l’aumento del costo del lavoro”.
Qui, caro Monti, non c'è spazio per profonde analisi sociologiche. Ciò che è giusto per i Gasparri, i Cicchitto, gli angelini, è - per definizione - sbagliato per l'Italia. Si fermi, se e finchè è in tempo, e non costringa gli italiani a rispedirla a casa a furor di piazza. Tafanus
Le perle, e le domande alle quali non avremo risposte
Mario Monti: "Nessuno ha il diritto di veto". Le proposte del governo: "L'articolo 18 resta solo per i licenziamenti discriminatori".
Felici per il decisionismo di Mario Monti. Resta da capire - se nessuno ha il diritto di veto - come mai Monti si sia appecoronato a tutti i veti della destra su temi come tassisti, farmacisti, notai, avvocati, RAI, giustizia, frequenza TV. Ci spiega?
"Licenziamenti discriminatori"??? Monti, cosa pensa, che ci sarà un solo idiota in Italia che licenzierà qualcuno accampando ragioni discriminatorie???? Ci saranno sempre e solo ragioni oggettive, di carattere economico. La destra metterà al bavero il distintivo della vittoria, l'Italia sarà finalmente monda dai settanta reintegri all'anno, e lei avrà buttato nel cesso tre quarti della sua credibilità.
Mario Monti: “Pensavo se ci sia una sfida imminente nel campo della politica economica difficile come quella della riforma del mercato del lavoro: probabilmente no, non ci sono cose così irte di difficoltà sociali e tecniche, che solo una forte e femminile determinazione come quella del ministro Fornero poteva affrontare con successo”. Prossimo obiettivo, per il governo, è la spending review, cioè i tagli agli sprechi, “perchè non basta ridurre i voli di Stato o le auto blu, c’è molto altro da fare”.
Caro Monti, guardi che anche la Camusso possiede una "forte e femminile determinazione", come la Fornero. In più, la Camusso ha il seguito di 5 milioni di iscritti, la Fornero ha il seguito suo, dei suoi cari, e del Ministro Passera. Caro Monti, ci occuperemo DOPO della spending review??? E perchè non è stato fatto prima? Non sarebbe stato più logico prima occuparsi di sprechi, e poi dei settanta reintegri? Ci fa capire?
Il Fornero-Pensiero (?) -“Vogliamo che un contratto diventi dominante, migliore rispetto agli altri ed è il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
Vogliamo???? e che diamine significa, VOGLIAMO? O ci sono, o non ci sono vincoli di legge. Predominante??? QUANTO predominante? il 51% dsei contratti? o il 99%???
Il contratto a tempo determinato costerà l’1,4% in più e finanzierà l’indennità di disoccupazione. Oltre a ciò ci sarà un premio per la stabilizzazione. Non solo: dopo 36 mesi di rapporto di lavoro dovrà necessariamente diventare un contratto a tempo indeterminato. “Non vogliamo smantellare tutele, ma rendere meno blindato il contratto subordinato a tempo indeterminato – ha aggiunto – Il contratto a tempo determinato è il contratto dominante, ma gli altri non li buttiamo via”. Insomma il senso è: “Tenere la flessibilità buona e contrastare quella cattiva”.
L'1,4% in più! Che spaventoso deterrente, per le aziende! Dunque, un contratto da 1000 euro al mese se precario, diventerà unb contratto da 1014 euro al mese. Nessuna azienda oserà affrontare un costo simile!
Dopo 36 mesi il contratto DOVRA' diventare a tempo indeterminato? e se dopo 35 mesi e 29 giorni l'azienda lo interrompe, e ricomincia con un nuovo "apprendista"?
Il contratto a tempo indeterminato dovrà diventare predominante, ma gli altri non li buttiamo via? Si era capito, signora Fornero. Precisazione superflua.
“Eliminare gli stage gratuiti”. A proposito di flessibilità cattiva il governo intende eliminare gli stage gratuiti: “Dopo la laurea o dopo un master vai in azienda ma non fai più uno stage gratuito, magari sarà una collaborazione, magari un lavoro a tempo determinato ma è un lavoro e l’azienda lo deve pagare”.
Quanto? per quanto tempo? con quali tutele? La Fornero, per ora non dice. No, Caro Monti. No, cara Fornero. Siamo adulti me vaccinati, e certi trucchetti puzzano di losco lontano un miglio. Non per niente questa "riforma" piace molto a Gasparri, Cicchitto e Alfano, piace a Bonanni, non dispiace ad Angeletti, e trova debolissime reazioni da parte della Marcegaglia, in puro stile "chiagne 'e fotte".
Con questi sistemi, con questa riforma, non si va da nessuna parte. Il PD metta anche lui i suoi veti: Niente voto di fiducia. Discussione piena in parlamento, totale apertura alla presentazione e alla discussione di emendamenti. Oppure che lorsignori vadano a casa, e si ricandidino con il PdL, o con l'UdC. Tafanus.
Scritto il 21 marzo 2012 alle 19:25 nella Economia, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (11)
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Lavoro, sindacati divisi. La CGIL si oppone - Monti: "Su art. 18 non si tratta più"
La flexicurity, favorire i giovani, eliminare il dualismo del mercato del lavoro? Tutto fumo. Che serve per coprire l'obiettivo vero della cosiddetta riforma, un obiettivo indicibile, perché politicamente inaccettabile non solo dai sindacati, ma soprattutto dal Pd che poi, in Parlamento, a quelle misure dovrà dare il suo voto, pena la caduta del governo. L'obiettivo reale e principale è uno solo: i salari devono diminuire.
Tra le misure imposte alla Grecia c'è stata anche la riduzione del 30% del salari minimi, oltre ai vari tagli a indennità e mensilità aggiuntive dei dipendenti pubblici. Per la Spagna non c'è stato bisogno di imposizioni così plateali: la riforma del lavoro approvata dal nuovo governo conservatore di Mariano Rajoy (tanto lodata dal nostro presidente del Consiglio) prevede tra l'altro che, dopo due trimestri di riduzione dei ricavi, le aziende possano decidere unilateralmente di ridurre le retribuzioni. Per i dipendenti c'è una finta scelta: o accettano, o se ne vanno ottenendo un modesto indennizzo monetario. Vogliamo fare qualche ipotesi su come si comporteranno, in un paese dove la disoccupazione supera il 20%?
Se in Italia fosse rimasto Berlusconi, la cui credibilità era sottozero, anche a noi sarebbe stato imposto un diktat in proposito. Ora che c'è Monti, di cui la signora Merkel si fida, si può lasciare a lui il compito - che però resta lo stesso - in modo da salvaguardare almeno l'apparenza del mantenimento di una sovranità ormai di fatto evaporata.
Tutto questo accade perché Monti è un "nemico del popolo"? In realtà le personali inclinazioni del presidente del Consiglio in questo caso c'entrano poco. In un altro articolo ("La trappola europea") avevamo cercato di spiegare quali siano i presupposti di questa politica, la cui dimensione non è solo italiana ma europea. Qui basta ricordare che, quando un paese perde competitività (ed è il caso dell'Italia e di tutti gli altri paesi colpiti dalla "cura"), se non può svalutare la moneta - e nessuno dei paesi euro può prendere questa decisione - deve procedere a una "svalutazione interna", cioè deve fare in modo che prezzi e salari si riducano fino a quando la sua economia non torna competitiva. A quel punto, sostiene questa teoria, il paese aumenta le esportazioni, la bilancia commerciale ritorna in equilibrio, l'economia riparte e tutti tornano felici.
Ma, appunto, di una teoria si tratta, e molti economisti di primo piano sostengono che è completamente sbagliata. Perché nel frattempo il paese in questione entra in recessione, le aziende chiudono, la disoccupazione aumenta, cadono i redditi e il Pil, i conti pubblici peggiorano nonostante i tagli: si alimenta, cioè, una spirale perversa. Lo abbiamo visto in Grecia, lo stiamo vedendo in Portogallo, in Spagna, in Italia. Molto probabilmente tra poco la Francia si unirà al gruppo. Ma finché non se ne convincono i tedeschi, che in questa fase di fatto comandano in Europa, la linea non cambierà.
E veniamo alla nostra "riforma". Al di là degli escamotage che saranno inventati dai sindacati per salvare la faccia, l'articolo 18 sarà reso completamente inefficace. Dal momento che è ormai scontato che il licenziamento potrà essere motivato da ragioni "economiche o organizzative", nessun imprenditore sarà così sprovveduto da attuare licenziamenti discriminatori o persino disciplinari: un problema organizzativo - con la necessità di ristrutturazione che hanno tutte le aziende in questa fase - si trova molto facilmente. E allora, con i licenziamenti praticamente liberi, succederà una di queste due cose, o meglio tutt'e due. In parte verrà posta la scelta tra riduzioni di salario o un certo numero di licenziamenti; in parte ci si libererà di una parte di lavoratori più anziani per sostituirli, a minor costo, con giovani che nel migliore dei casi entreranno con il contratto di apprendistato, tre anni - estendibili a cinque - a salario ridotto e con la possibilità di esser mandati via. Ci saranno un po' di ammortizzatori sociali, ma con una durata inferiore agli attuali e con meno gente che avrà la possibilità di passare - alla loro scadenza - alla pensione, visto che l'età è stata aumentata. Un meccanismo poco appropriato, ma che finora aveva sostituito, anche se non per tutti i lavoratori, le carenze delle protezioni dalla disoccupazione.
C'è un'altra strada? Ci sarebbe, e sono ormai immumerevoli gli appelli e i "manifesti" di economisti e politici che la indicano. L'ultimo è quello dei democratici e progressisti europei che si sono riuniti a Parigi il 17 marzo e hanno diffuso una dichiarazione comune intitolata "Renaissance pour l'Europe". L'altra strada è quella di non puntare tutto e subito sul risanamento dei bilanci pubblici, che va fatto, ma in modo più graduale e non in una fase di recessione. Di utilizzare strumenti che permettano di stimolare la crescita, come i "project bond" europei, con cui realizzare opere infrastrutturali e investire sull'energia rinnovabile. Di premere a livello di G20 per realizzare una riforma della finanza per cui finora poco o nulla è stato fatto. Insomma, di dosare i tempi dell'aggiustamento e soprattutto di accompagnarlo con misure che favoriscano la ripresa dell'economia, senza la quale gli sforzi dovranno essere molto più pesanti e - soprattutto - rischiano di essere inutili. Questo non significa che si eviterebbero i cosiddetti "sacrifici", ma certamente sarebbero meno drammatici e il purgatorio durerebbe meno.
Per il momento questa strada alternativa è sbarrata dalla determinazione contraria dei tedeschi e dei loro alleati. Ma nel giro di un anno ci saranno le elezioni politiche nei tre paesi più importanti dell'Eurozona, Germania, Francia e Italia. Se vinceranno i partiti progressisti la musica cambierà. Sperando che non sia troppo tardi.
(di Carlo Clericetti)
Scritto il 21 marzo 2012 alle 00:07 nella Economia, Lavoro, Politica | Permalink | Commenti (3)
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La Svizzera, che nel settore "fare soldi" non è seconda a nessuno, va a caccia di aziende italiane - prevalentemente del Nord - da delocalizzare nella non economica Svizzera (specialmente in Canton Ticino e nel Vallese). Gli argomenti? non certo la minchiata dell'art. 18, che toglie il sonno a Monti, Fornero, Marcegaglia, e ai piccoli padroncini delle ferriere! No, la Svizzera offre incentivi veri: esenzioni fiscali da 5 a 10 anni, infrastrutture, burocrazia funzionante, niente criminalità organizzata...
