I misteri: Relatività dell’ Infinito.
(a cura di Charly Brown, alias Luciano Rota)
Molto probabilmente, la prima domanda che l’uomo si è posta davanti allo spettacolo di un cielo cosparso di stelle, già nel passato remoto della nostra esistenza di individui dotati di senso critico, è stata quella che riguarda le dimensioni dell’universo. Credo che ciascuno di noi si sia posta questa domanda una o più volte nella propria vita, senza trovarne una risposta adeguata.
Già nel diciassettesimo secolo gli astronomi post-galileani, entrati in possesso di strumenti ottici che permettevano un’osservazione più dettagliata di quella offerta dall’occhio nudo, si resero concretamente conto che l’estensione del cosmo fosse di gran lunga più vasta di quanto si potesse concepire. Ma quanto vasta ? Infinita ?Noi, come parametri raziocinanti, siamo abituati a conformare le dimensioni di ciò che ci circonda, ponendole in relazione alla misura del nostro esistere e della nostra esperienza quotidiana. Questo processo si definisce nel nostro cervello più o meno istintivamente: quando parliamo di qualcosa di “molto grande”o “molto piccolo” lo facciamo ovviamente paragonando quel qualcosa ad altre della stessa natura, che rientrano secondo un metro empirico nella definizione di “normale”.
Ogni aggettivo che noi usiamo esiste grazie ad un rapporto che noi inconsciamente ci poniamo. Quando diciamo “grande” o “piccolo”, “lungo” o “corto” “bello” o “brutto”, il processo che avviene nella nostra mente è – anche per coloro che non ne masticano molta – un processo puramente matematico. In effetti, noi poniamo un equazione, mettendo in relazione una misura “standard” individualmente posta, con l’oggetto della nostra osservazione. Diciamo: “è grande, si, ma rispetto a che cosa ?” E’ovvio che rapporti del genere abbiano valore soltanto quando mettiamo in relazione oggetti della stessa natura. Così come, matematicamente parlando, non avrebbe nessun senso quantificare ed interpolare mele con carciofi. Per operare questo processo abbiamo bisogno anche di una misura unitaria, o di una misura standard di grandezza riferita alla natura dell’oggetto da definire. Ognuno di noi si forma un’idea platonica di un oggetto in dimensioni “normali” per rilevarne le differenze a paragone con oggetti della stessa natura, che esorbitano dalla misura da noi ritenuta usuale. Così nasce una valutazione di “grande” o di ‘piccolo” per esempio.
Se invece usiamo l’aggettivo “infinito”, non esiste nella nostra mente un parametro con cui associarlo. Manca insomma la famosa misura unitaria o misura standard con cui porlo in relazione. A nessuno verrebbe in mente di affermare che il giardino del suo vicino è “più infinito” del proprio. Magari più verde. O più grande o che so io. Ma niente è più infinito o meno infinito di qualcos’altro. Da ciò dovrebbe risultare, come infatti viene inteso, che l’infinito è un valore assoluto e come tale non ammetterebbe relazioni.
Ma vediamo di trovare una risposta al quesito precedentemente posto, circa il fatto che l’universo sia infinito o abbia limiti. La prima intuizione (almeno da quanto risulta da dati accertati) a pro dell’infinità dell’universo risale niente meno che alla prima metà del quindicesimo secolo, ad opera del cardinale Monsignor Niccolò da Cusa. In un’epoca in cui la concezione tolemaica ancora era in piena auge, egli prospettò uno spazio infinito, e, per conseguenza, la convinzione che l’universo non avesse un centro. Sempre conformemente alla sua intuizione, tutti i corpi celesti si muovevano, inclusa la Terra; e le stelle erano altrettanti “soli”, ognuno di questi dotati di pianeti. Questa versione venne perlopiù avvallata e sviluppata dal matematico inglese Thomas Digges oltre un secolo più tardi, il quale affermava, non solo l’illimitatezza dello spazio, ma anche del numero delle stelle. Ovviamente, essendo quest’affermazione fatta 350 anni della scoperta delle galassie, Digges, intendeva lo spazio cosparso uniformemente da stelle fino all’infinito. Un altro italiano, Giordano Bruno, che sosteneva le stesse idee, venne sfortunatamente in conflitto con l’inquisizione. Accusato d’eresia, finì sul rogo.
