A noi velisti questi nomi ricordano una delle peggiori tragedie delle regate d'altura
Quando sentiamo i nomi di queste città, a noi appassionati di tennis viene in mente solo l'inizio della stagione tennistica, le assolate spiagge australiane, il Paradiso Terrestre lontano 9 ore di fuso orario dagli inverni italiani. Eppure Sydney e Hobart sono legate da un filo lungo quasi 1200 chilometri. Questo è il percorso di una delle più pericolose regate d'altura al mondo. Fra Sydney e Hobart bisogna passare accanto allo stretto di Bass, che separa l'Australia dalla Tasmania, e a volte quello stretto diventa una specie di "tubo Venturi".
E' stato così che questa regata, che parte il 26 Dicembre di ogni anno, e dura all'incirca due giorni e due notti, nel 1998 si è trasformata in un incubo senza fine. Le notizie e le foto sono sunteggiate dall'articolo di Pietro Fiammenghi del sito solovela.net
Insieme al Fastnet del ‘79, la Sydney-Hobart del ‘98 si è svolta in mezzo ad una delle peggiori tempeste del secolo. La forte corrente contraria, il tifone scatenato, e tra loro, nel temibile stretto di Bass, l’intera flotta
“Una violenta depressione può fare della Sydney-Hobart una regata catastrofica. Non sto parlando delle raffiche che si incontrano normalmente in questa regata, dove i venti si alzano per qualche ora per poi ricalare e tutti arrivano a Hobart raccontando di quanto sia stata dura... sto parlando di condizioni estreme, quando il mare diventa enorme e frange sulle barche. Si creano le condizioni in cui gli yacht attuali subirebbero cedimenti strutturali. Il problema è che per essere leggere, le barche di oggi non sono sufficientemente resistenti. Sono delle grosse e larghe derive che, se capovolte, difficilmente tornano dritte.”
Così Alan Payne, descriveva nel lontano e non sospetto 1990, cosa avrebbe potuto causare l’allora crescente estremizzazione della flotta partecipante alla Sydney-Hobart. La sua “profezia” - analisi severa e precisa - dopo essere stata attentamente letta, venne sapientemente smantellata e tacitamente cestinata.
“Di Cassandre è pieno il mondo” fu ironicamente ricordato al simpatico progettista australiano, ma la teoria da cui si sviluppava la preoccupante profezia di Payne, era purtroppo rigorosissima. Proveniva dalla semplice analisi statistica relativa alle onde che 24 ore di burrasca avrebbero potuto formare nel temibile Stretto di Bass. L’allarmante relazione, comunque, non scalfì neppure l’ostinata mentalità anglosassone, memore del tragico Fastnet del ‘79, allora, tutt’altro che lontano. Non intervenendo, si lasciò che lentamente si creassero i presupposti affinché il peggiore degli scenari possibili, si potesse avverare. In buona sostanza, bastava attendere pazientemente che il destino facesse il suo corso, lasciando che accadesse l’incontro di quelle barche con quelle onde, nel posto prescelto: lo Stretto di Bass.
UNA REGATA STORICA - La Sydney-Hobart, più che una regata è una festa nazionale. La prima edizione, quella storica, fu disputata pochi mesi dopo la fine della seconda guerra mondiale, era il lontano 1945 e vide alla partenza 9 pesanti yacht costruiti in robusto legno. Da allora fu un crescendo rossiniano, ma il vero salto qualitativo avvenne solo nel 1962. Quello infatti fu l’anno in cui, la regata assunse l’internazionalità che gelosamente serba a tutt’oggi. Sino a quella data, era stata una riuscita ricorrenza nazionale, nulla più. Una festa che accompagnava gli australiani dal “Boxing Day” - il giorno di Santo Stefano - sino a Capodanno. Tutti gli anni, dal ‘45 a oggi, senza soluzione di continuità.
La partenza della regata, viene data all’interno della splendida baia di Sydney. Alle ore 13 del 26 dicembre, praticamente al culmine della calda estate australiana. L’intera flotta allora, si accalca verso la stretta uscita della baia e non appena girata la boa di disimpegno, si lascia scivolare sospinta dalle calde correnti del nord, lungo la costa sud-occidentale australiana, per poi attraversare il temuto Stretto di Bass e raggiungere infine Hobart, la capitale della Tasmania. In tutto, 630 miglia nautiche praticamente dritte verso sud. Rotta per 190° e via. Detta così sembra la corsa dell’asino. In pratica, la Sydney-Hobart è ben altro: è un enigma ben difficile da districare.