Pressing sulle aziende del Nord ed anche del Lazio: "Niente tasse per 10 anni se create lavoro nei nostri Cantoni" Neanche il rafforzamento del franco svizzero ha scoraggiato il fenomeno
ZURIGO - Caccia alle piccole e medie imprese italiane. La Svizzera, in particolare due Cantoni, Ticino e Vallese, strizzano l'occhio ai titolari di aziende del centro-nord, interessati a delocalizzare nella Confederazione. In cambio offrono infrastrutture efficienti, assenza di intralci burocratici e sgravi fiscali. «A seconda del numero di posti di lavoro creati possiamo concedere un'esenzione dalle imposte che va dai 5 ai 10 anni», puntualizza Philippe Monnier, direttore della GGBa, ovvero della Greater Geneva Berne Area. E´ una struttura creata nel 2010 che cerca aziende italiane disposte a trasferirsi in un Cantone a scelta tra il Vallese, Berna, Vaud, Neuçhatel, Ginevra e Friburgo.
«I nostri rappresentanti vanno in Italia, spingendosi fino a Roma per sottoporre i vantaggi di un trasferimento nella Confederazione», spiega Monnier, al quotidiano di Ginevra, Le Temps. «Lo so, l'Italia ci accusa di praticare un marketing aggressivo, ma non saremo certo noi a distruggere il tessuto produttivo italiano». Fatto sta che già 80 piccole e medie imprese italiane si sono impiantate nel Canton Vallese tra il 2010 ed il 2011.
Il marketing della CGBa non è ritenuto aggressivo solo oltreconfine ma anche nella stessa Svizzera, più in particolare nel Canton Ticino, che vanta una sorta di diritto di primogenitura nella politica di attrattività per le aziende italiane. «Loro hanno il vantaggio di un territorio con maggiore spazio rispetto a noi», ammette Luca Albertoni, direttore della Camera di Commercio del Canton Ticino. Il quale, negli anni, ha saputo attrarre marchi quali Armani, Gucci, Zegna e Versace che hanno impiantato una parte importante della loro attività tra Lugano e Chiasso. In totale 300 imprese italiane sono emigrate, al di là della frontiera da quando, nel 1997, il Canton Ticino ha dato via al progetto Copernico che concede anch'esso importanti sgravi di imposte a chi dà un contributo all'economia locale.
A frenare l'entusiasmo per l'approdo elvetico non è bastato neppure il franco forte che ha ridotto gli utili di molte aziende svizzere. Anche per questo problema, sia in Ticino che nel Vallese, entrambi cantoni di frontiera, c'è una soluzione. Si assumono lavoratori frontalieri e, se possibile, li si paga in euro. «Legalmente si può fare, bisogna capire a che tasso si fissa il cambio», puntualizza il sindacalista, Saverio Lurati. Secondo il quale «molti di coloro che trasferiscono la loro azienda dall'Italia vogliono solo praticare dumping salariale, giocando sul cambio e sui salari bassi dei frontalieri. Di questi imprenditori non sappiamo che farcene», tuona Lurati.
(Fonte: Franco Zantonelli, Repubblica del 20 Marzo. Articolo ripreso da "Diritti Globali")
Scritto il 20 marzo 2012 alle 17:00 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (2)
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Espellere lavoratori senza consultazioni sindacali e mobilità diverrà più semplice. Nel piano Fornero scatta l'indennizzo al posto del reintegro in caso di non giustificato motivo economico. Molte imprese saranno tentate dalla possibilità di mandar via fino a quattro dipendenti ogni 120 giorni
(di Luisa Grison - Repubblica)
Licenziare un dipendente in caso di crisi - o meglio licenziarne uno alla volta - è più facile, più diretto, più semplice che doverne mandare a casa cinque in un colpo solo. Nel primo caso basta una lettera che ne dia comunicazione al singolo lavoratore e, in un primo tempo, non è nemmeno necessario che la comunicazione scritta specifichi con chiarezza i motivi di quella scelta (l'informazione va fornita solo su richiesta del lavoratore se ne fa domanda entro 15 giorni). Se invece il licenziamento è collettivo la procedura si complica: c'è l'obbligo di comunicazione preventiva a sindacati, alle associazioni di categoria e al ministero del Lavoro; e per i lavoratori in esubero è prevista la mobilità.
Tempi, burocrazia, confronti che risultano ridotti, se non aboliti, quando a "saltare" è il posto di un solo dipendente. In quel caso infatti non è necessario nemmeno dichiarare lo stato di crisi aziendale: basta comunicare la fine di una mansione (ma anche il suo affido ad una struttura esterna) o la chiusura di un reparto. L'unico limite sta nel fatto che non si possono licenziare individualmente più di quattro dipendenti in quattro mesi.
Le differenze fra licenziamenti per motivi economici collettivi (cui possono far riferimento le aziende con più di 15 dipendenti) e licenziamenti per motivi economici individuali (ammessi per tutti) sono notevoli. Ma se - nel corso della trattativa in corso - passerà la linea proposta dal governo salterà quella più pesante: l'obbligo di far rientrare il dipendente al lavoro in caso di licenziamento illegittimo.
Le due formule fanno capo a due diverse leggi: quella sul licenziamento individuale è la 604/66. Nei casi di applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quindi per le aziende over 15) se dichiarato illegittimo dal giudice, anche il licenziamento individuale oggi è sanato con il reintegro obbligatorio sul posto di lavoro (sarà semmai il dipendente a decidere per l'indennizzo). La proposta Fornero elimina appunto questo passaggio e prevede che - anche in caso di illegittimità - l'azienda sia obbligata al solo indennizzo. Se passasse questo disegno è chiaro che - soprattutto in caso di aziende non molto grandi - sarebbe più semplice abbandonare la strada del collettivo per seguire quella del licenziamento individuale. Non solo: come ha denunciato nei giorni scorsi Sergio Cofferati, ex leader Cgil, caduto l'obbligo di reintegro per il licenziamento economico individuale "nessun imprenditore licenzierà per motivi disciplinari, dirà sempre che è un problema di costi o di organizzazione". La proposta del governo infatti, nel caso di motivi disciplinari affida al giudice il compito di decidere fra reintegro e posto di lavoro. La possibilità di doversi "riprendere" il lavoratore in quel caso dunque resta: perché rischiare?
Ora il punto resta uno dei più difficili della trattativa in corso. E ad oggi la soluzione comune non c'è. L'obiettivo del governo è chiaro: non facilitare i licenziamenti, ma renderli meno economicamente pesanti per le aziende. L'obiettivo dei sindacati è altrettanto netto: proteggere l'articolo 18, ma su quali e quanti debbano essere i gradi di protezione la trattativa è aperta. La Cgil ufficialmente non si muove dalla sua posizione iniziale. Niente manutenzione sull'articolo 18, solo la disponibilità a ragionare sui tempi della giustizia (anche se pare che alcuni, nel sindacato, possano aprire alla possibilità di far decidere, anche in questo caso, al giudice).
Concentrazione totale sulla difesa dello status quo, dunque, anche perché - precisa Claudio Treves - "questa storia dell'ossificazione del mercato del lavoro non esiste: lo dimostra il fatto che già oggi i licenziamenti individuali sono molto più numerosi di quelli collettivi". La Cisl, nei giorni scorsi, aveva proposto una mediazione: "Niente ricorso al giudice, perché contestare l'esistenza di una crisi è difficile: basta che l'imprenditore dichiari che il magazzino funziona con il carrello magnetico piuttosto che con quello manuale che il posto salta - spiega Giorgio Santini - meglio non esporre il lavoratore alla sconfitta". Semmai la Csil propone l'estensione anche al licenziamento individuale delle norme previste per quello collettivo (legge 223/91). E in caso di licenziamento illegittimo, rinunciare al reintegro a patto che al lavoratore siano riconosciuti (oltre al normale indennizzo) due anni di mobilità. Ma il nodo è tutto da sciogliere. Luisa Grison
Ieri a "L'Indefele" è spuntato un altro "Ichino" (credo Marco), che credo sia figlio di Pietro Ichino, il mito dei nuovi sinistri precari e contenti. Qualcuno è in grado di confermare? Io credo proprio sia suo figlio, visto che fa lo stesso mestiere ereditario, gli rassomiglia, dice le stesse sciocchezze, con la stessa sicumera. Resta da capire (ma siamo sicuri che qualcuno provvederà a spiegarcelo) quale sia la grande differenza fra il licenziare quattro operai senza giusta causa in un botto solo, o uno al mese per quattro mesi.
L'art. 18 è diventata una pura battaglia simbolica, senza nessun nesso con la realtà. Una battaglia di civiltà. Una conquista che non può e non deve essere buttata alle ortiche solo per vincere una battaglia che già è stata dei Berlusconi, Sacconi e Marcegaglia. Monti faccia cose utili, non atti simbolici. Spesso le guerre sono state scatenate più per ragioni simboliche che reali (la maglietta idiota di Calderoli, gli scogli delle Falkland della Tatcher, Bush junior che si inventa la guerra all'Iraq per vendicare babbo Bush senior...).
Il sindacato ceda una volta, e i padroni delle ferriere alzeranno il tiro (vedi l'uomo con maglioncino). Gli operai non chiedono la luna. L'art. 18 protegge da "Licenziamenti illegittimi", cerchiamo di non dimenticarlo. Cioè protegge quei padroni delle ferriere che pensano di poter trattare persone come merci: io ti pago, ti compro, ti adopero, e se mi comoda ti butto via. La vita è più complessa di così.
Molti tifosi della abrogazione dell'art. 18 dimenticano questo elementare principio. Molti lamentano la lentezza dei giudizi, Bene, si concentrino sull'abrogazione della lentezza, non dell'art. 18. Altri lamentano gli elementi distruttivi per i quali le aziende estere non investono in Italia. Bene, una recente inchiesta dell'OCSE, da noi pubblicata, dimostra che l'Italia è fra i paesi dove licenziare - sia a livello individuale che collettivo - è semplicissimo. Molto, ma molto più semplice, sbrigativo ed economico che in Germania. Qualcuno ci spieghi (si accettano risposte da qualsiasi membro della famiglia Ichino) perchè la VW macina utili, e noi maciniamo perdite.
Chiudo con un'annotazione: i reintegri, in tutta Italia, sono stati 350 negli utlimi 5 anni. Una media di 70 all'anno. In una regione come la Lombardia, sono stati circa 11 all'anno. Meno di uno al mese. Davvero gli ichini e i loro epigoni pensano che un'azienda straniera decida di investire o non investire in Lomnardia perchè in una regione che conta il doppio della Norvegia ci sono 11 reintegri (magari sacrosanti) all'anno?
Questi giuslavoristi della domenica si chiedano se in queste decisioni incida di più il sacrosanto art. 18, oppure il fatto che per lavorare in Lombardia è quasi obbligatorio fare i conti coi mazzettari che siedono al Pirellone, con la 'ndrangheta di Trezzano sul Naviglio o di Corsico, con le mille burocrazie, con la pressione fiscale più alta d'Europa.
No, caro Monti. No, cara Fornero. I ceti deboli sono stati spolpati fino all'sso. I pensionati o aspiranti tali sono stati devastati. Il precariato del lavoro è ormai la regola per un terzo degli occupati. Ecco perchè sono fermi i consumi, la domanda, l'economia, cara Fornero. Non certo per i devastanti effetti dell'art. 18, chew riguardano lo 0,0003% della forza lavoto all'anno.
Ora si cominci a succhiare qualche goccia di sangue anche agli "obesi economici". Si eviti di buttare nel buco della Val di Susa 40.000 miliardi di lire. Si scovino i proprietari dei due milioni di case inesistenti per il catasto. Vi vuole solo un database che incroci catasto con contratti di luce, acqua, gas. Ci vuole la voglia politica di farlo.
