Qualche giorno fa Vicka Azarenka, con molto coraggio, ha rilasciato un’intervista al New York Times, ripresa da più agenzie di stampa e siti generalisti di tennis, nella quale raccontava, senza infingimenti, di aver dovuto lottare nei mesi scorsi contro la depressione. Le parole di Vicka sono inequivocabili: “Penso che la parte più difficile era ammettere che non ero ok nel 2014. Mi è stato chiesto anche se fossi depressa ed io ho risposto: Mi state prendendo in giro?. E invece, probabilmente, avevano ragione. Ero depressa perché non sapevo come gestire le emozioni”.
Ma il giorno in cui Vika faceva i conti con se stessa arriva a maggio dello scorso anno, quando la bielorussa si mette e dipingere e scopre sin da subito le proprie debolezze: “Ho pianto appena mi sono messa a dipingere per la prima volta. Non sapevo cosa stavo facendo”. La narrazione della Azarenka ha suscitato le consuete reazioni di negazione del problema che emergono tutte le volte che un atleta famoso mette a nudo la propria fragilità psichica. Non sono mancati su alcuni blog asserzioni completamente ascientifiche del tipo “la depressione non esiste”, o richiami alla impossibilità per uno sportivo di ammalarsi psichicamente, essendo nevrosi e malattie psichiche appannaggio esclusivo di chi fa una vita sedentaria (!!!). Ovviamente sono soprattutto i fans di uno sportivo a non tollerare l’idea che l’eroe in cui si identificano, in cui riversano il loro entusiasmo o, direbbe Freud, la propria libido, possa soffrire delle stesse paure, ansie, fragilità, che affliggono proprio colui che sta incollato alle tre di notte ad un livescore per esultare della vittoria di quella che è l’immagine del Sé vincente, il proprio ideale dell’Io. Il patto segreto che lega il fan con ciascun eroe è il riconoscimento della superiorità di quest’ultimo che, in virtù della sua classe e della sua abilità è in grado di raggiungere quei successi preclusi al tifoso. E’ come se il fan dicesse “Io ti ho scelto perché tu, a differenza di me stesso, sei forte e invincibile...tu mi rappresenti, e non deludermi!”.
Ma se l’eroe è depresso che ne sarà del fan? Due soluzioni: o negherà il problema (“i giornalisti non capiscono nulla, non ha parlato di depressione, era solo triste per l’infortunio), o riverserà la sua rabbia contro il proprio oggetto d’amore reo di aver disilluso le proprie aspettative, e ne diventerà quindi il peggior nemico.
Abbiamo detto che il disagio psichico dell’atleta viene negato, fa paura e non deve esistere. Eppure le storie nel calcio di Pessotto e Di Bartolomei, nella pallamano di Alessio Bisori, hanno fatto entrare il drammatico tema del suicidio, esito precipitante della malattia depressiva (seconda causa di morte nei giovani tra i 15 ed i 24 anni dopo gli incidenti stradali!) nel mondo dello sport, lambendo anche il mondo del tennis due anni fa con il tentato suicidio del fidanzato di Bojana Jovanovski, dopo la fine del loro rapporto. Nonostante tutto, quando pure si assiste a parabole negative di un’atleta che non trovano adeguate spiegazioni tecniche o atletiche, è difficilissimo che venga affrontata in modo serio la questione della salute psichica dello stesso se non attraverso la presenza del mental coach. Il mental coach è una figura rassicurante perché cancella le figure dello psicologo e dello psichiatra, che spaventano l’universo di “supernormalità” dello sport, e trasforma la mente in un organo, anzi in un muscolo, che va quindi allenato come bicipiti e quadricipiti. Il disagio psicologico non esiste, i matti sono gli altri è solo questione di allenamento e strategie motivazionali.
A questa filosofia aderiscono tutti: tecnici, tifosi, giornalisti, preoccupatissimi di dover gestire qualsiasi malattia somigli alla depressione, all’ansia, al panico. Ovviamente non è assolutamente vero che il disagio psichico non colpisca gli sportivi: gli atleti sono degli esseri umani composti di mente e corpo (per alcuni c’è anche l’anima, ma questo è un altro discorso...) che si ammalano allo stesso modo e necessitano di figure mediche specialistiche. Questa rimozione collettiva del disagio psichico nello sport determina nell’atleta la cosiddetta “paura della paura” Ovvero, laddove sente di non essere sereno, di provare delle angosce improvvise in campo o fuori, non ha il coraggio di parlarne e vive in estrema solitudine questo sentimento. Gli stessi colleghi non accettano che un loro rivale possa provare ansie: ricordate l’insofferenza della Sharapova (i cui rituali ossessivi in campo sono da manuale) di fronte all’attacco di panico della Ivanovic nel corso del loro incontro di Cincinnati? Quel medical time fu contestato da Masha: sarebbe stato così nel caso di un intervento del fisioterapista? Eppure l’attacco di panico si presenta proprio come nel caso di Ana: improvviso, invalidante...ma purtroppo invisibile.