L’ENIGMA - Durante la soffocante estate australe, la calda corrente proveniente dal Mar dei Coralli, forma un enorme fiume tiepido parallelo alla costa e diretto verso sud. Lambisce prima il Queensland e poi il Nuovo Galles - il lato più occidentale della terra dei canguri - per infine incontrare al largo della Tasmania, le gelide correnti provenienti dal Polo Sud. La sua intensità, l’elevata temperatura e la sua ampiezza rendono questa corrente significativa sia per l’intero microclima della Tasmania stessa che per i fenomeni, talvolta esplosivi, che si scatenano nello Stretto di Bass, quando ingenti masse d’acqua tanto diverse si scontrano. Le porzioni di atmosfera che queste poderose correnti influenzano, sono la causa prima dell’enigma tattico al quale la regata da Sydney a Hobart sottende. La regata tipica, a quelle latitudini di confine tra flussi caldi e freddi, impone un’attenta analisi meteorologica per approfittare maggiormente sia della veloce corrente che scorre parallelamente alla costa, sia del classico salto di vento che s’incontra in prossimità dello Stretto di Bass. Infatti, anche per il vento, il copione è spesso prevedibile. Spira anch’esso normalmente da nord-est alla partenza, consentendo agli yacht di volare sotto spinnaker per le prime ventiquattrore di regata quindi, in corrispondenza dello Stretto di Bass, inverte la sua direzione e la flotta impatta contro le gelide correnti provenienti dai quadranti meridionali. Il freddo vento del sud è originato da piccole bolle d’aria antartica che normalmente restano intrappolate tra il fronte caldo costiero e la catena montuosa che scorre a est nell’entroterra australiano. Queste saccature fredde, all’interno di un’estesa area calda, producono delle vigorose “fiammate meridionali” che solitamente selezionano la flotta e redigono la classifica finale. In sintesi, il classico “Colpo da Sud” tipico dello Stretto di Bass. Chi sfrutta al meglio la forte corrente iniziale, riuscendo poi ad approfittare tatticamente del salto di vento, vince la regata.
LA REGATA DEL ‘98 - La cinquantaquattresima edizione della Sydney-Hobart, quella del 1998, sembrava seguisse il classico sviluppo meteorologico tipico di questa prova d’altura. La brezza da nord-est, l’iniziale corrente favorevole e il previsto salto di vento in prossimità dello stretto. Tutto secondo copione. Eppure, un’incertezza marcata veniva mantenuta sulla probabile direzione del nuovo vento meridionale. Un’anomalia meteorologica, prodotta dal diverso sviluppo ipotetico, che i vari modelli matematici fornivano, del cammino di una vasta saccatura polare. Tecnicamente, si trattava di un’ampia zona di aria fredda in quota, intrappolatasi proprio a sud-est dello Stretto di Bass. La cosa di fatto non sembrò pericolosa, o forse, sarebbe più corretto asserire che non venne ritenuta tale. Aumentò unicamente il fascino tattico correlato all’interpretazione del salto di vento previsto. Anzi, focalizzò l’interesse mediatico sulle strategie che gli yacht di punta avrebbero attuato per approfittarne al meglio. “Una variabile in più”, commentarono simpaticamente i cronisti presenti e così, sotto un sole cocente, alle 13 del 26 dicembre 1998, venne completata la procedura di partenza e dato il via. I centoquindici yacht iscritti, tagliarono regolarmente l’allineamento di partenza inseguiti da un nugolo di festanti curiosi. Rapidamente gli yacht uscirono dall’affollata baia e dopo aver doppiato la boa di disimpegno, issarono i loro grandi spinnaker colorati, lanciandosi fiduciosi verso sud. Le velocità erano eccezionali. La brezza tesa da grecale, unitamente alla poderosa corrente del Mar dei Coralli, li faceva planare, con medie superiori a quindici nodi. Se nella notte il previsto salto di vento non avesse eccessivamente rallentato i grossi maxi, sarebbe stato anche possibile migliorare il prestigioso record di 2 giorni e 14 ore, siglato dal maxi tedesco “Morning Glory”, solo due anni prima.