L'art. 18, fuori dalle ideologie
In caso di licenziamento illegittimo l'articolo 18 impone all'azienda sia il reintegro del lavoratore che una sanzione pecuniaria, rendendo di fatto nullo il licenziamento stesso. Viene disposta la reintegrazione del lavoratore e non la riassunzione, perché altrimenti il dipendente perderebbe l'anzianità di servizio e i diritti acquisiti con il precedente contratto.
L'onere della prova della legittimità del licenziamento spetta all'azienda, che deve dimostrare al giudice del lavoro (non al normale giudice civile) la fondatezza dei motivi alla base del provvedimento preso (...e a che altro mai dovrebbe spettare, di grazia, l'onere della prova??? Se qualcuno mi accusa di avergli rubato la merendina tocca a lui dimostrare la fondatezza dell'accusa, io non sono in grado di dimostrare di non aver fatto una certa cosa... NdR) Tafanus
L'ignobile intervento di Mario Monti in Confindustria
Monti dimentica che la Fiat ha avuto, negli ultimi vent'anni, 17.000 miliardi di lire in regalo - sotto varie forme - dallo stato italiano. L'uomo col maglioncino ha salvato la Chrysler con un regalino di Obama di 8,5 miliardi di dollari, come prestiti a babbo mordo, a lunghissimo termine, e a tassi vicini allo zero. Qualcuno riesce ad immaginare la Merkel che sale sul palchetto per dire che la VW ha il diritto - anzi il dovere - di delocalizzare dove crede? No, caro Monti, questo diritto compete solo a chi non ha avuto dallo stato 17.000 miliardi di lire in regalo. Compete solo a chi ha rischiato del suo.
Mi consenta! Il suo intervento è stato peggiore di quanto avrebbe potuto fare Berlusconi al peggio della sua forma. Si regali una rettifica. Noi intanto, dopo la fase dell'emergenza, siamo ancora in trepida attesa delle fasi successive (equità, sviluppo... ricorda?)
Scritto il 20 marzo 2012 alle 12:06 nella Economia, Lavoro, Leggi e diritto, Politica, Tafanus | Permalink | Commenti (34)
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Quanti sono i "cretinetti" all'opera sulla strana faccenda della Torino - Lione? sono solo quelli alla Luca Abbà, come vorrebbe il becchino Sallusti, o dobbiamo cercarne in più direzioni? Diciamola tutta: gli idioti, in questa storia, non si contano più. Il becchino Sallusti ha già dedicato due prime ai "cretinetti". Si vede che questa issue al Cretinetti Sallusti è piaciuta molto.
Tanti si innamorano delle proprie sciocchezze. Ma tanti, coi loro comportamenti, fanno sì che una battaglia giusta assuma i connotati di una metodologia sbagliata, e contribuiscono a trasformare per reazione una razionale ostilitàverso l'ennesima, inutile cattedrale nel deserto, in una "ostilità di rimessa" verso i metodi e le motivazioni di chi combatte conto la TAV.
Cerchiamo di mettere ordine nelle nostre idee: sulla insensatezza economica dell'opera non ci dovrebbero essere dubbi. A chi volesse "ripassare" l'argomento, non posso che raccomandare un post del tafanus ricchissimo di dati e di riferimenti sul trend del traffico, e sui volumi di traffico richiesti per rendere l'opera non dico redditizia, ma almeno non catastroficamente in perdita.
Sulla TAV Torino - Lione sono colpevoli tutti, governi di destra, e governi di sinistra. Insipienza? oppure, più banalmente e squallidamente, si sono lasciati ingolosire dall'idea che il 60% dell'opera fosse finanziato dall'Europa? Ma che vuol dire? E se l'Europa dovesse offrirmi il 60% del costo di un TIR da usare per le mie esigenze (che sono quelle di andare ogni tanto in giro da solo o con mia moglie) che faccio, lo prendo? Perchè tanto anzichè costarmi 500.000 euro mi costerà solo 200.000?
La faccia feroce dello Stato in quest'ultimo anno non nasce - come tutti sanno - dall'esigenza di procedere rapidamente con un'opera fondamentale, senza la quale l'economia europea ed italiana crollerebbero. L'opera attualmente esistente è in grado di supportare 30 milioni di tonnellate di merci all'anno, e il traffico attuale è di meno di 5 milioni, in calo. La fretta dei governi nell'iniziare il "buco" di sondaggio (poco più che un carotaggio) nasce dall'ultimatum europeo. Senza un inizio certo del "carotaggio" l'Europa avrebbe cancellato il finanziamento. Che paura! Io e la mia famiglia avremmo dovuto rinunciare al nostro TIR personale, ed al contributo di 300.000 € dalla UE, ed avremmo dovuto continuare a viaggiare con una macchinetta media, che costa il 10% di quanto sarebbe costata la nostra quota-parte di TIR. Un disastro.
Viene quindi il sospetto che su un'opera da venti miliardi di lavori molti (troppi) abbiano sentito odore di affari - e di mazzette collegate. Ora, finchè a queste alte motivazioni reagiscono positivamente i governi dei Berlusconi, dei Lunardi, della P3, nulla quaestio. Tutto previsto. Ci saremmo meravigliati del contrario. Stupisce - e ferisce - che su questo carro siano saliti tutti, ma proprio tutti. Da Chiamparino, alla Bresso, a Fassino, a Bersani, e, last but not least - Mario Monti (che pure dovrebbe saper fare di conto, leggere un grafico, sapere di break-even-point, e sapere che nessuna opera pubblica italiana è costata a consuntivo meno del doppio di quanto preventivato).
Le lotte, la comunicazione, il consenso
Sembra che tutte le parti in causa (ed anche, ahimé, parti non in causa) stiano facendo di tutto per sbagliare sulla scelta dei temi di comunicazione, sui modi della comunicazione, e sui metodi di contrapposizione. Ma andiamo con ordine.
La TAV fa parte di un progetto nato storto, ma si tratta di un progetto europeo, che l'Italia ha liberamente sottoscritto. Che sia stupido o meno (e io credo che sia stupido) abbiamo agito senza una pistola puntata alla tempia. Abbiamo avuto (ed abbiamo ancora) modo di tirarcene fuori, limitando il danno a quanto già speso, a qualche penale, ed alla rinuncia di un contributo per un'opera più dannosa che inutile, e che nonostante il contributo ci costerà una barca di soldi nostri, e un'ipoteca su decennali bagni di sangue futuri, da fare in nome di un'opera che non ci serve. Serve solo alle lobbies italo-francesi dei grandi buchi.
Però è un'opera di interesse nazionale, quindi un interesse sovra-ordinato rispetto agli interessi locali. I poteri di interdizione da parte delle autorità locali sono limitati, per non dire pressocchè inesistenti. Resterebbe, è vero, la grande arma della comunicazione. Ma di comunicazione bisogna intendersene, ed anche in questa parte del problema sembra si sia scatenata una gara a chi sbaglia di più:
-1) La TAV - i valsusini dovrebbero saperlo - non si ferma se loro non la vogliono, ma potrebbe fermarsi solo se non la volesse la maggior parte dell'elettorato italiano. Una catasta di pneumatici dati alle fiamme non ferma la TAV, una catasta di sondaggi contro questo enorme spreco di danaro pubblico, probabilmente si. Se la maggioranza dell'elettorato nazionale si convincesse che la TAV non sarà un danno solo per i valsusini, ma per TUTTI i contribuenti (un danno perenne e perennemente crescente) allora le cose potrebbero cambiare.
-2) I NOTAV stanno sbagliando comunicazione, sia negli argomenti scelti per comunicare, sia nel modo di comunicarli. Gli argomenti scelti sono localistici. Alcuni anche giusti, ma di scarso interesse egoistico per chi non vive in Val di Susa.
-a) Vogliono ficcare una linea TAV in una valle stretta che ospita già ferrovie, strade fiumi e quant'altro? Ma cosa volete che gliene freghi ad uno di Bolzano, o di Termini Imerese, o di Rignano sull'Arno? Provate ad invocare su questi temi la solidarietà di un abitante di Sarno, o di Misilmeri, o dell'Aquila, e tireranno fuori i forconi. Non contro Monti, ma contro i NOTAV. Provate invece a spiegare e documentare agli italiani che la TAV per loro sarà un'altra addizionale sul prezzo della benzina che durerà nei secoli dei secoli, e vedrete la reazione...
-b) I NOTAV stanno sbagliando nel metodo. Le manifestazioni violente, in aree lontane da quelle toccate dalla TAV, generano solo antipatia. Davvero i NOTAV pensano di acqusire proseliti alla loro causa, creando disagi e violenze, atti di teppismo ed interventi della celere, bloccando le stazioni, le strade, le infrastrutture, in città lontane mille miglia da Susa e dai suoi problemi? Lo so... lo so... la solidarietà... Ma voi conoscete un'Italia dalla solidarietà diffusa, o quella dei piccoli egoismi di genere e di specie? Io no. Conosco un solo argomento aggregante: i soldi, se c'è il rischio che questo argomento tocchi pochi positivamente, e moltissimi negativamente.
-c) Non aiutano la causa dei NOTAV le infiltrazioni di populisti e demagoghi appartenenti a precise aree politiche di destra e di sinistra che del populismo hanno fatto la loro forma prevalente di propaganda. Ormai, nei servizi TV dalla valle, si capisce come i valsusini siano minoranza, e come la maggioranza sia costituita da turisti del manifestare (chiamateli come vi pare: invitati, infiltrati...). Non trovo molto comprensibile che per un problema a matrice fondamentalmente ambientale "ai confini dell'impero" si scateni l'altruismo solidale a Roma, a Napoli, in Sicilia.
-d) La storiella dell'amianto e dell'uranio è, per l'appunto, una storiella. Non è che scavando un tunnel in quell'area ci si ritrovi su milioni di tonnellate di lastre di eternit e di barre di uranio. Ci si ritrova su rocce diffusissime in Italia, che contengono parti infinitesimali di quasi tutto. In percentuali talmente ridicole che a nessuno è mai venuto in mente di aprire una miniera. E tutti tendono a dimenticare che nella stessa area, e in rocce di identica tipologia, è già scavato ed operante un tunnel da dieci chilometri, di "servizio e sicurezza" al tunnel autostrada, e non è successo niente. Stessa roba sotto il Gottardo, e in quasi tutti i tunnel dell'arco alpino.
-3) E veniamo ai metodi di lotta e di repressione - Dei metodi di lotta abbiamo già detto: impostati non sul tema centrale - l'inutilità/dannosità economica - ma su temi assolutamente localistici, che avrebbero senso se vivessimo in un paese che non è il nostro. Un paese interessato, altruista, partecipe del bene coillettivo (che è fatto dalla somma dei tanti "beni particolari"), e non un paese che ha fatto del Nimby (Not In My BackYard) una filosofia di vita. Lo confesso. Dai primi movimenti NOTAV mi dividevano le motivazioni di tipo uranio/amianto, ma a loro mi avvicinava l'amore per la democrazia partecipativa, assemblearistica, e i metodi di lotta non violenta, e addirittura a volte persino sompaticamente creativi.
Poi sono arrivati i metodi di lotta anche violenta, diffusa nel territorio, e sono arrivate forme di repressione spesso sproporzionate. Sono arrivati i professiosisti della protesta organizzata (dietro ai quali spesso si intravedono le solite facce consumate da anni di vaffanculismo, di violismo e di altri "ismi"), e sono tornati fuori i "Manganelli", di nome e di fatto.
