In occasione dell'imminente evento "La Grande Sfida" ripercorriamo il sogno di Sarita, campionessa che non ha mai smesso di lottare. Dal difficile esordio ai primi successi, fino alla partecipazione a Istanbul. E un posto tra le migliori al mondo (di Michele Alinovi - Tennis.it)
...one penny for your thoughts...
Il conto alla rovescia è iniziato. Tra pochi giorni Sara Errani scenderà in campo per “La Grande Sfida”, esibizione che si terrà il prossimo sabato 1 dicembre a Milano. Alle ore 16:00, nel grande Mediolanum Forum la numero 6 del mondo incrocerà la racchetta con altre tre stelle del tennis femminile: l’inseparabile compagna di doppio Roberta Vinci, la bella russa Maria Sharapova e la serba Ana Ivanovic.
Un anno fantastico, quello della numero uno italiana, culminato con l’ingresso in top ten e la partecipazione al Masters di Istanbul. Qui si era imposta contro Samantha Stosur, prima di arrendersi dopo una sontuosa battaglia di fioretto contro l’astuta spadaccina Agnieszka Radwanska. Una maratona durata oltre tre ore e mezza, dove entrambe avevano dato prova di un tennis stellare e così raro nel circuito femminile. La nostra aveva disputato l’ultima partita del 2012, lottando come sempre. E ne era uscita con onore.
“Sto vivendo un sogno”. Così Sara Errani aveva dichiarato durante la conferenza stampa poco dopo la vittoria sulla Stosur. Il sogno di ogni aspirante tennista professionista che da bambina cerca di ricalcare i prodigiosi anticipi di Agassi contro il muretto del cortile domestico. Il sogno di gareggiare un giorno tra le più forti al mondo, anzi di essere lei stessa una delle più forti al mondo. Forse erano proprio questi i traguardi che, sin da ragazzina, inseguiva a suon di estenuanti fatiche e sacrifici volti a supplire al fisico minuto che la natura le aveva dato.
"E’ di statura troppo bassa, non ha speranza. Serve piano, non tira vincenti, può essere solo una pallettara come tante." Così cantilenavano gli esperti, i sedicenti Professoroni mentre, grattandosi pigramente il colletto inamidato, fumavano un bruno toscanello spaparanzati sugli spalti. Osservavano quella ragazzina dal piccolo corpo e dagli occhi grandi scalpitare e sudare come un trattorino impazzito durante i suoi interminabili allenamenti. E la giudicavano.
Chissà come si dovrebbe essere sentita Sara, davanti a quelle parole leggere, che si confondevano con l’odore così familiare della terra rossa imbrattata sui vestiti. Forse, un po’ turbata. O forse no: perché probabilmente Sara, timida teen-ager qual era, aveva già tuttavia una profonda coscienza del suo valore e della scorza del proprio cuore. E sapeva di certo che, un giorno, li avrebbe smentiti. Che avrebbe spento la loro voce con i boati dei propri trionfi futuri.
E così ha fatto.
Lo ha fatto, per la prima volta, sotto il sole estivo di Palermo, quando si regalava la vittoria del suo primo torneo WTA, nell’ormai lontano 2008, contro Marija Korytceva. Non paga di questo, si è ripetuta appena due settimane dopo, inanellando il suo secondo successo nella cittadina slovena di Portorose, dove ebbe la meglio sull’iberica Medina Garrigues, navigata veterana ai vertici delle classifiche mondiali. Indimenticabile, in questo senso, è il suo discorso durante la cerimonia di premiazione del torneo, quando ribadì per la prima volta al mondo del tennis il suo valore. Rispondendo, in particolare, a quei biechi intellettuali, a quegli arroganti luminari federali che l’avevano troppo prematuramente giudicata solo qualche anno prima. “Dedico questo torneo a tutti gli italiani che hanno sempre detto che ero solo una ‘pallettara’, una che non sarebbe potuta andare da nessuna parte”. Così aveva detto, con la voce rotta dall’emozione.
Appena ventunenne aveva dunque dato prova di avercela fatta. Di aver distrutto coi fatti il vacuo cicaleccio di chi in lei non vedeva alcun futuro. Nonostante questo, diversa gente ancora ricominciava ad ostinarsi, a sospettare. A dire: ‘sì, è stata fortunata, ma se l’avvenire del tennis azzurro è lei, stiamo freschi’. E mentre il panorama tennistico si beava dei successi delle generalesse del tennis nostrano, Pennetta e Schiavone, questa ardimentosa ragazzina macinava vittorie e delusioni nelle retrovie minori. Tuttavia continuava a sognare.
Nonostante la convocazione e le vittorie in Fed Cup, l’ingresso nelle 50 del mondo e una sempre più considerevole destrezza nella disciplina del doppio, Sara non ne aveva abbastanza: sperava che un giorno forse sarebbe potuta essere lei la vera protagonista. Quella che tutti cercano, a cui tutti domandano gli autografi. E che un giorno avrebbe potuto essere amata dagli italiani, proprio lei che per fare carriera aveva dovuto emigrare in terra spagnola, sotto l’ala del coach e amico Pablo Lozano.