L’EVOLUZIONE DEL QUADRO METEO - Poche ore dopo il via, però, la situazione iniziò a perdere i connotati vaghi e ottimistici che avevano caratterizzato il pre-partenza. La fredda saccatura in quota iniziò a ruotare più velocemente e a rallentare il suo cammino, dirigendosi stranamente proprio dentro lo Stretto di Bass. Sui vicini altopiani di Victoria, la mattina del 26 dicembre, nevicò. Qualcosa di più unico che raro stava avvenendo, che neppure le previsioni meteo del pomeriggio del 26 colsero. L’annunciato colpo di vento da sud rimase, infatti, quantificato sui 30 nodi, anche se leggermente deviato verso ovest. Il tutto nel corso della notte, per poi attenuarsi nuovamente l’indomani mattina. Insomma, nulla di veramente anomalo per lo stretto. La regata quindi continuò agguerrita e veloce. Verso sera, stranamente, il vento da grecale non diminuì affatto, anzi, s’intensificò notevolmente sino a raggiungere i 35 nodi. Eppure, per la serata, prima era stato previsto un calo e poi addirittura un vento opposto. Dove finiva tutta quell’aria che continuava a soffiare? Sembrava quasi che un'enorme ventola aspirasse tutto quel vento. Tra timori e dubbi sempre più assillanti, la sera del 26 gli scafi più veloci - i maxi yacht - planavano ormai a oltre 26 nodi, fra violenti temporali e accecanti fulmini. Fu allora che il bollettino serale annunciò un’intensificazione del nuovo vento da libeccio proprio nello Stretto di Bass con punte, per il giorno successivo, di quasi cinquanta nodi. Il quadro meteomarino stava rapidamende evolvendo, allineandosi inesorabilmente col bistrattato studio statistico effettuato otto anni prima da Alain Payne.
LA FIAMMATA MERIDIONALE - Tra l’una e le tre di notte, il preannunciato vento da sud-ovest si sostituì alla forte brezza di nord-est, investendo la flotta in pieno. Dal lasco, le barche, si trovarono ben presto in bolina stretta, proprio dentro allo Stretto di Bass. Malgrado il deteriorarsi progressivo della situazione meteorologica, nessuno aveva però chiaramente inquadrato la drammaticità di ciò che madre natura stava architettando.
La fredda saccatura in quota - notata i giorni precedenti - unitamente al suo centro di vorticosità, si accrebbe spingendosi da sudest sempre più dentro l’angusto stretto. Questa evoluzione aveva originato un sistema ciclonico il cui epicentro si approfondiva rapidamente. Una forte corrente a getto, in alta quota, aspirava più aria dal sistema ciclonico di quanta ne entrasse dalla base. Era stata proprio questa aria fredda, sottratta al vertice della saccatura, a far cadere la neve durante la calda estate australiana. La veloce corrente a getto, succhiando aria, continuava a caricare il sistema come un’enorme molla. Il tutto era ormai pronto a esplodere e sulla sua traiettoria, nello Stretto di Bass, stava transitando la parte più numerosa della flotta. Il centro della bassa, ormai quasi svuotato dalla corrente in quota, continuò a implodere durante tutta la notte e all’alba del 27 le isobare quasi si sovrapponevano tanto erano ravvicinate. Il vertice depressionario sprofondò a 978 millibar. Il continuo processo estrattivo instaurato dalla corrente a getto, aveva sì rinfrescato per qualche giorno la torrida estate australe, ma aveva anche originato il più catastrofico dei fenomeni atmosferici: il tifone.
A QUALE MODELLO CREDERE? - Dei tre modelli sperimentali adottati per le previsioni meteorologiche australiane, quello statunitense aveva chiaramente ipotizzato, sin dal 21 dicembre, un probabile coinvolgimento dello Stretto di Bass nel sistema ciclonico insorgente. Ma purtroppo, da giorni, anch’esso aveva intrapreso quella inflessibile procedura toccata precedentemente alla funesta profezia di Alan Payne. In breve, era stato sapientemente sottovalutato e ignorato. Nella notte del 26 però, la situazione si sviluppò esattamente secondo quanto anticipato dalla previsione statunitense; peccato che questa ormai giacesse sul fondo del cestino dell’immondizia. Il quadro meteo peggiorò costantemente e la flotta, male informata, trovandosi praticamente dentro lo stretto, sperò semplicemente di uscirne al più presto, non invertendo la rotta per cercare immediatamente riparo a ridosso della costa.