Sbaglia chi sale su un traliccio dell'alta tensione, ma sbaglia altrettanto chi manda un patetico poliziotto a salire sul traliccio, all'inseguimento dell'arrampicatore. Con quale obiettivo? Qualora lo avesse raggiunto, cosa pensava di fare? aggrapparsi ai suoi piedi per tirarlo giù, e cadere insieme a lui? E se lo avessero lasciato in pace, senza inseguirlo, senza dargli la popolarità da ripresa TV, quanto tempo sarebbe stato sul traliccio? che danni avrebbe fatto? Invece così Abbà per alcuni è diventato un eroe (grazie alla TV), per altri - Rigor Mortis Sallusti, Littorio Feltri, Belpietro - è diventato un "cretinetti", uno che "se l'è cercata".
Così l'eroe con la barbetta che in favor di telecamera si guadagna i suoi cinque minuti di celebrità insultando sempre più pesantemente un povero poliziotto da 1300 euri al mese, man mano che capisce di essere di fronte ad un ragazzo che non reagirà perchè questo gli è stato ordinato, e man mano che capisce che la telecamera ha la lucina rossa accessa ed è puntata su di lui. Il famoso "lottatore da pausa-pranzo". Questo, si, un autentico cretinetti. Pasolini, perchè non sei più con noi?
-4) Infine, la politica e il governo - "Si va avanti. No al referendum". Parole più cretine non si potevano pronunciare, cari Monti e Passera. "L'opera è sta già decisa". Parole ancora più cretine di quelle precedenti. Anche il Ponte Silvio era già deciso. Anche le otto centrali nucleari modello Fukushima. Ci siamo fermati in tempo. Dire "Tireremo Diritto" mi ricorda il modo di ragionare del buonanima. Abbiamo "tirato diritto" finchè siamo andati a sbattere. Non c'è modo migliore per incanaglire gli altri che trattarli da minus habentes privi di voce e di diritti. La minchiata della resuscitazione dell'art. 18 di sacconiana memoria, e i proclami di Monti e Fornero, per ora hanno ottenuto solo la presa di posizione di imprenditori democratici contro questa resuscitazione di una battaglia di retroguardia, e la riunificazione, su questo tema, della "triplice" (inclusi i sindacalisti gialli Bonanni e Angeletti). Bella vittoria.
Scritto il 04 marzo 2012 alle 21:27 nella Berlusconi, Economia, Tafanus | Permalink | Commenti (27)
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Condividiamo e facciamo nostra la domanda di Massimo Franchi a Pietro Ichino, maggior giuslavorista autocertificato del globo terracqueo. Forse la (improbabile) risposta di Pietro Ichino potrebbe riempire di gioia e di orgoglio i maggiori ichinofili che frequentano il Tafanus. Una piccola gioia così non si nega a nessuno... Tafanus
Il senatore Pietro Ichino (il Bartali di oggi), a cui va tutta la mia solidarietà per le minacce Br che lo costringono ancora a girare sotto scorta, ha un problema. Come il Nanni Moretti di “Caro Diario”, all’interno del suo partito e del suo sindacato, è sempre in minoranza. Senatore Pd e tesserato dello Spi-Cgil dopo una vita passata dentro al sindacato, non riesce mai a spuntarla.
Massimo esperto di Diritto del Lavoro in Italia, ha proposto una riforma che prevede, sostanzialmente, un contratto unico in cui l’articolo 18 non vale per i primi tre anni. La proposta non è stata adottata dal Pd nell’assemblea sul Lavoro del giugno scorso.
Ichino se l’è presa. Da quel momento ha iniziato una campagna degna di miglior causa contro il suo partito e il suo sindacato, rei di essere conservatori.
L’apice l’ha raggiunto oggi con questa frase - a proposito della riforma del mercato del lavoro: “Nella concezione leninista, il sindacato era la cinghia di trasmissione delle scelte del partito. Dobbiamo forse concludere che ora, invece, a compiere le scelte è la Cgil ed è il Partito Democratico a fare da cinghia di trasmissione?”
Ecco, dopo questa ennesima dichiarazione una domanda sorge spontanea: "perché Ichino, non condividendo mai una decisione di Pd e Cgil, continua imperterrito a farne parte? Perché non spezza la “cinghia di trasmissione”?
(Massimo Franchi . l'Unità - 27 Febbraio 2012)
Scritto il 27 febbraio 2012 alle 18:10 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (2)
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Roma, 23 febbraio 2012 - "La Corte d'Appello di Potenza ha accolto il ricorso della Fiom contro i licenziamenti fatti per attività sindacale. (quotidiano.net)
È un grande passo". A parlare è Emanuele De Nicola, segretario della Fiom Basilicata, a proposito dei tre operai dello stabilimento Fiat di Melfi (due sono delegati del sindacato di Maurizio Landini), licenziati nell'estate del 2010 con l'accusa di aver bloccato la produzione durante uno sciopero interno.
LACRIME DI GIOIA - "Sono felice, dopo un anno e mezzo in cui è successo di tutto...". Non riesce quasi a parlare Giovanni Barozzino, uno dei tre operai Fiom licenziati e che ora dovranno essere reintegrati. "Provo una grande felicità. Ora torno a vivere. Giustizia è fatta. Sono troppo felice. Non riesco a dire altro"
''Oggi è un bel giorno per Giovanni, Antonio, Marco e anche per noi. Anche alla Fiat di Melfi è stato riconosciuto che il lavoro ha la sua dignità'', commenta via twitter il presidente di Sinistra Ecologia Libertà, Nichi Vendola. E l'ex ministro della Giustizia Oliviero Diliberto (Federazione della Sinistra) rincara la dose: "Questa è una straordinaria vittoria. Malgrado Marchionne abbia cacciato la Fiom Cgil dagli stabilimenti Fiat, malgrado le impedisca ogni trattativa sindacale, nella fabbrica ha vinto la giustizia. Dovrebbero far tesoro dell'odissea di questi operai - continua Diliberto - tutti quelli che oggi attaccano l'articolo 18. La realtà del Paese non è quella che si racconta nel Palazzo e nel governo tecnico. La realtà del Paese sono questi tre operai, discriminati fino al licenziamento per essere della Fiom, che hanno combattuto e che hanno vinto'' [...]
IDV IN PIAZZA - Il leader dell'Idv parteciperà allo sciopero della Fiom il 9 marzo a Roma: "Quanto accaduto oggi dimostra che la Fiat, oltre a ignorare gli articoli 1 e 39 della Costituzione, ad annullare gli accordi liberamente sottoscritti e ad azzerare il contratto nazionale, genera un continuo conflitto sociale e un infinito contenzioso giuridico. Sarebbe bene che la Fiat pensasse a far bene il proprio mestiere e cioè costruire e vendere macchine ad alto valore aggiunto, facendo funzionare bene gli stabilimenti nel nostro Paese. Invece, da anni ormai, per coprire i propri clamorosi insuccessi nel mercato preferisce usare i tecnici e gli operari dell'azienda come capro espiatorio. Un altro fronte si sta aprendo a Pomigliano, dove i lavoratori, per essere assunti, subiscono vere e proprie discriminazioni in base al sindacato a cui aderiscono"
BLITZ PRO STATUTO - E su questo fronte va ricordato il disegno di legge presentato dal senatore del Partito Democratico, Paolo Nerozzi, per rivedere l'art. 19 dello Statuto dei lavoratori, assicurando così piena "democrazia sindacale" all'interno della Fiat. La proposta intende riconoscere la facoltà di costituire rappresentanze sindacali aziendali anche alle associazioni non firmatarie dei contratti collettivi applicati in un determinato stabilimento, a patto che si tratti di organizzazioni affiliate alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. In tal modo la Fiom potrebbe essere di nuovo rappresentata a Pomigliano d'Arco - così come negli altri stabilimenti Fiat - e l'ostracismo di Marchionne conoscerebbe una cocente sconfitta [...]
CONTROFFENSIVA FIOM - Che la situazione in Fiat sia pesantissima lo illustra il segretario nazionale della Fiom, Giorgio Airaudo: "A Pomigliano la situazione è intollerabile. Su quasi duemila lavoratori assunti, non ce n'è nessuno iscritto al nostro sindacato, è in corso una discriminazione che pensiamo di poter e dover dimostrare". E ai microfoni di Rainews 24 Airaudo annuncia: "Presenteremo in questi giorni in venti tribunali italiani, per sessantuno stabilimenti, le cause per chiedere che la Fiat sia dichiarata antisindacale perché non sta riconoscendo i rappresentanti della Fiom. Bisogna ripristinare i diritti dei lavoratori a scegliersi liberamente i rappresentanti.
Scritto il 23 febbraio 2012 alle 19:15 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (0)
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Confesso che questa panoramica di Valentina Conte sulle retromarce silenziose del governo Monti mette i brividi. Almeno a me. All'epoca delle "lenzuolate" in gran parte abortite di Bersani, ero stato molto critico. Specie sul cedimento alla violenza dei "tascisti" romani. In particolare, avevo ricordato a Bersani un insegnamento che mi aveva trasmesso mio padre: "mai fare minacce che non sei in grado di mantenere". Speravo che la lezione di Bersani fosse servita a Monti. Speravo, sinceramente, che Monti se ne ricordasse, a avesse scientemente deciso di andare allo scontro, e di vincerlo.
Invece, noto con raccapriccio che sta scadendo nelle debolezze tipiche di un governo politico. Con l'aggravante che, al contrario dei governi politici, avrebbe la possibilità si andare allo scontro, con serie probabilità di vincere la partita. Invece, osservo che - lobby dopo lobby - sta calando le braghe, e che sta cercando di recuperare l'immagine decisionista, alquanto appannata, affrontando con inusitata durezza i poveracci dell'articolo 18. Spero di sbagliarmi, ma sembra questa sia l'unica categoria verso la quale Monti & Fornero abbiano adottato la provocatoria durezza del "cerchiamo di riformare l'art. 18 con l'accordo delle parti, altrimenti andremo avanti ugualmente".
No, caro Monti, non ci siamo. Se ha i coglioni, li deve sfoderare con TUTTI, e non solo col la parte più fragile e meno dotata di potere ricattatorio dei lavoratori dipendenti a reddito fisso, in un contesto di bassa occupazione. Troppo facile, troppo becero. E troppo somigliante a ciò che per anni ha irresistibilmente monopolizzato l'attenzione dei Berlusconi dei Sacconi, e - in cauda venenum - della Marcegaglia, e della sua folle ed offensiva uscita sui sindacati "difensori di criminali e fannulloni".
Le abbiamo dato piena ed entusiastica fiducia, ma non abbiamo sposato nessuno. Riportiamo i preoccupanti passi della review fatta da Valentina Cortese su Repubblica:
Sviluppo, dai taxi alle farmacie, l'asse governo-partiti frena le liberalizzazioni. Molti degli emendamenti dei relatori e dei senatori vengono incontro al costante pressing delle lobby. Sui temi forti si rischia il dietrofront completo. Le nuove licenze dei tassisti tornano in capo ai sindaci. L'Ici per la Chiesa non si farà subito ma con un emendamento
Liberalizzazioni a rischio - Il testo del decreto Cresci-Italia, sommerso da migliaia di emendamenti in commissione Industria del Senato, prosegue il suo faticoso percorso tra le pressioni delle lobby e la complicata quadra politica. La versione che arriverà il aula mercoledì prossimo per il voto - blindata in un maxi emendamento su cui il governo potrebbe porre la fiducia - rischia di essere migliorata solo in parte. Sui temi forti, si teme un dietrofront completo. Come per i taxi: la decisione su eventuali nuove licenze da mettere a bando torna in capo ai sindaci, così come l'extraterritorialità del servizio.
