Qualcuno si ricorda ancora della bolla speculativa sulle "dot.com", quelle mitiche società nate intorno ad Internet, e morte senza lasciar traccia di se, se non una massa di nuovi poveri coglioni, che avevano investito tutti i loro risparmi nella certezza di aver fatto 6 al superenalotto, o comunque si chiami questa roba negli altri paesi?
Le aziende "punto.com" erano TUTTE quelle che avessero qualcosa a che fare con la rete: servizi, servers, e-commerce. e-banking, un semplice sito aziendale, e-limortacci.sua... Qualsiasi cosa, purchè avesse nella ragione sociale il mitico "dot.com".
L'era felice delle "dot.com" inizia (sarà un caso, una congiunzione astrale?) nel 1994, insieme alla nascita del primo governo del cazzaro di Arcore. Il comparto delle dot.com al N.Y. Stock Exchange valeva 50 nel 1998, volava a 322 nella primavera del 2000, per piombare a 25 nel primo trimestre del 2001. I fortunati mortali che hanno avuto l'idea di investire i loro risparmi in dot.com con prezzi vicini ai massimi (succede, nel parco-buoi) sarebbero riusciti nell'exploit di perdere in due anni il 92% di quanto investito.
In quegli anni fantastici, nei quali anche il lift-boy poteva avere l'illusione, per un mese, di essere diventato milionario (salvo risvegliarsi il mese dopo con un pugno di coriandoli in mano), il successo del collocamento in borsa di qualsiasi cagata.com era garantito. Ma i veri winners erano sempre i soliti noti: i fondatori delle new entries collocate in borsa, e le banche d'affari che curavano i collocamenti (la Morgan Stanley, la Goldman Sachs, e altri of that kind).
Il rapporto contenuto/prezzo delle azioni era assolutamente fantasioso. Poteva accadere che la capitalizzazione di borsa dell'ultima dot.com creata da quattro ragazzotti nel solito garage, fosse valutata in borsa quanto un'azienda produttiva, dotata di mercato ed assets, con alcune decine di migliaia di dipendenti.
A titolo esemplificativo, cito la fantastica storia della "priceline.com". Un'azienda internet che offriva biglietti aerei a prezzo scontato, in affari da meno di un anno, e che al momento della sua quotazione in borsa (30 Marzo 1999) aveva già perso circa tre volte il suo fatturato, circa 35 milioni di dollari, ed impiegava meno di 200 persone. Il suo valore per azione crebbe del 330% nel suo primo giorno di trattazione, chiudendo a 69 dollari, per un valore complessivo come compagnia di circa 10 miliardi di dollari, più della capitalizzazione di borsa di United Airlines, Continental Airlines e Northwest Airlines messi insieme.
Qualche settimana dopo la quotazione raggiunse i 150 dollari, sicché a quel punto questa piccola azienda valeva più di tutta l’intera industria aeronautica degli Stati Uniti. Le azioni venivano scambiate a settembre 2001 a meno di 2 dollari l’una, un trentesimo del valore che avevano alla fine della prima giornata di trattazione.
In buona sostanza, i fortunati furbetti che avevano comperato in prossimità dei massimi, sono riusciti a perdere il 99% del capitale. Dite la verità... non sono dei geni della finanza? Peccato che io non abbia sottomano lo storico delle quotazioni del Nasdaq dal '94 ad oggi. Cercherò di rimediare con lo storico del Dow Jones - indice settoriale titoli Internet (le famigerate dot.com) - dal 1999 al 2002. Questi dati bastano a rinfrescare la memoria agli eterni sognatori.
Questa è la ragione per la quale ho seguito con grande interesse il collocamento, avvenuto fra squilli di tromba e ole, dei titoli facebook, avvenuto al Nasdaq il 18 Maggio. Preceduto ed accompagnato da una campagna di pubblicità redazionale mai vista prima, generata dal consorzio dei "collocatori", con in prima linea la Morgan Stanley. Prezzo di collocamento, 38 dollari ad azione. Una follia. Il giovane Zuckerberg incassa una barca di soldi, ma le cose non partono benissimo... Mentre normalmente nei giormni immediatamente successivi alle IPO le quotazioni schizzano verso l'alto, i vari "market's doers" fanno una fatica della madonna a portare il titolo a 42$, , ma passano pochissimi giorni e il titolo piomba sotto i 30$. Il 21% meno del prezzo di collocamento, ma i geniali investitori che si sono strappati di mano il titolo intorno a 42$, sono già sotto, in meno di due settimane di borsa, di quasi il 30%. Un affarone.