L’APOCALISSE - All’alba del 27 il cielo era plumbeo. I maxi in testa alla corsa erano ormai tutti entrati da ore nel nuovo vento. Stavano navigando sotto una pioggia battente in bolina larga, tormentati da un vento da sud-ovest vicino a cinquanta nodi. Ma erano fortunati: stavano attraversando lo stretto in condizioni ancora gestibili. Il ciclone, infatti, non aveva ancora terminato di caricare la sua enorme molla e non stava ancora dando il meglio di sé, liberando tutta l’energia accumulata. Questa premura l’avrebbe riservata a chi si fosse trovato da quelle parti, appena qualche ora più tardi. Nel corso della precedente nottata, le vele da regata, erano state prima ridotte, poi terzarolate e quindi completamente ammainate. Al loro posto erano state issate quelle da tempesta. Ma non bastò comunque.
Domenica 27, verso mezzogiorno, il vento aumentò notevolmente. Raggiunse i sessanta nodi e non accennò neppure per un attimo a calare, anzi, a tratti la sua intensità divenne esplosiva. Gli anemometri toccarono ripetutamente gli ottanta nodi mentre gli alberi delle barche iniziarono anch’essi a toccare sempre più frequentemente la superficie dell’acqua. Le onde, montate durante la notte, divennero autentiche pareti liquide alte oltre dodici metri - e quel che è peggio - rese maledettamente ripide dalla forte corrente contraria. Quanto descritto da Alain Payne si stava puntualmente avverando. Le avarie non tardarono a farsi sempre più frequenti e gravi. Ai primi disalberamenti patiti nel corso della mattinata, seguirono con crescente frequenza le richieste d’aiuto per l’insostenibile situazione creatasi. Nel primo pomeriggio, più di una ventina di yacht erano ormai passivamente in balia degli elementi. I frangenti che investivano le barche erano talmente potenti da farle rovesciare più volte come tappi di sughero. Persino il furioso vento da sud-ovest sembrava poca cosa rispetto al rumore e al terrore che i frangenti incutevano.
La situazione era insostenibile. Inizarono a essere lanciati i primi MOB (Man Over Board; “uomo in mare”) mentre, stritolate dalla potenza delle onde, una decina di barche subirono irreparabili danni strutturali. La situazione stava precipitando. Le barche, ormai quasi tutte disalberate, non erano più fisicamente in grado di resistere a quel mare. Le carene si creparono in prossimità dell’attacco del bulbo e iniziarono a imbarcare acqua. In alcuni casi, agli scafi vennero letteralmente strappate intere porzioni di tuga, la chiglia e persino i verricelli.
Paradossalmente, quando ormai semiaffondate, le imbarcazioni trovavano una stabilità insperata. Il peso della massa d’acqua imbarcata e il ridotto bordo libero, gli consentivano di resistere più efficacemente alla furia dei marosi. Gli sforzi disperati degli equipaggi, unitamente a questo incredibile particolare, diedero in molti casi agli elicotteri delle forze armate australiane il tempo di intervenire e salvare oltre cinquanta vite umane. La furia del mare era tale che persino le poche zattere di salvataggio utilizzate, venivano sventrate dalla violenza dei frangenti, lasciando i naufraghi disperatamente abbracciati ai soli tubolari rimasti ancora gonfi.
AIUTATI, CHE DIO TI AIUTA - Emblematico al riguardo, quanto accaduto al 43 piedi “Sword of Orion”. A bordo avevano da poco deciso di ritirarsi, il vento a ottanta nodi e un mare mostruoso avevano fatto chiaramente capire all’equipaggio di essere in serio pericolo di vita. Dopo aver invertito la rotta, mentre navigavano verso la costa, solo due persone ben legate restarono in coperta. La barca però sembrava impazzita, già la sola tormentina la rendeva soprainvelata e a tratti planava a venti nodi nel cavo delle onde. Fermarla o solo rallentarla, era impossibile. A un tratto il 13 metri venne colpito violentemente. La barca si mise prima sul fianco quindi, trascinata dall’onda, si ribaltò completamente. La parte finale dell’enorme frangente che l’aveva rovesciata, investì l’unica parte momentaneamente emersa dello yacht: la sua chiglia. Il nuovo tremendo impatto ricacciò violentemente il bulbo dove avrebbe dovuto essere, ovvero sottacqua. Ribaltata, schiacciata e violentemente raddrizzata dalla stessa onda, “Sword of Orion” si ritrovò infine nuovamente dritta. Il “giro della morte” subìto e la potenza del frangente però, l’avevano drammaticamente violentata. L’ampio pozzetto, era stato pressato dentro la barca stessa. L’albero, impattando violentemente sull’acqua, si era spezzato in più parti e oblò e osterigi erano tutti esplosi. Dentro, se possibile, era andata ancora peggio. La barca era irriconoscibile. C’era un disordine paragonabile unicamente a quello delle auto gravemente incidentate. Sembrava fosse esplosa una bomba. Si era completamente delaminata la struttura portante e taglienti fibre di carbonio sporgevano minacciose dalle paratie e dalle lande. Lo scafo si era spezzato in due trasversalmente, imbarcando molta acqua. Oltretutto, fatto molto grave, buona parte dell’equipaggio nella violenta scuffia a 360° era rimasto ferito.