Sulle farmacie crescono le resistenze per le nuove aperture, così i malumori su tariffe e preventivi dei professionisti. Intanto alcuni capitoli - Srl dei giovani e tribunale delle imprese (sul punto, ieri la presidente di Confindustria Marcegaglia ha incontrato il ministro della Giustizia) - sembrano privi di copertura finanziaria. Per quanto riguarda l'Ici delle onlus, le nuove norme che dovrebbero estendere il pagamento dell'imposta anche agli immobili della Chiesa usati a fini commerciali, seppur in modo non esclusivo, con tutta probabilità non saranno inserite nel decreto sulle semplificazioni fiscali che il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare venerdì prossimo. Ma verrebbero affidate ad un emendamento ad hoc perché siano condivise anche dal Parlamento, nel successivo iter di conversione del decreto.
TRASPORTI - Indietro tutta sul capitolo "taxi". A decidere eventuali nuove licenze saranno Comuni e Regioni "nell'ambito delle loro competenze". Saltano doppia licenza, licenze part-time, taxi stagionali. L'Autorità dei trasporti, che avrebbe dovuto "adeguare i livelli di offerta" e aumentare le licenze "sentiti i sindaci", viene limitata ad esprimere "un parere obbligatorio, non vincolante", a "monitorare e verificare" il servizio, le tariffe, la qualità, le esigenze delle città, fornendo una semplice analisi costi-benefici in base alla quale i sindaci possono adeguare il numero delle auto, bandendo concorsi straordinari. Qualora non lo facessero senza valide motivazioni, l'Autorità ricorrerà al Tar. Confermato il taxi ad uso collettivo e il servizio fuori città ma solo in base ad accordi sottoscritti dal sindaco con i Comuni interessati. Maggiore libertà nel fissare le tariffe, a partire da quelle predeterminate dal Comune. Sarà possibile usare la stessa vettura per più turni. L'Autorità dei trasporti avrà una dotazione di 5 milioni per il 2012, potrà erogare sanzioni amministrative e partire prima, entro il 31 maggio, senza interim con l'Authority per l'energia.
CLASS ACTION - Rafforzata la class action e definite multe corpose contro le clausole vessatorie a danno dei consumatori. "L'azione di classe ha per oggetto l'accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni in favore degli utenti consumatori", definisce nero su bianco l'emendamento approvato. Il professionista o imprenditore che inserisce clausole vessatorie nei contratti e che poi, una volta scoperto, non si attiene alle disposizioni dell'Antitrust sarà multato: tra i 2 e i 20 mila euro per chi non rispetta le decisioni, da 4 a 40 mila euro per chi fornisce informazioni o documentazioni non veritiere, da 5 a 50 mila euro per chi non pubblica online e non diffonde i provvedimenti che certificano la vessatorietà.
BANCHE - Il capitolo banche, tra i più scarni e meno liberalizzati dal Cresci-Italia, è ritoccato solo in minima parte. Le banche potranno continuare a condizionare il mutuo o il credito al consumo (novità dell'ultima ora) alla sottoscrizione di una polizza sulla vita. Se lo fanno, hanno però l'obbligo di accettare la polizza scelta dal cliente, tra quella reperita da lui stesso sul mercato e la doppia opzione presentata dalla banca (di compagnie a lei non riconducibili). La banca non potrà poi vincolare mutuo e apertura di conto corrente. L'obbligo sarà considerato una pratica commerciale scorretta, come quello di sottoscrivere una polizza erogata dalla stessa banca. Sarà infine gratuito il conto aperto per accreditare la pensione fino ai 1.500 euro.
FARMACIE - Ancora non sciolto lo spinoso nodo delle farmacie. Se ne è discusso a lungo, ieri notte in commissione Industria. Ma la quadra politica non è stata ancora trovata. Lo scoglio maggiore riguarda le nuove aperture (se ne prevedono 5 mila in più con un ampliamento del 25% della pianta organica), considerate dannose dalla categoria. Il Pdl punta ad abbassare il quorum del decreto (una nuova farmacia ogni 3 mila abitanti) ad una ogni 3.800, in linea con quanto auspicato da Federfarma che sul punto fa notare che il quorum reale è una a 2.200, considerati i nuovi punti che, grazie al decreto, sorgeranno in stazioni, aeroporti, autostrade. I consumatori temono una retromarcia, su questo punto e sulla liberalizzazione dei farmaci di fascia C.
IMPRESE - I tribunali delle imprese e Srl ad un euro per gli under 35. Entrambi i capitoli rimangono per ora sospesi. Gli emendamenti dei relatori sono stati accantonati, in attesa di un parere della commissione Bilancio sull'effettiva copertura delle norme. La proposta è di portare da 12 a 20 i tribunali (uno in ogni capoluogo, tranne la Valle d'Aosta), a cui verrebbero sottratti almeno due competenze (class action e appalti pubblici). Mentre si pensa a un passaggio gratuito dal notaio per la Srl (ora ne è esentato, con rischi infiltrazioni) e il vincolo di destinazione del 25% dei ricavi annuali ad aumento del capitale. In entrambi i casi, il problema sono i soldi. Le misure costano: più giudici e bolli per la registrazione della Società (6-700 euro).
RETE GAS - Discussione ancora aperta sulla separazione tra Eni e Snam. Il governo punterebbe ad uno scorporo totale (ora Eni possiede il 52% di Snam), di reti, stoccaggio e rigassificatore di Panigaglia. Almeno secondo quanto riferito ieri dal sottosegretario allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti, dopo una giornata di confusione e smentite con voci di un possibile freno dell'esecutivo sugli stoccaggi. Sui tempi, alcuni emendamenti (molti a firma Pd) chiedono un'accelerazione. Altre posizioni convergono su un orizzonte più lungo. De Vincenti ha confermato la tabella di marcia prevista nel decreto: sei mesi per il decreto del presidente del Consiglio che fissi le modalità della procedura. "Due anni è il tempo giusto per arrivare alla dismissione", ha però frenato la senatrice Vicari (Pdl), relatrice del provvedimento. Per quanto riguarda la quota residuale di Eni in Snam, quella prevista dal Cresci-Italia è il 20%, ma una direttiva europea consentirebbe di scendere al 5% sul modello Enel-Terna. "Siamo pronti a fare riferimento alla direttiva europea", ha aperto De Vincenti.
ASSICURAZIONI - Molte novità in tema di Rc auto. A partire dalla stretta sulle frodi alle assicurazioni e sui risarcimenti facili ai furbetti del "colpo di frusta". Misure inserite con tutta evidenza per calmierare le tariffe dell'Rc auto, tenute alte proprio dai frequenti raggiri, dicono le compagnie. E dunque i danni di lievi entità causati da incidenti stradali non saranno più rimborsati, a meno che non siano certificati da esami medici obiettivi. Chi simula il danno - fisico e all'auto - rischierà il carcere da 1 a 5 anni (oggi è da 6 mesi a 4 anni). Circolare senza Rc auto sarà ancora più rischioso: il nominativo passa alla polizia e al prefetto, se non si paga entro 15 giorni dall'inserimento dell'elenco di veicoli non coperti (...fatemi capire... con quelli che girano senza assicurazione, chiudiamo la stalla DOPO che sono scappati i buoi, e solo se li becchiamo per caso??? ma cosa c... ci vuole ad incrociare i dati del PRA con quelli dell'ANIA e/o dell'ISVAP, e andare a sequestrare le auto prive di assicurazione? NdR)
Nascono due nuove banche dati, accanto a quella dei sinistri presso l'Isvap: l'anagrafe testimoni e quella danneggiati. Tra le buone notizie, il certificato di rischio sarà inviato solo online (più veloce). Cancellato il taglio del 30% della somma risarcita, se l'auto è riparata da officine di fiducia (non convenzionate con le compagnie). Pagare il pieno con la carta, di credito o debito, sarà gratuito per benzinaio e cliente, fino a 100 euro.
Scritto il 23 febbraio 2012 alle 15:00 nella Economia, Lavoro, Politica | Permalink | Commenti (14)
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(da Libbbero del 16/02/2012) - Sugli ammortizzatori sociali tutto fermo per un anno e mezzo. Niente «accetta» sulla riduzione del numero delle forme contrattuali. «Nessun aut aut» sulla riforma. Quanto all’art. 18, sarà affrontato per ultimo. Dopo aver passato un paio di settimane a sbeffeggiare gli italiani mammoni e «sfigati» che si laureano in ritardo e preferiscono la «monotonia» del posto fisso alla flessibilità del mondo moderno, il governo, per bocca del ministro del Welfare, Elsa Fornero, dà un bel colpo di sterzo e inverte tranquillamente la marcia. Il tema era ed è strategico, ma le tensioni con le parti sociali, che si stanno ripercuotendo con forza nel mondo della sinistra, hanno evidentemente ridotto l’esecutivo a più miti consigli.
Durante l’ennesimo tavolo di confronto che si è tenuto ieri, anche con incontri bilaterali tra il ministro e i vari rappresentanti delle categorie, il governo ha accolto le richieste delle imprese e dei sindacati di non intervenire immediatamente sugli ammortizzatori sociali. Il tema, assicurano da Palazzo Chigi, non viene tolto dall’agenda e già lunedì sarà sul tavolo del ministero del Lavoro nel nuovo appuntamento fissato con le parti sociali nel tentativo di mettere a punto le regole che entreranno in vigore a babbo morto, l’applicazione sarà infatti rinviata di “almeno” 18 mesi. Il governo punta dunque a modificare un sistema considerato troppo generoso e soprattutto poco utile a reinserire nel mercato il lavoratore espulso dal ciclo produttivo, ma senza fretta, per i prossimi anni, magari quando a Palazzo Chigi ci sarà un altro premier e in Parlamento un’altra maggioranza.
Per quanto differita, comunque, la riforma inizia ad incardinarsi. L’apprendistato si appresta a diventare «la forma tipica di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro». Il ministro del Welfare intende sfoltire la giungla dei contratti pubblici e privati attraverso l’individuazione di «uno strumento per fare della formazione professionale seria» e la volontà di «valorizzare i contratti riportandoli alla loro funzione originaria». Per questo la linea del governo sarà anche all’insegna della «tolleranza zero» contro un «uso improprio» della nuova forma contrattuale. «Saremo severissimi perché l’apprendistato non può essere solo uno strumento di flessibilità», spiega ancora la Fornero. «Ci sono troppe partite Iva e occorre anche evitare la discontinuità e che migliaia di lavoratori finiscano in nero», prosegue.
La resa del governo ha riscosso grande successo tra le parti sociali. «Il confronto per ora parte con il piede giusto», ha detto la leader della Cgil, Susanna Camusso, perché «finalmente» si è cominciato a parlare non sulla base di un «elenco» ma di «idee», partendo da precarietà e ammortizzatori sociali, le priorità. Anche per il leader della Uil, Luigi Angeletti, è «un fatto positivo l’inizio concreto della trattativa». Bene la proposta del governo di lasciare per ultimo la discussione dell’articolo 18, ha detto anche il leader della Cisl, Raffele Bonanni, confidando, quando arriverà il momento, «nella ragionevolezza di imprenditori, governo e forze politiche, e dello stesso sindacato».