Per un parere discordante a quelli tutt’ora menzionati dovremmo attendere l’inizio del secolo scorso:
nel 1926, l'astronomo e medico tedesco Heinrich Wilhelrn Olbers seguì un ragionamento per assurdo: immaginiamo una linea retta di lunghezza infinita che abbia origine dalla terra e punti in una qualsiasi direzione sulla volta celeste; date come premesse le ipotesi cosmologiche di infinità dello spazio, tale retta dovrà necessariamente, prima o poi, incontrare una stella. Essa potrà proseguire per distanze enormi ma, dato che l'universo è infinito, prima o poi dovrà farlo. Ciò significa che noi vedremo la sua luce. Infatti i raggi luminosi viaggiano in linea retta e la stella ha un'età infinita: la luce da essa generata ha avuto tutto il tempo per raggiungerci. Generalizzando, possiamo immaginare infinite rette con origine sulla terra che puntino in tutte le possibili direzioni verso la volta celeste: ognuna di esse incrocerà prima o poi una stella, e ognuna di queste stelle sarà a noi visibile. Questo vuol dire che, in qualsiasi direzione volgiamo lo sguardo nel cielo, dobbiamo vederlo illuminato dalla luce di qualche stella lontana. In altri termini, tutta la volta celeste dovrebbe essere costantemente illuminata a giorno e la notte non potrebbe esistere.
Solo due anni più tardi, nel 1928, la teoria sull’espansione universale formulata da Hubble, trovò una risposta definitiva al cosiddetto paradosso di Olbers. Come noto, Hubble, collegando la tendenza al rosso dei corpi celesti più distanti, con le conseguenze dell’effetto Doppler, accertò che, più lontano un corpo luminoso si trova, in rapporto al nostro punto d’osservazione, tanto più questo s’allontana velocemente. Oltre ad un certo limite, la luce delle stelle più lontane sfocia nelle frequenze non ottiche (infrarossi), tanto da non essere più rilevata otticamente.
Tengo a precisare che questa versione non appartiene all’ipotesi da me avanzata e che verrà ampiamente trattata nei capitoli seguenti. In ogni caso è noto che l’intensità della luce diminuisce in ragione quadratica alla distanza, così che su percorsi definibili in miliardi di anni luce finisce di perdersi otticamente.In conclusione, questo significa che, oggi come oggi, il paradosso di Olbers non ha più nessuna efficacia per sostenere od escludere qualunque tesi sull’infinità o limitatezza dell’universo.
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In un periodo di poco più recente, anche Einstein si pose questo problema e lo risolse in maniera conforme alle linee del suo pensiero scientifico: egli immaginava il cosmo privo di linee rette. Anche ciò che teoricamente viene inteso come una linea retta, in pratica si risolverebbe in una linea incurvata. Lo stesso effetto che, per esempio, verrebbe a percepire una persona che camminasse sulla superficie del nostro pianeta, ignaro della sua forma, nella convinzione di procedere in una linea retta. Anche qualora vi camminasse in eterno, non verrebbe mai a scorgerne la fine.
Questo paragone comunque, è solo suggestivo: calzerebbe soltanto qualora ci trovassimo sulla “superficie”dell’universo e non nel suo interno. Si prospetta una situazione bidimensionale proiettata in un contesto tridimensionale. Per meglio comprendere: quando pensiamo ad una persona che cammina sulla superficie curva del nostro pianeta, nella illusione che questa sia piana, ci troviamo a contemplare una situazione in cui giocano due misure: di base e di altezza. Ci manca il dato “profondità” che nel contesto qui delineato non ha nessuna attinenza, e che invece è di assoluta rilevanza in un cosmo tridimensionale. Quando ci muoviamo attraverso l’universo, sia lungo linee rette che ricurve, “penetriamo” nella sua profondità, avvicinandoci – teoricamente – verso i suoi eventuali limiti. Se poi in termini pratici non ci riesca di toccarli a causa della curvatura dello spazio, da egli suggerita, questo non ci dice ancora nulla sulle dimensioni oggettive del cosmo.
A credito di questa ipotesi, è doveroso aggiungere, c’è che essa rappresenta un primo, importante tentativo di porre l’assoluto in termini di relativo: sintetizzando questo pensiero si viene a concludere che per Einstein, il fatto che l’universo sia oggettivamente infinito o limitato ha poca importanza. E’ comunque infinito per chi lo percorre.
E’ anche infinito per chi l’osserva ?
I limiti della nostra osservazione sono determinati da due elementi: la capacità ottica degli strumenti e dal fatto, già esposto, che la luce riduce la propria intensità originaria ( o la propria frequenza, in ogni caso) sulla distanza.
Verosimilmente, se fossimo in possesso di strumenti capaci di concentrare la dispersione energetica, riportando l’intensità della luce stellare ai valori originari d’emissione, l’immagine che ne scaturirebbe sarebbe probabilmente molto simile a quella prospettata da Olbers: una muraglia di luce tutta intorno a noi. Ovviamente questa rimane una supposizione, fin a quando la nostra tecnologia non sarà in grado di produrre strumenti atti a questo scopo.
Che cos’è l’infinito, in fin dei conti ?
Ebbene, matematicamente, infinito è il risultato che si ottiene dividendo un numero per 0.
Se dividiamo 1 metro per una misura base vicina a 0, il risultato che otteniamo è vicino ad infinito. Più la misura base è vicino a 0 e più il risultato si avvicina ad infinito. Anche 1 metro potrebbe risultare infinito, quando lo dividessimo per una misura base uguale a 0.
Ora potremmo chiederci: che cos’è una misura e chi la stabilisce ?