Cos'è successo, esattamente? Partiamo da un fatto-base: poichè i soldini incassati sia dal bimbomichia che dalle banche collocatrici sono funzione immediata e diretta del prezzo di collocamento delle azioni, entrambi hanno interesse a vendere la merda al prezzo corrente dell'oro. Informazioni gonfiate sul valore monetario di ogni aderente al social network, informazioni ottimistiche sulle "magnifiche sorti e progressive" dell'azienda, e il gioco è fatto. Il parco buoi è tale perchè non ha memoria, altrimenti ricorderebbe come è finita la bolla delle dot.com. Ma non si può pretendere che il parco-buoi sia dotato di memoria. Altrimenti che parco-buoi sarebbe?
Ma questa volta il diavolo - sotto le spoglie di Bloomberg Businesweek (seguito a ruota dai maggiori media americani) - ci mette lo zampone, e le cose cominciano a girare storte di brutto...
Breve: Zuckergerg sapeva, la Morgan Stanley sapeva, così come le altre banche del consorzio di collocamento, della sopravvalutazione del prezzo dell'IPO, ma tutti hanno taciuto. O meglio: le banche hanno taciuto col parco-buoi, ma sembra che abbiano avvertito invece, in via confidenziale e preferenziale, i "gruppi amici": investitori istituzionale come altre banche, fondi-pensione, grossi clienti...
Insomma, mentre lorsignori incassavano ed ingrassavano, i soliti imbecilli facevano la coda ai borsini delle banche per portar via la loro porzioncina di merda, faticosamente conquistata.
Voglio fornirvi un estratto della traduzione di un articolo di Ross Douthat sul NYT del 26 maggio, dal titolo "The Facebook Illusion":
The Facebook Illusion (di Ross Douthat)
Due grandi illusioni hanno dominato l'economia americana nel primo decennio del ventunesimo secolo. La prima è stata quella che i prezzi immobiliari non fossero più legati ai normali trends economici, e che invece non avrebbero potuto far altro che salire, salire sempre... La seconda illusione è stata quella che nell'era del web 2.0 non avremmo potuto che fare un sacco di soldi attraverso Internet.
La prima illusione è collassata nel 2007/2008, insieme al crollo dei prezzi immobiliari e degli indici di borsa. Ma l'illusione web 2.0 è sopravvissuta abbastanza a lungo da costare al parco-buoi una piccola fortuna la settimana scorsa, col disastro della IPO Facebook.
Confesso di aver provato un certo malvagio piacere per il duro atterraggio di Facebook, accompagnato dalla dichiarazione di Bloomberg Businessweek, che classifica l'IPO in questione come "il peggior flop degli ultimi dieci anni dopo 5 giorni di trading". A dispetto della generalizzata eccitazione del mondo di internet, il "social networking" di Mark Zuckerberg mi ha sempre colpito come uno dei più perniciosi, data la dipendenza del suo successo dagli aspetti più oscuri della rete: la zelante, continua opera di "self-fashioning" e di "self-promotion", l'inseguimento di forme virtuali di "comunità" e di "amicizia" (che poco hanno a che vedere con le relazioni reali dei cui nomi si appropria), nonché la continua opera di indebolimento della sfera privata delle persone, alla ricerca crescente di introiti pubblicitari.
Ma persino i lettori che adorano facebook, e che non potrebbero concepire una vita senza facebook, dovrebbero prendere atto del fallimento dell'IPO, e vederlo come un segnale dei limiti commerciali di internet. Come ha sottolineato John Cassidy del "New Yorker's", il problema non è quello che facebook non faccia soldi; il problema è che ne fa molto meno di quanto la gente non immagini, e che non ha immaginato come monetizzare efficacemente i suoi milioni e milioni di utenti. Il risultato è che facebook è certamente una società di successo, ma i suoi bilanci sono molto meno attraenti di quanto si potrebbe immaginare a causa della onnipresenza di facebook sulla rete [...]