Molto più scettico appare il Pdl. «Superare le rigidità che finora hanno caratterizzato il mercato», ha spiegato il presidente dei senatori, Maurizio Gasparri, «è indispensabile per creare nuova occupazione. Ciò vuol dire superare anche alcuni tabù ed un presunto diritto di veto di qualche sindacato». Gasparri ha quindi chiesto al governo di agire «con rapidità e determinazione», perché «non possiamo tollerare titubanze o sotterfugi. È evidente che non si può essere rapidi e procedere per decreto in alcune materie, ed essere lenti e indecisi nel mercato del lavoro».
Scritto il 18 febbraio 2012 alle 14:03 nella Economia, Lavoro, Leggi e diritto, Tafanus | Permalink | Commenti (1)
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Calano le immatricolazioni in Europa - Nuovo crollo del Gruppo Fiat (-15,9%) - A gennaio la casa del Lingotto ha venduto meno di 70mila vetture, e ha visto scendere la sua quota di mercato sotto il 7%.
MILANO - In Europa a gennaio le immatricolazioni di auto sono scese del 6,6% annuo a 1.003.313 unità. Lo rende noto l'Acea. Nella sola Ue, le vendite hanno registrato un calo del 7,1%, attestandosi a un totale di 968.769 unità. Il gruppo Fiat ha venduto 69.479 vetture, il 15,9% in meno rispetto a un anno prima. La quota di mercato del Lingotto è così scesa al 6,9% dal 7,7% del 2011. Tra i costruttori il primato resta del gruppo Volkswagen (+1,6%), che ha vantato una quota del 24%, migliorata dal 22,1% dell'anno prima. Hanno tutti registrato dati in calo gli altri principali costruttori: Psa Peugeot Citroen (-14,6% e quota in flessione al 12,4%), Renault (-24,6% e quota all'8,2%), Gm (-13,8% e quota al 7,3%) e Ford (-4,3% e 8%).
Nel dettaglio dei marchi Fiat, le auto con il brand del gruppo hanno registrato una contrazione delle vendite pari al 18,4%. Alfa romeo ha accusato uno scivolone del 27,3%. Per contro sono andate bene le Lancia-Chrysler (+8,3%) e soprattutto le Jeep (+57,9%). I marchi di lusso e sportivi, ovvero Ferrari e Maserati, hanno registrato 425 immatricolazioni, in linea con quelle del gennaio 2011. Bmw, che a dicembre aveva superato Fiat quanto a quote di mercato, è di nuovo scivolata sotto il gruppo torinese, con una quota al 5,3% e vendite in calo del 5%. Sono andate bene le asiatiche Nissan, che ha vantato un progresso delle vendite dell'1,2% (quota al 3,6%), e Hyundai, con immatricolazioni in rialzo del 17,1% (quota al 3,3%). Volvo ha registrato una flessione del 2,2% (2%), Suzuki del 14,8% (1,3%), mentre Jaguar Land Rover (Tata Motors) ha vantato un balzo delle vendite del 39,9% (1%). Infine Honda ha visto scivolare le immatricolazioni del 23,3% (0,9%), Mazda del 35,7% (0,9%), Mitsubishi del 15,7% (0,8%).
Quanto al dato dei singoli paesi, l'Italia archivia gennaio con un calo delle vendite del 16,9% e la Francia del 20,7%. Se la Spagna ha vantato un rialzo delle immatricolazioni del 2,5%, la Germania ha visto calare le vendite dello 0,4%, mentre la Gran Bretagna ha confermato i dati dell'anno prima. La maggiore contrazione delle vendite è stata registrata in portogallo (-47,4%), mentre il più ampio rialzo è stato vantato dalla romania (+86,4%).
Scritto il 16 febbraio 2012 alle 16:00 nella Economia | Permalink | Commenti (0)
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Era ora. La Chiesa dovrà pagare l'ICI per tutti gli immobili ad uso commerciale, e l'escamotage dell'uso misto sarà superato on una norma che prevede, per questi immobili, il pagamento dell'ICI pro-quota, per quella parte dell'immobile non destinato al culto. Finirà quindi lo scandalo di residenza e alberghi nei quali una cappelletta votiva era sufficiente a qualificare l'immobile come destinato ad uso promiscuo.
In merito all'esenzione dall'imposta comunale sugli immobili riservata a tutti gli enti non commerciali, il Presidente del Consiglio e Ministro dell'economia e delle finanze Mario Monti ha comunicato al Vice Presidente della Commissione europea, Joaquin Almunia, la sua intenzione di presentare al Parlamento un emendamento che chiarisca ulteriormente e in modo definitivo la questione. Lo riferisce una nota di Palazzo Chigi precisando che l'intervento sarà attuato sulla base dei seguenti criteri:
- l'esenzione fa riferimento agli immobili nei quali si svolge in modo esclusivo un'attività non commerciale;
- l'abrogazione di norme che prevedono l'esenzione per immobili dove l'attività non commerciale non sia esclusiva, ma solo prevalente;
- l'esenzione limitata alla sola frazione di unità nella quale si svolga l'attività di natura non commerciale;
- l'introduzione di un meccanismo di dichiarazione vincolata a direttive rigorose stabilite dal Ministro dell'economia e delle finanze circa l'individuazione del rapporto proporzionale tra attività commerciali e non commerciali esercitate all'interno di uno stesso immobile.
Il Presidente Monti auspica che l'iniziativa del Governo permetta alla Commissione europea di chiudere la procedura aperta nell'ottobre 2010.
IL COMMENTO DELLA CEI - «Attendiamo di conoscere l'esatta formulazione del testo così da poter esprimere un giudizio circostanziato». Lo dichiara il portavoce della Cei, monsignor Domenico Pompili a proposito della nota del presidente del Consiglio e ministro dell'economia e delle finanze Mario Monti che ha comunicato la sua intenzione di presentare al Parlamento un emendamento che chiarisca ulteriormente e in modo definitivo la questione relativa all'esenzione dall' Ici per gli immobili degli enti non commerciali, utilizzati per finalità sociali. «Come dichiarato più volte, anche di recente, dal Presidente della CEI, Card. Angelo Bagnasco - continua il portavoce - ogni intervento volto a introdurre chiarimenti alle formule vigenti sarà accolto con la massima attenzione e senso di responsabilità». L'auspicio di monsignor Pompili è che sia «riconosciuto e tenuto nel debito conto il valore sociale del vasto mondo del no profit».
MA QUANTO VALE DAVVERO L'ICI ALLA CHIESA? - Sul reale valore dell'Ici della Chiesa da anni va avanti un vero e proprio balletto di cifre. In pratica, da quando nel 2006 il governo Prodi con un decreto ha confermato l'esenzione (prevista da una legge del 1992 per tutti gli enti no profit a determinate condizioni) del pagamento dell'Ici per gli immobili della Chiesa, che «non abbiano esclusivamente natura commerciale». Balletto di cifre fino, così ha sottolineato l'Avvenire, al rapporto del Gruppo di lavoro sull'erosione fiscale, guidato dal sottosegretario all'Economia Vieri Ceriani, che l'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti aveva voluto per censire le varie voci che in vari modi riducono il gettito fiscale.
Ma la complessità della definizione del valore di un eventuale gettito derivante da immobili «religiosi» dipende che le proprietà fanno capo a una galassia di soggetti giuridici diversi tra loro, che vanno dalle diocesi alle congregazioni, dagli ordini religiosi alle proprietà italiane del Vaticano vero e proprio. Che al suo interno ha poi la suddivisione tra le varie amministrazioni. In tempi recenti si è parlato di cifre che vanno dai 500-700 milioni stimati dall'Anci ai 2,2 miliardi stimati dall'Ares, l'Associazione ricerca e sviluppo sociale. Con il presidente dell'Anci, Graziano Delrio, che ha già proposto un censimento degli immobili, in particolare per individuare quelli adibiti a uso commerciale.
Secondo stime realizzate sul web si parla di circa 100 mila immobili, di cui 9 mila sono scuole, 26 mila strutture ecclesiastiche e quasi 5 mila strutture sanitarie. Secondo stime non ufficiali dell'agenzia delle entrate, si tratterebbe di un potenziale introito di due miliardi di euro all'anno. Tra i più critici verso l'esenzione Ici di cui la Chiesa gode assieme ad altri soggetti, ci sono i Radicali. Il segretario Mario Staderini, promotore di una campagna volta a svelare il «trucco» di alberghi e strutture in uso alla chiesa che non pagherebbero il dovuto, cita a sua volta stime dell'Associazione comuni italiani, secondo cui nel 2005 il mancato introito per queste esenzioni ammontava a più di 400 milioni di euro, cifra che oggi sfiora i 700 milioni alla luce della rivalutazione degli estimi. (l'Unità)
Scritto il 16 febbraio 2012 alle 12:00 nella Economia | Permalink | Commenti (4)
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Moody's declassa Italia ad 'a3' con Outlook negativo
(AGI) - Washington, 13 feb. - Pioggia di downgrade per i rating europei decisa questa sera da Moody's. Ne fanno le spese l'Italia, che passa da 'A2' a 'A3', il Portogallo da 'Ba2' a 'Ba3', la Spagna da 'A1' a 'A3', Malta da 'A2' a 'A3', Slovacchia da 'A1' a 'A2' e Slovenia da 'A1' a 'A2', tutti con outlook negativo. Passa in negativo anche l'outlook di Francia, Gran Bretagna ed Austria che mantengono comunque la tripla A di Moody's. (AGI) .
Scritto il 14 febbraio 2012 alle 00:13 nella Economia, Politica | Permalink | Commenti (5)
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Forse è il caso, a fronte di opinioni anche molto diverse sugli effetti frenanti dell'art. 18 e leggi equipollenti, di fare un confronto fra legislazioni nei vari paesi, e poi cercare eventuali correlazioni - positive o negative - fra livelli di protezione, tassi di disoccupazione, tassi di crescita.
A fronte del rinato polverone sacconian-marcegagliano sull'art. 18, infaustamente ripreso da Monti e Fornero, è il caso di riportare questo articolo di Paolo Griseri su Repubblica del 5 gennaio, che a sua volta riprende dati OCSE:
Licenziare i dipendenti è già possibile - l'Ocse: siete tra i più flessibili al mondo - Come liberarsi della manodopera in esubero: la Germania è il Paese più rigido, gli Usa non pongono ostacoli. Ma nella classifica degli economisti di Parigi la nostra legislazione è considerata assai poco vincolante
In Italia licenziare è difficile? Niente affatto. Gli indici dell'Ocse (strictness of employment protection) spiegano che liberarsi di un dipendente è molto più facile per un imprenditore italiano di quanto non lo sia per un ungherese, un ceco o un polacco. Con un indice di flessibilità di 1,77 (per i lavoratori a tempo indeterminato) l'Italia è al di sotto della media mondiale (2,11).
In cima alla classifica, nei paesi in cui licenziare è più difficile ci sono la Germania (indice 3.0) e i paesi del Nord Europa. Dunque, secondo questi dati aggiornati al 2008, non ci sarebbe alcuna ragione per modificare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in nome di una presunta rigidità delle leggi italiane. Il nodo è, da sempre, l'obbligo di reintegro, se il tribunale riconosce che il licenziamento è avvenuto senza giusta causa. Ma quell'obbligo è presente in gran parte dei paesi industrializzati, con l'unica eccezione degli Stati Uniti (che ora stanno rivedendo le leggi in materia).
Gli Usa sono in cima alla classifica della libertà di licenziamento: il loro indice è di 0.17. Ma sono anche una vistosa eccezione a livello mondiale, che non si riscontra in nessuno dei paesi emergenti, dove il Pil avanza ancora a due cifre nonostante la crisi. La classifica dell'Ocse (presa a riferimento dalle aziende che scelgono in quali paesi investire) mette l'Italia in cima alla top ten (indice 4,88) solo quando si voglia procedere a licenziamenti collettivi. In quel caso il nostro è il paese al mondo dove è più difficile licenziare grandi quantità di lavoratori tutti insieme. Ma è davvero un difetto? Vediamo la situazione nelle diverse aree del mondo.