Una misura è un frammento d’infinito, che noi fissiamo arbitrariamente sulla base della nostra dimensione ed usiamo convenzionalmente per una nostra precisa necessità: quella cioè di quantificare, comparare e prevedere. Va altresì inteso che ogni misura ha valore soltanto in virtù dell’interpretazione che ne viene fatta. Non sarebbe corretto affermare che questa attività di definire misure sia insita nella realtà stessa delle cose. L’universo è infine quello che è, senza misure e presumibilmente senza limiti. Misure e limiti appartengono ad una necessità della dimensione umana.
L’unico modo di addomesticare l’infinito, per noi, è quello di sbriciolarlo in frammenti, che costituiscono in ogni campo quantificabile dello scibile, ad altrettante misure unitarie.
Nel 1900, Max Plank, il padre della meccanica quantistica, si trovò di fronte ad un dilemma apparentemente irrisolvibile: siccome ogni fonte di calore emana energia su una scala di frequenze infinita, ne risultava che l’energia da esse emanata fosse anche infinita. Per aggirare quest’assurdo, Plank, frammentò l’emanazione globale in misure unitarie, che assunsero il nome di “quanti”. Il quanto è la misura unitaria base dell’emanazione energetica, così come il metro è l’unità di misura dello spazio. Ci rimane solo da chiederci se il “quanto”esista realmente, così come potremmo chiederci cosa sia in realtà un metro. Oggettivamente, potremmo dire, una fonte energetica emana il potenziale che contiene, così come un metro è la frazione di spazio che é. La frammentazione che noi operiamo sulla realtà è, come già chiarito in questa sede, la conseguenza della nostra necessità di quantificare, allo scopo di comparare fra loro le infinite varietà di potenziali energetici, nel caso della quantistica, o dell'infinita varietà di distanze, nella metrica spaziale.
É indubbio che la nostra dimensione si trovi in un punto indefinito posto sulla scala tra zero ed infinito. Su questa base noi fissiamo convenzionalmente le misure consone al nostro esistere, poiché in assenza di queste, o meglio, di frammentazione unitaria, tutti i risultati tendono ad infinito.
Per risolvere il problema delle dimensioni dell’universo dovremo necessariamente rifarci alla soluzione di Plank: dovremmo, in altre parole, operare la suddivisione di una realtà oggettivamente illimitata, in frammenti unitari che, per semplicità, potremmo chiamare “quanti cosmici”. Ogni quanto cosmico pone il suo centro nel proprio punto d'osservazione. Il quanto cosmico che ci compete, pone il suo centro nel nostro pianeta. I suoi limiti sono quelli che ci sono dati dalle possibilità di osservazione. Ciò che non percepiamo in nessun modo, in pratica per noi non esiste. Va da sé che quest'ipotesi vada applicata, come d’altronde tutte le misure da noi convenzionate, in relazione al nostro esistere.
Sarebbe come affermare che, in assenza di un soggetto d’interpretazione, o parametro d’osservazione, per meglio dire, l’universo per se stesso non ha nessuna necessità di adottare misure, né di porre relazioni e limiti.
Noi, trovandoci in un punto indeterminato di quest'incommensurabilità, tracciamo un raggio d’osservazione, che pone i suoi limiti nelle nostre possibilità d’osservazione.
Per diversi aspetti possiamo affermare che, attraverso la storia, l’umanità sia passata gradualmente da concezioni puramente soggettive, vale a dire, da puri prodotti della nostra immaginazione, a strutture sempre più connesse con la realtà delle cose, anche se una comprensione dell'oggettività pura resta per noi, al momento, un traguardo irraggiungibile. Ogni “concezione”, così come la parola stessa esprime, è il risultato del rapporto tra soggetto ed oggetto, è insomma, la risultante di un'interpretazione. Come tale, essa esige un punto di riferimento, uno schermo su cui proiettarsi in idea.
Il nostro modo d’intendere le cose, nell’ attuale momento storico, tende a riferirsi ed agganciarsi con tenacia crescente a dati oggettivi e perlopiù confermati sperimentalmente. La cosmologia potrebbe essere oggi definita come l’erede legittima della metafisica. Con una sostanziale differenza, però: mentre quest’ultima tende a trarre spunto da intuizioni prive di fondamento reale, la prima ha tendenzialmente la capacità di riferirsi a dati oggettivi od a logiche largamente condivise dalla scienza. Con questo, non possiamo ancora affermare che la cosmologia sia una “scienza” in senso stretto, poiché alla fine “interpreta” dei dati, a differenza della scienza vera e propria che, invece, deve o dovrebbe fornirli.
Circa la concezione dell’infinito, dovremmo concludere che, così come la leva di Archimede, ha bisogno di un punto d’appoggio per “sollevare il mondo”, la nostra mente necessita di un punto di riferimento per comprendere l’infinito, cosa che manca nella programmazione base del nostro cervello di individui relegati nei limiti di misure da noi create per osservare, rapportare e comprendere.
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