Sembra che gli atleti stessi abbiano interiorizzato il divieto di manifestare ansia e angoscia perché evidentemente sanno di non poter godere di ascolto e supporto alle loro paure, e se ne vergognano.
Veniamo al tennis, e a quali sono a mio avviso i disturbi psicologici cui sono maggiormente soggetti i tennisti. Partiamo dal presupposto che la maggioranza dei tennisti in attività ad alto livello ha un’età compresa tra i 17 ed i 32 anni. Secondo studi più recenti nelle società complesse ( o “liquide” come piace ai più acculturati) assistiamo sempre più al fenomeno dell’adolescenza ritardata ed oggi si possono considerare adolescenti i 20/24enni e giovani adulti i 25/35enni. Elemento comune di queste categorie ibride rispetto all’età adulta è la difficoltà di recidere i rapporti familiari che, nella maggioranza dei casi, generano convivenze forzate nelle nostre case, complice la crisi del mercato del lavoro. Nel tennis, più che in altri sport, la solitudine forzata dell’atleta, costretto a girovagare per il mondo 11 mesi all’anno, viene compensata da una maggiore difficoltà allo svincolo psicologico dalle figure genitoriali che spesso navigano nell’orbita degli stessi come coach, manager o assistendo ai match più importanti (pensate all’onnipresenza della famiglia Williams). Questo si traduce in un senso di incompiutezza permanente che vive il tennista sospeso tra una dimensione ancora di dipendenza dall’ambiente familiare, alla totale autonomia di chi cambia fuso orario ogni mese.
Un po’ bambino, un po’ adulto: un cocktail non particolarmente salubre. Il continuo viaggiare è fonte di altri problemi di ordine psicologico: ansia e insonnia si presentano inevitabilmente quando il ritmo sonno-veglia è soggetto a continui mutamenti. Vivere ogni settimana in una città diversa condiziona inoltre negativamente la vita sociale di un tennista, impossibilitato a stabilizzare una rete amicale significativa e costretto ad esperire il vissuto precario di che sente di non avere radici. A questo si aggiunga la diffidenza istintiva che il tennista sviluppa verso chiunque voglia avvicinarvisi, e quindi la difficoltà a costruirsi nuove amicizie, visti gli episodi di stalking che hanno afflitto questo sport, specialmente la disciplina femminile: si pensi al caso di Steffi Graf perseguitata per anni da un “tifoso” morboso, per arrivare al drammatico caso di Monica Seles. E poi ancora l’ansia della prestazione nelle sue varianti di scalare la classifica e di mantenere la posizione raggiunta; la nevrosi del colpo sbagliato; i sensi di colpa verso il proprio coach che diviene figura amata e odiata nello stesso tempo. Fino ad arrivare all’odio verso la racchetta, frantumata quando l’ira ha infranto le barriere dell’Io. Spesso è proprio lo strumento principale di lavoro di uno sportivo a veicolarne i propri sentimenti più ambivalenti. Ricordo il caso da me seguito di una ragazza, campionessa di tiro al piattello, che aveva sviluppato una sindrome fobica nei confronti del proprio fucile da gara: la sola vista provocava in lei una pluralità di sintomi anche somatici, dalla sudorazione, alla tachicardia, finanche alla nausea.
Ovviamente, dietro questa sindrome, c’erano una serie di conflitti profondi che emersero dall’inconscio e che trovarono una loro risoluzione. Ma se non avesse chiesto aiuto, mai sarebbe ritornata alle gare. Ha fatto bene la Azarenka a raccontare la sua storia: la sua sincerità ne accresce il valore, non la indebolisce, e ci insegna, credo, che dovremmo amare gli atleti del cuore proprio a partire dai loro tic, dalle loro paure, non soltanto dalle loro virtù, Perché se abbiamo scelto di fare il tifo per quell’atleta è perché c’è qualcosa in cui ci rispecchiamo, c’è una parte di noi nelle sue gesta. Con queste riflessioni non voglio certo patologizzare il mondo dello sport, tanto meno del tennis, disciplina che io amo. Mi piacerebbe però che i tennisti potessero dare voce alle loro ansie allo stesso modo di come possono lamentarsi di una contrattura: si può confessare a bassa voce che si ha paura senza per forza ricorrere all’urlo di Munch.
Antonios
Ringrazio di cuore Antonios per questo contributo - che pubblico molto volentieri - di cui condivido forma e sostanza. Qualcuno, da qualche parte nel mondo del tennis e di altri sports, potrebbe essere indotto persino a pensare.
Tafanus
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