ITALIA - Niente riassunzione nelle piccole imprese
L'articolo 18 della legge 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) prevede che il lavoratore licenziato senza giusta causa (i motivi economici non sono al momento considerati tali) abbia diritto al reintegro sul posto di lavoro. Solo se il dipendente sceglie di rinunciare al reintegro, il datore di lavoro può scambiare l'obbligo di riassunzione con il pagamento di un indennizzo pari a 15 mensilità dell'ultimo stipendio percepito. Nelle piccole aziende con meno di 15 dipendenti il lavoratore ingiustamente licenziato non ha diritto al reintegro e viene risarcito in denaro. In caso di controversia il lavoratore può ottenere la sospensione del licenziamento fino alla conclusione del processo.
GERMANIA - Lavoratori allontanati solo con giusta causa
Il licenziamento senza giusta causa è considerato illegittimo e, in via preferenziale, deve essere risarcito con il reintegro sul posto di lavoro. L'imprenditore che voglia licenziare un dipendente deve comunicarlo al consiglio di azienda. Se il sindacato riterrà non fondato il provvedimento, il dipendente ha il diritto di rimanere al suo posto fino al termine del processo. Se poi il giudice stabilisce che effettivamente il licenziamento non era giustificato, l'imprenditore ha l'obbligo di reintegrare il dipendente in organico. L'unica eccezione è la possibilità che l'imprenditore dimostri che non c'è possibilità di collaborazione con il licenziato che dunque viene risarcito con un indennizzo.
FRANCIA - Chiudere per delocalizzare è diventato meno semplice
Generalmente il lavoratore che viene ingiustamente licenziato è risarcito con indennizzi di entità variabile secondo criteri stabiliti dalla legge. Ma nell'autunno scorso tre sentenze di tribunali locali hanno fatto scalpore annullando i progetti di delocalizzazione di altrettante aziende d'oltralpe. Quelli che i francesi chiamano "licenziamenti della Borsa", dettati cioè dalla smania degli azionisti di portare altrove la produzione per aumentare i profitti, sono stati considerati illegittimi e le aziende sono state obbligate a riassumere i lavoratori licenziati. Grandi proteste, naturalmente, degli imprenditori. Ora sulla vicenda la parola deve passare alla Corte di Cassazione di Parigi.
STATI UNITI - Mano libera per le aziende e il reintegro non esiste
Tradizionalmente in Usa vale il principio secondo cui l'imprenditore può licenziare i suoi dipendenti a piacimento ("at will") senza alcuna restrizione. Una norma spesso invocata dai liberisti europei come riferimento ideale. In realtà nel corso dei decenni i limiti sono stati posti sia a livello federale che dei singoli stati. In generale è illegittimo il licenziamento di un lavoratore che si sia rifiutato di andare contro la legge, o un licenziamento discriminatorio per ragioni legate alla razza, alla fede religiosa o al credo politico. Curiosa la norma che in Michigan vieta licenziamenti legati alla statura o al peso. Ma anche in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore viene risarcito in denaro e non con il reintegro.
CINA - Cacciare gli "anziani" è quasi impossibile
In Cina la legge sul lavoro è stata aggiornata a partire dal 1 gennaio 2008. I dipendenti possono essere licenziati solo se il datore di lavoro è in grado di presentare un giustificato motivo. Questo vale anche durante il periodo di prova che varia da un mese a sei mesi a seconda della durata del contratto. Se il motivo è considerato giustificato, il licenziamento avverrà senza che al lavoratore vengano corrisposte indennità. E' vietato il licenziamento in caso di malattie dovute all'attività professionale presso l'azienda o quando il lavoratore sia dipendente da almeno quindici anni presso la stessa società e gli manchino meno di 5 anni alla pensione.
Un articolo più datato (ma non molto è cambiato) illustra la legislazione in altri paesi europei. Inseriamo solo i dati su alcuni paesi non toccati dal precedente articolo:
I licenziamenti nei principali paesi dell'Unione europea (di M. Roccella - CGIL)
La disciplina dei licenziamenti presenta aspetti tecnici di estrema complessità in tutti i paesi dell'Unione europea. Quella che segue, è una descrizione essenzialissima, funzionale a confutare la communis opinio che la reintegrazione nel posto di lavoro sarebbe una bizzaria tutta italiana, frutto delle fantasie dirigistiche del legislatore di casa nostra. Essa al contrario, sia pure con modalità variabili da un paese all'altro, costituisce un rimedio alquanto diffuso nell''Unione europea e tende ad essere praticato anche in paesi (si veda l'esempio danese) che pure, in linea di principio, restano attestati su soluzioni di tipo risarcitorio.
Per inquadrare correttamente i termini della questione, non va trascurato che nella recentissima proposta di normativa comunitaria sui licenziamenti individuali formulata dalla Confederazione Europea dei Sindacati, la reintegrazione nel posto di lavoro è prefigurata come primo rimedio nei confronti di un licenziamento illegittimo.
SVEZIA - Il sistema svedese di tutela contro i licenziamenti illegittimi è in ampia misura accostabile a quello vigente in Italia. La legge svedese risale al 1974, richiede l'esistenza di un giustificato motivo per legittimare un licenziamento, prevede come sanzione fondamentale nei confronti del licenziamento privo di giustificato motivo la reintegrazione nel posto di lavoro. Il sistema è particolarmente severo sia perché:
-a) prevede, in linea di principio, la continuazione del rapporto di lavoro in pendenza della controversia giudiziaria;
-b) qualora ciò non accada ed il licenziamento sia poi giudicato illegittimo, il datore di lavoro sarà condannato a corrispondere tutte le retribuzioni dovute in relazione al periodo compreso fra la data del licenziamento e quella della reintegrazione, nonché al risarcimento dei danno per l'illegittimità del licenziamento, in quanto tale;
-c) l'applicabilità della sanzione è generalizzata, eccezion fatta per le imprese di piccolissima dimensione Ove la reintegrazione può essere giudicata impraticabile. Va precisato che, qualora il datore di lavoro si rifiuti di dar corso all'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro è destinato a venire meno; ma il datore andrà incontro a pesantissime sanzioni economiche, potendo essere chiamato al versamento di una somma ulteriore a titolo risarcitorio, che può arrivare sino a 48 mensilità di retribuzione.
GRAN BRETAGNA - È in vigore dal 1978 (Employment Protection Consolidation Act) una legislazioneche prevede che il primo rimedio a disposizione dell'autorità giudiziaria nei confronti del licenziamento illegittimo sia rappresentato dalla reintegrazione nel posto di lavoro. li giudice può disporre un ordine di reintegrazione in senso stretto (reinstatement), oppure può condannare il datore di lavoro a riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato in un posto diverso, purché comparabile a quello in cui il lavoratore era occupato prima dei licenziamento (reengagement). Il sistema britannico riconosce una certa discrezionalità al giudice rispetto all'emanazione di un ordine di reintegrazione (nelle due forme indicate): si dovrà tenere in considerazione la domanda del lavoratore licenziato, il fatto che egli abbia in qualche misura contribuito a causare il licenziamento, la concreta praticabilità di un eventuale ordine di reintegrazione. La reintegrazione, comunque, non viene considerata impraticabile per il mero fatto che il datore di lavoro abbia già provveduto ad assumere altro lavoratore in luogo del licenziato.
Se il giudice ritiene non praticabile l'emanazione di un ordine di reintegrazione, opterà per una sanzione di tipo risarcitorio. La stessa sanzione, con una speciale maggiorazione, viene applicata al datore di lavoro inadempiente all'ordine di reintegrazione. Il sistema opera senza soglie dimensionali, ma escludendo dalla protezione legale i lavoratori con anzianità di servizio inferiore a due anni. Per questo aspetto la legislazione britannica è stata considerata di carattere indirettamente discriminatorio dalla Corte di Giustizia e dovrebbe essere modificata. Il criterio dei due anni di anzianità di servizio è stato introdotto dal governo Thatcher. Precedentemente l'esclusione riguardava i lavoratori con meno di un anno di anzianità di servizio. li governo Blair si è impegnato a ripristinare questa soglia più ridotta, estendendo in tal modo il campo di applicazione della legislazione protettiva. Una tutela rafforzata, sia dal . punto di vista processuale sia con riguardo alla misura dell'eventuale risarcimento, si applica nel caso di licenziamento discriminatorio per ragioni di carattere sindacale. (...abbiamo appena scritto qualche giorno fa che la strada intrapresa da Monti/Fornero - della discriminazione di tutela legale a seconda che si sia assunti da più o meno tempo - andrà a sbattere contro il primo ricorso di costituzionalità. NdR)
OLANDA - Nel panorama europeo il sistema olandese presenta caratteristiche peculiari. Dal 1945 il potere di licenziamento è condizionato dalla necessità di ottenere un'autorizzazione amministrativa da parte della pubblica autorità competente, chiamata a valutare la ragionevolezza delle ragioni addotte dal datore di lavoro. Qualora l'autorizzazione sia negata, l'eventuale licenziamento è considerato nullo ed il datore di lavoro sarà tenuto a continuare a pagare la retribuzione al lavoratore sino a quando non intervenga altra causa di estinzione dei rapporto. Dalle statistiche disponibili risulta che il sistema di autorizzazione amministrativa preventiva ha tutelato abbastanza efficacemente la posizione dei lavoratori, quanto meno fungendo da deterrente nei confronti di comportamenti arbitrari dell'impresa.
DANIMARCA - Quello danese viene presentato di solito come un sistema dove l'imprenditore avrebbe mano libera in materia di licenziamenti. Niente di meno vero. È vero piuttosto che in Danimarca, per consolidata tradizione, le regole di protezione dei lavoro sono poste dai contratti collettivi, piuttosto che dal legislatore. Il riferimento più significativo è rappresentato dal c.d. "Accordo Fondamentale" che, in materia di licenziamenti, prevede sia la regola dei giustificato motivo, sia la possibilità di contestare la legittimità dei licenziamento dinanzi ad uno speciale collegio arbitrale, specificamente competente, in materia di licenziamenti.
Nel 1981 l'Accordo Fondamentale è stato emendato proprio allo scopo di introdurre la possibilità per il collegio arbitrale di disporre la reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento privo di giustificato motivo (oggettivo o soggettivo). Resta vero che, nell'esperienza pratica dei collegio, arbitrale, tendono nettamente a prevalere soluzioni di tipo economico. La modifica del 1981, ad ogni modo, segnala che anche in sistemi comunemente considerati molto sensibili alle ragioni dell'impresa l'idea di reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento ingiustificato è tutt'altro che sconosciuta.
SPAGNA - Nel sistema spagnolo la reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo è prevista solo quando il licenziamento colpisca un rappresentante del personale nell'impresa. In questo caso la regola è rigida e comporta, a carico dei datore di lavoro eventualmente inadempiente all'ordine di reintegrazione, l'obbligo di pagare retribuzione e contributi sino a quando la reintegrazione non abbia avuto effettivamente corso. La regola generale, viceversa, consente al datore di lavoro di scegliere fra la reintegrazione e il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento dei danno (secondo importi graduati dalla legge in ragione dell'anzianità di servizio del licenziato). M. Roccella (CGIL) - Febbraio 2000
Si potrebbero fare molte considerazioni, sui dati sopra riportati. Ma preferisco pubblicare la tabella in calce (OECD Indicators of Employment Protection). Di questa tabella raccomando di leggere e valutare con particolare attenzione la prima colonna, che riguarda il livello di protezione a favore di lavoratori a tempo indeterminato, contro licenziamenti individuali (siamo nella nostra fattispecie dell'art. 18):
I dati sono ordinati per livello crescente di protezione. Contro la vulgata popolare, in Italia i lavoratori - nonostante l'art. 18 - sono fra i più licenziabili al mondo. La Francia - e specialmente la Germania (i maitres-à-penser che ci spingono ad una maggiore flessibilità) hanno un regime di protezione - loro si - che rende i lavoratori pressocchè inamovibili. Il paese al mondo col maggior livello di protezione da licenziamenti individuali è l'India, che, strano ma vero, è cresciuta del 97,10% in dieci anni.
