"...Flavia Pennetta, born to run in Brindisi, nel 1982, anno in cui Martina Navràtilova e Chris Evert-Lloyd vincono due slam a testa.
Mia madre ha 27 anni ed io sono la sua seconda figlia. E’ così giovane che suo padre si rifiuta di farsi chiamare “nonno”, dice che non è pronto, così per me lui è “babbo”. Bellissima, ha sposato l’uomo che ama e, naturalmente, è un talento del tennis. Gioca in serie C.
In casa mia solo il gatto non gioca a tennis. Mio padre, ex seconda categoria, presiede il Circolo della città. Mia sorella, Giorgia, è un talento assillato dai miei genitori; la zia, la sorella di mamma, è Elvy Intiglietta, della quale si ricordano due vittorie strepitose: una contro Maria Fiume, l’altra che le valse il tricolore Under 18. Oggi insegna, guarda caso, tennis..
Prima che io faccia in tempo a rendermene conto, mio padre mi ha già messo una racchetta in mano: la sua. Ho cinque anni, e frequento già il Circolo. Faccio il tifo per la mamma e per Giorgia. Sono una specie di mascotte..."
Inizia così la storia di Flavia, e del suo libro, che si divora tutto d’un fiato. Quando ho saputo che Flavia stava per dare alle stampe la sua autobiografia, per un attimo sono rimasto perplesso... Un’autobiografia a 29 anni? Ma non fatele questo discorso... C’è il rischio che vi ricordi che fra qualche mese compirà trent’anni, e che stringe una racchetta in mano già da 25 anni. Quanto bastava, una volta, per avere la pensione di anzianità...
Confesso che, conoscendo Flavia, ho comprato il libro con un certo timore: il timore di leggere un libro fra l’auto-apologetico ed il giustificatorio. Niente di più sbagliato. Il libro è un affresco dove c’è dentro tutto, di Flavia. Le sue fragilità, e la sua incredibile determinazione. C’è dentro il clan familiare, enorme, rumoroso, allegro, triste... in una parola, meridionale. C’è la ferrea disciplina dei preparatori atletici, e le sconsiderate mangiate di “bianchetto” crudo a Brindisi, che le faranno perdere un anno con una forma di tifo diagnosticata troppo tardi.
Tutti pensano solo al jet-set, alle luci della ribalta, e invece c’è dentro, spesso, un mondo di solitudine, di valige fatte e disfatte con troppa frequenza, di città intraviste ma mai viste, aeroporto > albergo > tennis club > albergo > aeroporto, e via per un altro giro, e così dai primi di gennaio fino ai primi di novembre. Ma ci sono anche gli inizi, i torneini da 10.000 dollari, il purgatorio dei tornei di qualificazione per entrare in tabellone...
Dall’autobiografia di Flavia emerge non solo una severa autoanalisi, fatta di periodi di grande determinazione, e di periodi di grandi fragilità. In una parola, non appartiene a quella genìa di robots del tennis che sono maturati, negli ultimi decenni, alla scuola di Nick Bollettieri, e dei suoi epigoni, e che giocano tutte allo stesso modo, come macchine lanciapalle costruite in serie...
Flavia dimostra tutte le sue umanissime contraddizioni quando racconta, senza nascondersi, la sua storia con Carlos Moya, durata per tre bellissimi anni, e finita come forse era normale che finisse... All’inizio di questa love-story Flavia sapeva che poteva finire male: “...Carlos è molto bello, molto ricco, molto famoso. E molto stronzo. Come quasi tutti quelli molto belli, molto ricchi e molto famosi...”
Poi però, quando si arriva alla casa messa su insieme in Spagna, alla frequentazione della famiglia di Moya, ai progetti per il futuro, Flavia ci crede, è innamorata e felice. Gioca persino meglio. La doccia fredda arriva per via di una paparazzata di Moya con un’altra. Non è una cavolata momentanea. Dopo i momenti della disperazione, arriva quello della determinazione. Va in quella casa che avrebbe dovuto essere il suo nido, mette le sue cose negli scatoloni, e chiama un corriere... E’ davvero finita.