La notai anch’io, nei suoi begli occhi, quella fame insaziabile di vittorie. Fu circa un anno fa, il 19 novembre, quando – circondata dal trambusto generale del Palasport di Parma – mi fece un autografo, che conservo tuttora. Al termine di un’esibizione, mentre quasi tutti gli appassionati del tennis in rosa si accalcavano rovinosamente per cercare di scorgere le vip Francesca e Flavia, io mi accodai in mezzo a un gruppo sparuto di dodicenni a cercare quel suo viso che mi ispirava così simpatia e tenerezza. E che lasciava presagire cose grandi. E in effetti, così è stato.
Quante cose possono succedere in un solo anno. La storia recente la conosciamo tutti, evitiamo di dilungarci. Sara Errani, che esordiva nella stagione da numero 45 al mondo affaticandosi non poco contro diafane valkirie per un posto al terzo turno di un qualche International deserto, è oggi una stabile top-ten. Attuale numero 6 al mondo, quattro tornei in singolo, due slam e tonnellate di altri titoli in doppio. Finale all’Open di Francia, semifinale agli Us Open, quarti in Australia. Proprio contro Samantha Stosur – nella semifinale del Roland Garros – aveva messo a segno un altro storico successo, divenendo così la seconda italiana a giocarsi il titolo di uno Slam dopo Francesca Schiavone.
Infine, il Masters. L’ultimo torneo dell’anno, il torneo delle campionesse, delle migliori otto al mondo. Un evento al quale quasi ha rischiato di non poter partecipare, a causa di un infortunio alla coscia destra nel torneo di Pechino. Ma per fortuna il destino le ha sorriso, e dopo tre settimane di stop, ha ritrovato di nuovo la grinta di sempre.
“Sto vivendo un sogno”, sembrano ripetere le sue parole. Il sogno di una ragazzina come tante, il padre fruttivendolo, la madre farmacista. E il fratello Davide, che con lei condivideva la passione sportiva, il tennis lei e il calcio lui. Una famiglia come tante, che persa fra la mite salsedine della campagna ravennate, immaginava spazi troppo ampi da contenere nella propria mente e nelle proprie mani.
Solo poche settimane fa Sara era a Istanbul, a lottare contro le migliori al mondo. Accompagnata dall’inseparabile Roberta e dal fratello, che nel frattempo è diventato il manager di entrambe. Attorno, migliaia di scalpitanti spettatori che gridano il suo nome e applaudono con quegli strani simboli fallici di colore verde chiaro che donano i ragazzi della Wearetennis alle entrate dai tornelli.
Fuori da quel Palasport, milioni di persone davanti ai televisori, ad appassionarsi dinanzi alle gesta di Sarita Errani. Di questa ragazza semplice che non si fa problemi a dichiarare a un settimanale nazionale che Mario Balotelli non è esattamente l’emblema dell’etica sportiva. O che centinaia di migliaia di ragazzini che affollano i Circoli di Tennis storcono il naso davanti al sacrificio fisico preferendo, da “fighetti” quali sono, illudersi di saper imitare uno sventaglio fatato di Federer (pur non possedendone il decimillesimo del talento) piuttosto che rischiare di insudiciarsi la giacchetta emulando le roncole e le corse sfrenate di Nadal.
Perché ha perfettamente ragione. Ok, la diplomazia non sarà il suo forte. Va bene, non se la caverà bene con le parole così come con la racchetta – la sua inseparabile ‘Excalibur’ (quella Babolat Pure Drive che più volte ha indicato come la chiave della sua ascesa).
Ma alla fine, chi se ne importa? Sara Errani è in fin dei conti solo una tennista: un’atleta che sa emozionare. Che sin dall’inizio ha imparato a lottare contro i limiti del proprio fisico e dei numerosi centimetri in meno rispetto alle numerose giunoniche sparapalle provenienti dall’Est. Che ha saputo non credere e, anzi, opporsi a chi la giudicava troppo piccola, troppo inconsistente nella tecnica tennistica, troppo ‘artigianale’ nell’esecuzione di un dritto.
E chi se ne frega se sai servire ai duecento all’ora ma non sai regalare un’emozione? Se eccelli nell’esecuzione di uno slice ma non riesci ad appassionare gli istinti della gente che ti segue da casa?
Sara Errani piace perchè è una persona vera. Ed esprime una passione fervida, intensa, italicamente e ‘zavattinianamente’ nazional-popolare. Anche a costo di sembrare banale. Nessuna sconfitta, da una
Radwanska o Serena ‘qualsiasi’, riusciranno a farle smettere di sognare. Non l’ha mai fatto sin da bambina, quando perdeva per 60 61 da una dodicenne Maria Sharapova con treccine e apparecchio ai denti, durante lo stage nell’Accademia di Nick Bollettieri. Oppure quando, rifiutata dalla dirigenza della Fit, ha dovuto prendere sacco in spalla e cambiare lingua e paese, in quella Valencia che poi non ha più abbandonato.
E proprio per questo ci riesce così facile tifare per lei. Perchè quali che siano i nostri traguardi, piccoli o grandi, sappiamo che per raggiungerli dobbiamo con essa condividere il cuore, l’autentica passione per quello che si fa e che si ama. Grazie Sara, grazie di tutto.
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