L'Italia, dove invece la licenziabilità individuale è fra le più alte al mondo, il PIL in 10 anni è addirittura diminuito. In Francia e Germania in 10 anni c'è stata una crescita intorno all'8/9%. In particolare, in Germania i salari nell'industria sono, a spanne, il doppio di quelli italiani.
Infine, una considerazione sulla (non provata) correlazione fra flessibilità alta e disoccupazione bassa (la famosa fola che negli USA proprio perchè c'è il massimo di libertà di licenziare, c'è anche il massimo di facilità nel trovare un nuovo lavoro (dati 2010):
...meditiamo, gente, meditiamo...
Tafanus
Scritto il 13 febbraio 2012 alle 16:00 nella Economia, Lavoro, Leggi e diritto, Politica | Permalink | Commenti (173)
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Quello che si sta consumando in Grecia (anzi,contro la Grecia) ad opera della c.d. "Troika" (la Commissione Europea, la BCE e il FMI) è una sorta di genocidio economico di un paese, che col beneplacito dell'Europa sta per essere trascinato ad uno stato di economia del primario, dalla quale difficilmente si risolleverà prima di mezzo secolo. Forse in Grecia è l'ora della rivolta...
Poco importa che la Grecia abbia, nel passato, imbrogliato le carte dei conti pubblici. Innanzitutto non lo ha fatto la gente comune, ma i governanti. E non è giusto portare alla fame un popolo intero perchè i governanti (che il popolo non è in grado di controllare) facciano adesso pagare il conto a 11 milioni di innocenti.
Anche noi italiani abbiamo imbrogliato. Ricordate quando abbiamo inserito nel bilancio dello stato il "sommerso", per poter aumentare il denominatore dei rapporti deficit/PIL e debito/PIL? Cosa è stata, quella se non una elegante falsificazione del bilancio pubblico? Perchè se è vero che il sommerso esiste, ed è economia materialmente esistente, è altrettanto vero che il sommerso, per definizione, non contribuisce alle entrate dello stato. Anzi, priva lo stato di risorse, perchè consuma - esattamente quanto l'economia emersa - risorse limitate (suolo, aria, acqua, strade, etc..)
Non è umano, non è comprensibile il feroce accanimento della Merkel che - fossi stato al posto di Berlusconi - non avrei definito "culona inchiavabile", ma "ottusa, tetragona matrigna".
COS'E' LA GRECIA - Un paese di 11.300.000 abitanti (il 19% degli abitanti italiani), con un PIL di 235 miliardi di € (il 15% di quello italiano), e un PIL pro-capite pari al 79% di quello italiano. Un paese che ha 750.000 impiegati dello stato (uno ogni 15,1 abitanti) contro i 3.300.000 impiegati italiani (uno ogni 18,2 abitanti).
A un paese che ha in rapporto alla popolazione meno impiegati dell'Italia, chiediamo di licenziare 150.000 impiegati (uno su cinque). Se fosse chiesto analogo provvedimento all'Italia, Monti dovrebbe licenziare 660.000 impiegati dello stato. Rivoluzione assicurata. E comunque, dopo questa operazione, avremmo sempre un rapporto fra popolazione e impiegati statali peggiore di quello greco.
Fin qui ai greci è stato chiesto di rinunciare a tredicesime e quattordicesime; sono state imposte salatissime tasse aggiuntive. E' stata imposta una salatissima tassa sulle case, che va da 0,50 € al mq per un tugurio, ai 16 (sedici) euro al mq per appartamenti normali. Per 100 mq, la tassa può arrivare a 1600 euro. Un popolo sull'orlo della fame.
Ma quando avremo ben bene affamato la Grecia, avremo risolto il problema del default? No, perchè licenziare 150.000 impiegati non significa risparmiare 150.000 stipendi. Perchè se non vogliamo avere (fra ex percettori di stipendio e loro familiari) 600.000 morti di fame per le strade, lo Stato dovrà pur sempre provvedere con qualche forma di sostegno.
Era indispensabile, questa punizione?. Non lo era. La Grecia ha un debito in rapporto al PIL pari a circa il 150%, contro il 120% in Italia. Portare il debito greco dall'inaccettabile 150% al 120% itraliano (che per decenni èstato accettato dalla comunità internazionale), avrebbe significato portare il debito greco da 350 miliardi a 280 miliardi. Avremmo potuto imporre - questa volta si, senza deroghe - una diminuzione ad euro costanti di 7 miliardi all'anno per dieci anni. Avremmo punito una classe dirigente di imbroglioni, avremmo punito un popolo, ma non avremmo ucciso il malato.
Cui prodest? Il paese col sistema bancario più imbottito di titoli-spazzatura greci è, guarda caso, la Germania della "ottusa matrigna". Ed è questa ottusa donnona che lega la concessione di quanto servirebbe alla Grecia (non in regalo, ma come prestito a tassi agevolati, a lungo termine), e cioè 130/145 miliardi di €, per non andare in default, a condizioni-capestro, che i greci faranno finta di accettare, ma che non potranno - ad ogni evidenza - rispettare.
E mentre la Germania si è opposta con incomprensibile fermezza all'incremento del fondo BCE per la difesa dei titoli di stato dell'eurozona sotto attacco, che era - ricordiamolo - di 440 miliardi per TUTTA l'eurozona, trova normale prestare 130/145 miliardi alla sola piccola e debole Grecia. Perchè? Sentiamo come la pensa Giuseppe Guzzetti, Presidente della Fondazione Cariplo:
La proposta di ricapitalizzazioni temporanee delle banche europee lanciata dall’Eba (European Banking Ass.on) per far fronte alla crisi del debito sovrano non piace al Presidente della Fondazione Cariplo, azionista di Intesa Sanpaolo, Giuseppe Guzzetti. «Sono arrabbiato perché salvaguardano gli interessi francesi e penalizzano gli italiani» afferma Guzzetti che è anche presidente dell’Acri, l’associazione che riunisce le fondazioni bancarie. Recentemente l’Eba, autorità bancaria europea, ha chiesto agli istituti di credito di varare operazioni di rafforzamento patrimoniale per 14,77 miliardi di euro di cui la metà circa in capo alla sola UniCredit. Cifre molto minori sono state richieste alle banche francesi e tedesche. Le prime devono raccogliere quasi 9 miliardi sul mercato mentre le seconde appena cinque. Secondo l’autorità bancaria europea sono quindi più solide le banche del nord Europa rispetto alle nostre. Ma come è possibile se le francesi e le tedesche sono più esposte in titoli greci? Che dire poi del caso Dexia? La banca, nonostante potesse vantare un invidiabile Core Tier One al 12% è finita sull’orlo del crack per l’eccessiva esposizione in titoli greci.
Per rispondere a questa domanda bisogna capire quali sono i criteri utilizzati dall’Eba per stabilire se una banca è solida oppure no. Il Sole 24 Ore lo ha fatto nei giorni scorsi dimostrando che questi – come ha ricordato lo stesso Guzzetti – penalizzano le banche italiane e premiano quelle francesi e tedesche.
Nel calcolo degli attivi a rischio per esempio pesa assai di più il credito e i mutui a famiglie e imprese che non il trading finanziario. Con la crisi dei debiti sovrani poi, i titoli di stato italiani sono entrati tra quelli considerati rischiosi. E questo penalizza i nostri istituti di credito benché questi abbiano un’esposizione molto più limitata per esempio in asset ben più rischiosi, come i famigerati “titoli tossici”, da cui è partita la crisi nel 2008. Lo stesso dicasi per la leva finanziaria (cioè il rapporto tra attività e capitale) che per le banche del nord Europa è decisamente più elevata. Nessun istituto di credito del nostro paese ha dovuto utilizzare il salvagente degli aiuti pubblici (se si escludono i Tremonti bond). Lo stesso non è accaduto nel resto d’Europa. (IlSole24Ore)
Ora cominciamo a capire. Alla Merkel non frega un cazzo del destino della Grecia. Alla Merkel interessa solo salvare provvisoriamente le banche tedesche dal default greco. Almeno finchè i titoli greci non saranno classati presso il "parco buoi", o no saranno arrivati a scadenza, e rimborsati alla pari. E per far questo non bada a spese. E' pronta ad accettare che le autorità monetarie internazionali prestino alla Grecia da 130 a 145 miliardi, cioè dal 55% al 62% del PIL annuale della Grecia. Uno scherzo.
Tanto pagheranno i greci. In Grecia già sei mesi fa la disoccupazione era arrivata al 21% , in crescita di due punti percentuali rispetto al mese precedente. In fondo, oltre che licenziare 150.000 statali, tagliare gli stipendi minimi del 22% (che così scenderanno sotto i 590 euro, e ancor di più per i giovani) incassare la super-hyper tassa sulla casa fino a 1600 euro, ed altre bazzecole minori, mica chiedono ai greci di sparire tutti... In fondo, c'è sempre la soluzione del cannibalismo. I più forti mangeranno i più deboli, e coloro che si salveranno, secondo la legge della selezione naturale (Sparta docet) saranno ben selezionati membri di una società ggiovane e forte, capace di rinascere...
Ma c'è un altro elemento, forse determinante, che rende il comportamento della tetragona sciacalla meno incomprensibile: l'acquisto a prezzi di saldo dei gioielli di famiglia che la Grecia, affamata, sarà costretta a cedere per quattro soldi all'affamatore. Leggiamo cosa scrive il WSJ:
Lo shopping tedesco - "...tra le contraddizioni della crisi greca, va segnalata quella che vede la Germania in prima fila da un lato nel pretendere garanzie per i prestiti e dall'alto ad approfittare delle privatizzazioni avviate da Atene per fare cassa. Oggi, ad esempio, Deutsche Telecom ha annunciato la decisione di acquistare il 10% delle azioni dell'Ote, l'ex azienda telefonica di stato già in buona parte privatizzata, ancora di proprietà pubblica. Le trattative a due, consentite dall'accordo del 2008 con cui Deutsche Telecom rilevò il 30% di Ote, riguardano 49 milioni di azioni per un importo di circa 400 milioni di euro. Deutsche Telecom salirebbe al 40% del capitale.
Altro obiettivo è l'aeroporto di Atene che, secondo il Wall Street Journal, sarebbe nel mirino di Fraport: la società che detiene e gestisce l'aeroporto di Francoforte (uno dei primi hub europei) avrebbe espresso interesse per acquisire la quota ancora pubblica dello scalo di Atene, pari al 55%.
Infine, da fonte personale greca (insider ben informato) sembra - e dico sembra - che la Germania si accinga a mettere nel mirino anche gran parte del fotovoltaico greco, settore emergente che, grazie al clima privilegiato della Grecia, sembra avere un grande futuro. Davanti a se? No. Davanti alla Germania. Tafanus
Scritto il 12 febbraio 2012 alle 23:00 nella Criminalità dei politici, Economia, Tafanus | Permalink | Commenti (29)
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