Anzi, no. Perchè sotto la scorza da dura, Flavia ha perso dieci chili, la massa muscolare è andata a farsi benedire, deve ricominciare daccapo. Perderà praticamente un anno, e le servirà tutto l’aiuto di Gabriel Urpi, suo coatch, amico, consigliere spirituale, secondo padre, per rimetterla in sesto.
Ma il libro non è solo questo. E’ un bellissimo affresco del mondo del tennis, che smonta tanti fronzoli di contorno sulla vita da jet-set... Flavia, per quando smetterà di giocare, ha un sogno. Una famiglia normale, bella se possibile come la sua, almeno due figli (ma meglio tre), e viaggiare... Andare finalmente a vedere quei posti dove è stata mille volte senza vederli, costretta nel tragitto aeroporto > albergo > tennis club > albergo > aeroporto. La capisco. E’ il dipinto di una vita mille volte a rischio di spezzarsi. Per una caviglia, per un menisco, per uno stiramento muscolare, per una spalla mezza partita, per un tifo diagnosticato tardi e male...
Flavia e i suoi compagni di zingarate... Potito Storace, Filippo Volandri, e Federico Luzzi... Flavia sta per partire per Quebec, per un torneo che la porterà quasi certamente fra le top-ten, ma riceve un sms da Potito che la gela: “Fede è da ieri sera in coma”. Poi, la mattina, un nuovo sms: “Federico se n’è andato stanotte...” Al diavolo Quebec, al diavolo la top-ten. Ci sarà tempo. Ora l’imperativo categorico è quello di tornare in Italia in tempo per un ultimo saluto al suo compagno di zingarate... Gabriel capisce, e la accompagna. Federico muore a 28 anni per una leucemia fulminante. Aveva due anni più di Flavia, ed era uno dei suoi migliori amici. Quando, a Cincinnati, Flavia gioca e vince contro Daniela Hantuchova la partita che la fa entrare matematicamente nella top-ten (e nella storia del tennis), alza un dito verso il cielo, e dedica la vittoria al suo indimenticato amico.
Io raccomando questo libro a chiunque sia anche marginalmente interessato al tennis, perchè non è un libro di tennis, ma è anche, per molti aspetti, una lezione di vita per tanti giovani. E perchè mi capita di essere affezionato a questa ragazza. Per la sua forza, e per le sue debolezze. E, marginalmente, perchè Flavia bambina mi ricorda in maniera impressionante mia figlia bambina. Stesso caschetto di capelli nerissimi, stessa faccia impertinente...
P.S.: fra le debolezze di Flavia (questo post scriptum non le piacerà) nel libro spicca il suo rumoroso silenzio su quanto accaduto l’anno scorso agli US Open (uno dei 4 tornei del grande slam): Flavia, che è arrivata più volte nei quarti, sognava una semifinale, prima di chiudere la carriera. L’anno scorso, per una di quelle strane congiunzioni astrali, ha a portata di mano addirittura la finale degli US Open. Nei quarti ha la fortuna di incontrare la tedesca Angelique Kerber, che pochi mesi prima aveva incontrato e battuto nettamente a Bastad. La semifinale che sogna sembra scontata. In semifinale avrebbe trovato la Stosur, che ha battuto 5 volte su 5. Quindi sembra poter arrivare in finale. E nelle finali, si sa...
Flavia invece perde inopinatamente contro la Kerber, e ancora una volta si ferma ai quarti. In finale arriva la Stosur, che incontra e batte nettamente una Serena Williams inguardabile. Quel Grande Slam avrebbe potuto essere suo. Ma non è col silenzio che si esorcizza la tristezza per un’occasione mancata, e comunque questo non è nello stile di una lottatrice come Flavia. Sono certo che prima o poi ci racconterà per quali alchimie della psiche abbia affrontato il match con la Kerber con tanta timidezza. A proposito: mentre noi sturavamo lo spumante Ferrari, le nostre ragazze erano già impegnate, nell’altro emisfero, nel primo torneo dell’anno. La Schiavone a Brisbane, Flavia e la Errani ad Auckland hanno passato il primo turno. Per ironia della sorte, Flavia potrebbe ritrovare in una eventuale semifinale propria la Kerber, che è dalla stessa parte del tabellone. Tafanus
...a tre anni, a cinque...
Flavia adolescente
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