E' da notare come le società più spesso citate come successi finanziari dell'era internet, Apple e Amazon, sono entrambe ben radicate nella produzione di beni non virtuali. Apple attraverso la ideazione, produzione e vendita di hardware sempre più sofisticato; Amazon specializzato nella vendita di qualdiasi prodotto "reale", dai DVDs ai pannolini, consegnati ovunque, e a prezzi più bassi.
Al contrario, compagnie dedite solo a prodotti soft, tendono a creare pochi posti di lavoro, e piccolissimi revenues per utente [...]
Un'occhiata alle statistiche del lavoro basta a far capire che a dispetto di un ventennio di entusiasmo verso le dot.com, il settore dell'informazione è rimasto molto piccolo rispetto ad altri settori. Esso attraversa attualmente uno dei più alti livelli di disoccupazione nel paese. Ed è uno dei pochi settori nei quali il tasso di disoccupazione è cresciuto rispetto all'anno scorso.
Niente di tutto ciò rende internet meno rivoluzionaria. Ma internet ha creato una rivoluzione culturale, non una rivoluzione economica. Twitter non è la Ford, e Google non è la General Electric. E il nostro destino non sarà quello di lavorare tutti per Mark Zuckerger, un giorno...
Ma voglio citare altri due articoli molto interessanti, che certificano il pericoloso flop dell'IPO Facebook
Bufera Facebook - dal Sole24Ore del 22 Maggio
I problemi incontrati da Facebook nell'Ipo vanno «esaminati». Lo afferma il presidente della Sec, Mary Schapiro, secondo quanto riporta l'agenzia Bloomberg. «Ci sono molte ragioni per avere fiducia nei mercati e nell'integrità di come operano ma ci sono problemi che vanno esaminati su Facebook». Il Nasdaq infatti ha avuto problemi tecnici nel primo giorno di scambi e ha dovuto ritardare l'avvio delle contrattazioni. A questo si aggiungono le difficoltà incontrate dall'indice nel comunicare ai trader l'esecuzione dei loro ordini.
Dopo le dichiarazioni della Sec, il titolo di Facebook perde il 6,4% a Wall Street sotto 32 dollari. La discesa continua. Secondo i dati Dealogic, si tratta dell'avvio peggiore nelle prime tre sedute di un'Ipo che ha raccolto più di un miliardo di dollari dal 2007. Ma non è finita. La Financial Industry Regulatory Authorithy (Finra) potrebbe esaminare le accuse mosse contro Morgan Stanley per l'Ipo di Facebook. Morgan Stanley è accusata di aver condiviso informazioni negative prima dell'Ipo di Facebook con gli investitori istituzionali. Alla vigilia della quotazione di venerdì scorso, proprio quando i vertici della società stavano organizzando gli ultimi dettagli per lo sbarco a Wall Street, gli analisti della banca - il maggiore sottoscrittore dell'Ipo - hanno infatti espresso dubbi sulla redditività di Facebook.
L'esperto Scott Devitt, come risulta dai documenti presentati dall'istituto, si era dichiarato perplesso sul fatturato pubblicitario legato agli utenti che accedono al sito tramite smartphone, meno redditizio rispetto al traffico tradizionale via computer. Non solo.
Anche Goldman Sachs e Jp Morgan, anch'essi sottoscrittori dell'Ipo, si sono probabilmente comportati allo stesso modo. Non è anomalo che gli analisti taglino le stime di una società alla vigilia dello sbarco in Borsa; l'aspetto singolare, nel caso di Facebook, è che l'analista in questione appartenesse proprio a una delle banche che sottoscrivevano l'offerta. Ma gli esperti sottolineano che gli analisti sono tenuti a operare indipendentemente dagli istituti per cui lavorano...
Insomma, siamo alla teorizzazione della legalità del conflitto d'interessi... Vi ricorda qualcuno, o qualcosa?