Uno dei due uomini che in quel momento erano in coperta, era stato sbalzato in mare e la sua cintura di sicurezza strappata. Ora galleggiava tramortito a soli trenta metri dal relitto, ma sopravvento a questo. I tentativi di lanciargli qualunque appiglio per tentare di recuperarlo, erano semplicemente ridicoli. Il vento creava un muro insuperabile. Era esattamente come lanciare una cima dal finestrino di una macchina in autostrada. Poi, una seconda onda pose fine all’agonia del naufrago.
Per i restanti nove membri dell’equipaggio era iniziata una nuova gara. Da una parte l’acqua, dall’altra loro. La sgottavano in tutte le maniere, a turno, a coppie e con qualsiasi cosa. Utilizzavano le mani, le pompe manuali, i buglioli, i secchi e persino i cassetti che galleggiavano disordinatamente all’interno dello scafo ferito. L’idea di utilizzare le zattere apparve a tutti immediatamente un autentico suicidio. L’imperativo era quindi uno solo: tenere quel relitto a galla. L’Epirb era stato attivato ma era difficile che in quel marasma i soccorsi arrivassero immediatamente. Due ore più tardi, verso sera, arrivò un gigantesco elicottero militare. In quaranta drammatici minuti - oscillando verticalmente in perfetta sintonia con l’enorme moto ondoso - recuperò tre uomini, i fratturati più gravi. Ma poi, la carenza di carburante impose un rapido rientro alla base. Per gli altri sei naufraghi, quella fu una notte eterna. La barca semiaffondata e disalberata, reggeva però il mare meglio di prima. I naufraghi mangiavano e sgottavano, cercando di farsi coraggio per non farsi prendere dal panico e dallo sconforto, tentando anche di resistere all’ipotermia che la seconda notte di tempesta stava regalando. Segarono il sartiame per liberarsi dei monconi dell’albero e utilizzarono un pezzo del tangone per puntellare la tuga che stava letteralmente implodendo. Incredibilmente, tennero a galla quel relitto delaminato per altre sei lunghissime ore. La stanchezza, però, li aveva inebetiti. All’alba, un nuovo elicottero era pronto a recuperarli, ma alcuni di loro, erano così provati che svennero mentre venivano issati a bordo. Rinvenendo, si accorsero di non aver sognato e di essere stati tratti realmente in salvo da questi grigi “angeli meccanizzati”. Dopo aver vissuto queste esperienze, molti regatanti necessitarono di un adeguato supporto psicologico prima di poter tornare alla vita normale.
I SOCCORSI - Alle prime luci dell’alba del 27 dicembre, si capì immediatamente che solo un miracolo avrebbe potuto evitare una strage. Furono quindi rapidamente attivate tutte le procedure per tentare di ribaltare una situazione oggettivamente molto compromessa. Erano parecchie le barche da regata che avevano attivato gli Epirb e si trovavano, o rischiavano di trovarsi, nella situazione dello “Sward of Orion”. La Marina e l’Aviazione Militare australiana vennero direttamente chiamate in causa in modo massiccio. Tempestivamente numerosi elicotteri militari Sea King e Sea Hawk si levarono in volo. Nello Stretto di Bass, a duecento metri di quota, il vento sfiorava i 100 nodi e il cielo nuvoloso e cupo si mischiava scompostamente con la pioggia torrenziale e le onde enormi. La visibilità era ridottissima, per non dire quasi nulla. Cercare visivamente le barche, anche se tutte confinate in una ristretta area, era oggettivamente impresa disperata. Fortunatamente gli Epirb - i segnali di richiesta di soccorso - furono ricevuti e velocemente localizzati dagli aerei logistici, levatisi appositamente in volo. Gli elicotteri, inviati esattamente sulle coordinate di emissione dell’impulso radio ricevuto, poterono efficacemente intervenire per trarre in salvo i regatanti ormai trasformati in naufraghi feriti. Lo stato del mare era tale che i rotori, dopo ogni singola missione, dovevano essere scrostati dai depositi di sale che si posavano quando gli elicotteri scendevano alla quota operativa per effettuare i recuperi. Nebulizzato dal vento, il mare saturava l’aria di acqua salata, per decine di metri d’altezza, rendendo difficilissime anche le operazioni più banali. Feriti nei ripetuti rovesciamenti e sfiniti per l’improba lotta sostenuta, i naufraghi ormai stremati furono recuperati grazie a una serie d’incredibili - quanto coraggiose - operazioni di salvataggio e trasportati all’aeroporto di Merimbula.