Ma ora siamo anche alla fase del pagamento dei cocci, visto che molte associazioni e privati hanno aperto pesantissime vertenze collettive nei confronti sia di Zuckerger, sia delle principali banche del consorzio di collocamento: Morgan Stanley, Goldman Sachs, JP Morgan Chase. E questi signori tanto puliti non senbra che siano, visto che la Morgan Stanley si è già dichiarata disponibile a rifondere al parco-buoi la differenza fra il prezzo di collocamento delle azioni facebook, e il "valore reale". Genuina, lampante ammissione, per acta, della truffa ai danni dei "risparmiatori" del parco-buoi. Ecco cosa scrive Maurizio Molinari da N.Y. per La Spampa:
Morgan Stanley: in arrivo i risarcimenti
Alcune società finanziarie furono avvertite sui rischi che comportava la quotazione di Facebook mentre i normali cittadini ne rimanevano all’oscuro: le nuove rivelazioni sul flop delle azioni di Mark Zuckerberg arrivano dalla California rilanciando il sospetto di una mega-truffa e la banca Morgan Stanley corre ai ripari assicurando che rimborserà chi ha pagato le azioni «più del giusto prezzo». Al centro della vicenda c’è la società «Capital Research & Management», di base a Los Angeles, che l’11 maggio scorso partecipò ad un incontro con alcune delle banche che sostenevano l’offerta pubblica di acquisto. Dalle indagini finora condotte, dalla giustizia in California e dalla Sec (la Consob d’America) a Wall Street, emerge che la sera prima dell’incontro dell’11 maggio la società fu avvertita «da una delle banche» sul rischio che l’investimento in Facebook avrebbe comportato rischi maggiori di quanto si ammetteva.
La conseguenza fu che il giorno seguente «Capital Research & Management» fece sapere a Morgan Stanley che il prezzo di offerta delle azioni di Facebook era «ridicolo». Il risultato fu che la società californiana non acquistò Facebook mentre, in quegli stessi giorni, migliaia di americani lo facevano senza troppi dubbi seguendo le indicazioni di banche e società finanziarie che promuovevano il social network come il migliore degli investimenti possibili. Tale disparità di conoscenze finanziarie per la legge americana è un reato e, secondo quanto afferma l’analista finanziario Jacob Zamansky al «Wall Street Journal», pone un problema di maggiore portata: «Gli analisti non dovrebbero dare opinioni su una Ipo se a parteciparvi è una banca per la quale lavorano».
Il corto circuito avrebbe dunque messo in luce un ennesimo tallone d’Achille del mercato finanziario, che vede società e banche rivelare informazioni di diverso tenore a clienti differenti. Morgan Stanley nega su tutta la linea affermando di «aver seguito su Facebook le stesse regole applicate ad ogni Ipo nel rispetto delle procedure vigenti», ma per scongiurare il rischio di fronteggiare cause collettive fa sapere che è disposta a compensare gli investitori che hanno pagato le azioni Facebook «più del dovuto». I portavoce del social network di Menlo Park restano invece in silenzio anche se attorno a loro tutto è in movimento. Sono soprattutto gli azionisti di Facebook, sentendosi ingannati e derubati, ad essere protagonisti di numerose azione legali: in un documento depositato ieri mattina al Tribunale Federale di Manhattan accusano le banche di «non aver reso pubbliche tutte le previsioni fatte dai loro analisti» creando così le premesse per danni economici che si misurano in centinaia di milioni di dollari perduti da migliaia di piccoli azionisti.
Nel mirino delle indagini, oltre a Morgan Stanley, vi sono le altre due maggiori banche sostenitrici dell’Ipo, Goldman Sachs e JP Morgan Chase, e oggi sarà la commissione bancaria del Senato di Washington ad occuparsi della vicenda. Ma non è tutto perché, tanto la Sec quanto il Congresso, si accingono anche a chiedere conto a Facebook del proprio comportamento perché a metà maggio avrebbe fatto conoscere ad un numero selezionato di banche stime sui profitti inferiori alle attese che invece il grande pubblico ha ignorato fino al debutto della quotazione nella giornata di venerdì. Si tratta di appurare se l’inganno ai danni dei consumatori sia da attribuire alle banche dell’Ipo, a Facebook oppure a entrambi: è proprio tale situazione di incertezza che spiega perché il titolo anche ieri è rimasto stabile attorno ai 32 dollari rispetto agli iniziali 38.
Confesso di essere felice, cattivamente felice dell'esito di questa storia. Innanzitutto perchè è una lezione agli smemorati del parco-buoi. Poi lo è per gli imbroglioni delle società oggetto dell'IPO, e per il consorzio di banche che hanno lucrato su un prezzo di collocamento truffaldino, imbrogliando solo i più deboli. Infine, perchè ridimensiona la vulgata sull'onnipotenza della rete, sulla quale molti hanno costruito - o provato a costruire - le proprie fortune, economiche o politiche. Il tempo, questo galantuomo... Tafanus
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