DAY AFTER - Cinque yacht affondarono. Decine subirono danni strutturali tali da essere cancellati del Registro Navale Australiano, e sei regatanti persero la vita. Un dato questo che non ha assunto toni ben più gravi, grazie unicamente alla determinazione dei velisti e all’abilità degli elicotteristi.
Durante l’uragano furono registrati venti sino a 97 nodi e onde di 80 piedi (circa 24 metri). Forse, sarebbe stato il caso di sospendere la regata o almeno di ritardare la partenza. Chris Dixon, timoniere di “Sayonara” - primo yacht arrivato a Hobart - ritenuto uno degli skipper più duri e famosi del mondo, disse piangendo di essere semplicemente felice di essere ancora in vita. Un epilogo emblematico per definire una regata che aveva perso qualsiasi significato agonistico. Dopo questa “regata”, i parametri meteomarini, relativi all’influenza di una corrente contraria rispetto alla direzione del moto ondoso creato da una perturbazione, furono rivisti profondamente e resi notevolmente più conservativi.
__________________________________________________________________________________
Alcune nozioni per i non velisti - Le barche da regata d'altura da anni diventano via via più veloci, più leggere, più fragili. Le barche "sbandate" raramente finiscono col capovolgersi, per tre motivi fondamentali:
- -a) Man mano che lo sbandamento della barca aumenta, il bulbo di zavorra aumenta il proprio "braccia di leva" verso il basso, e lavora a raddrizzare l'imbarcazione;
- -b) con l'aumentare dello sbandamento, la barca immerge sempre di più la "pancia" sottovento, e riceve una spinta al raddrizzamento per il principio di Archimede;
- -c) una barca molto sbandata abbassa notevolmente sia la superficie velica esposta al momento orizzontale del vento, sia il centro di spinta velico
Questo succede alle belle barche classiche di una volta, che rassomigliavano a barche. La tendenza - da anni - è quella di fare barche sempre più larghe e meno zavorrate, affidando il raddrizzamrnto allla "stabilità di forma" piuttosto che alle tonnellate di piombo nel bulbo. Diventano più leggere, planano più facilmente, e la planata diminuisce la "superficie bagnata" della parte immersa della barca, e quindi l'attrito e la resistenza all'avanzamento.
Tutto bene? Si, finchè la barca non sbanda oltre il punto di non ritorno. Poi mette l'albero in acqua, e spesso si capovolge totalmente, comportandosi più come un catamarano che come un monoscafo. Poi è catastrofe.
E veniamo al vento: la velocità del vento è misurata in nodi (miglia marine all'ora). Un miglio marino è pari a 1,852 chilometri. Questo significa che quando gli equipaggi hanno affrontato raffiche ad 80 nodi, hanno affrontato un vento reale di quasi 150 chilometri all'ora.
Un'altra nozione: la forza di spinta esercitata dal vento cresce col quadrato della velocità del vento stesso: se - poniamo - la mia ultima barca poteva reggere randa e genoa massimo (80 mq complessivi) fino a velocità del vento di 20 nodi, a 40 nodi doveva ridurre la velatura non a 40 mq ma a 20; e a ottanta nodi di vento, se non si fosse spaccata, avrebbe retto al massimo 5 mq di velatura. Questo dovrebbe essere sufficiente a capire cosa sia nsuccesso nella drammatica tre giorni della regata del 1998.
Alcune drammatiche immagine della regata
Tafanus
Ultimi commenti